“Essere capiti fino al limite disumano”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Cesare Pavese gioca a eludere, disseppellisce specchi, esagera gli enigmi – consapevole che l’enigma è la quintessenza dell’agonismo verbale greco, speculare all’oracolo. Così, quando scrive il risvolto per presentare Dialoghi con Leucò, al ‘santino’ – “Cesare Pavese… testardo narratore realista, specializzato in campagne” – sostituisce, per ustione, l’autentico, lo scrittore che stana “i suoi quarti di luna, il suo capriccio, la musa nascosta”, che asseconda il lato oscuro – ovvero, meridiano – del mondo e dà credito al miracolo, all’eccentrico, che si scopre “eremita” e “si è ricordato dei libri che legge ogni giorno, degli unici che legge”. Confessione pia nel retro dell’anonimato: Pavese, infine, ha finto, ha recitato tra le rovine e i salotti dell’impegno, a sinistra, per scontare vivendo la morte di tanti amici – Giaime Pintor, Luigi Capriolo, Gaspare Pajetta, il giovane allievo –, ma la sua via è il bosco. “La politica non teneva un gran posto nella sua vita interiore… Non quanto qualche parola di donna… non quanto il mitico, bruciato paesaggio delle Langhe”, scrive Massimo Mila, a cui Pavese aveva scritto, il 10 novembre del ’45, a proposito della sua prossimità al Partito Comunista, “Ho finalmente regolato la mia posizione iscrivendomi al PCI”. Regolare; come a dire, essere in regola, nel reggimento, con la mia posizione nella società del tempo. Più peso, piuttosto, ha quell’altro aggettivo: mitico.
Poco dopo l’iscrizione al PCI, con cupo istinto, Pavese attacca a scrivere i primi “dialoghi”: Le streghe è del 13-15 dicembre 1945. Circe racconta a Leucò di quando Odisseo le ha insegnato “quel gioco degli scacchi… tutto regole e norme ma così bello e imprevisto… Lui mi diceva sempre che quel gioco è la vita”. D’altronde, gli dèi giocano con gli uomini e “il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo”, annuncia Eraclito. Il gioco sembra sottrarsi al giogo; in sé contiene il caos e la norma, il caso insidiato dalla strategia. Pochi mesi prima Pavese aveva inviato una lettera a Ernesto de Martino: è entusiasta della “Collana etnografica che faremo”, la “collana viola”, che vuole inaugurare al più presto. La collana nascerà nel 1948, pubblicando Il mondo magico di De Martino, L’io e l’inconscio di Carl Gustav Jung, L’anima primitiva di Lucien Lévy-Bruhl. Proprio la Mythologie primitive di Lévy-Bruhl è un testo centrale nella formazione di Pavese: è la fonte de Il dio-caprone, poesia del 1933, raccolta in Lavorare stanca. “La campagna è un paese di verdi misteri”, attacca il poeta, redigendo un regesto pagano: il sesso – “Le ragazze anche godono, a farsi toccare” –, la biscia, le capre, il caprone, la luna, il fuoco, il sangue, la terra, ne fanno un mitreo in miniatura, in versi.
“La bestia è più vicina a noialtri immortali che non l’uomo intelligente e coraggioso”: è ancora Circe che parla, nelle Streghe. “La bestia che mangia, che monta, e non ha memoria”. A dire che un unico movimento, una sola motivazione anima l’opera di Pavese – è lui a denunciare, tra l’altro, la “fondamentale e duratura unità in tutto quanto ha scritto o scriverà… caparbietà monotona di chi ha la certezza di aver toccato il primo giorno il mondo vero, il mondo eterno” –, l’istinto panico, l’ispirazione sciamanica, la nostalgia del vagabondaggio a quattro zampe, quando tutto era uno e l’uomo si confondeva con l’agnello e con il lupo, e dalla pietra, per affezione, sgorgava l’acqua e il fuoco, e il regno dei contrari lo modulava il poeta. “Sei la vita e la morte”. Semplicemente, mutano le formule – cioè l’armatura del sortilegio. Il linguaggio della terra – i romanzi del consueto canone: Feria d’agosto, La casa in collina, La luna e i falò – e quello del fuoco, che polverizza la terra, braccio giallo e blu che evolve verso il cielo e incenerisce chi si avvicina senza inginocchiarsi – i Dialoghi. Quando si legge Pavese non ci si può sottrarre da questo turbinio torbido, dove la rivelazione meridiana si alterna al trabocchetto: nel ‘popolare’, d’altronde, s’imprime il mito, s’impone. Così Blincin, la maschera di Canelli, il paese mitico de La luna e i falò, è l’ennesima, carnevalesca, trasfigurazione di Pan: “Gran burlone, gran bevitore, mangiatore… un impenitente importunatore di donne” (Luciano Gallo Pecca), grosso, seduttivo, ferino, autentico trickster che in pieno Seicento viene assediato dai cornificati, rapito e messo al rogo. Il fuoco purifica la risata stentorea di Blincin nel crepitio; ma il sommo beone che concupisce le donne nei campi è destinato a risorgere, impenitente, perché tutto è terra, sangue, umori, sudori; tutto è vita e morte, tutto è bestia.
Nei penetrali esoterici di Pavese – “Compagno, hai mai guardato con spavento e con voglia la natura di una lupa, di una daina, di una serpe?”, sussurra, terribilmente, Endimione – si entra come nella cruna dell’enigma. Tutto è lì, in fondo: la letteratura come enigma. Per una sfida tale occorre un linguaggio appropriato – e soprattutto: espropriarsi di quanto si è scritto fino ad allora, sbendare le pose, sbandare in un deserto di allucinazioni e di chiodi, esporsi. “L’enigma è un attacco mortale contro il sapiente, è il suo grande pericolo… La penetrazione dell’intelletto sembra il valore supremo, e per uomini che misurano tutto sul metro agonistico, è qui che si scatena la gara suprema. Decifrare ciò che è nascosto, questo è il senso della vita” (Giorgio Colli). Per un attimo le moine dell’intellettuale smettono di essere elaborate malinconie (“Non resta, agli artisti, che rivolgersi e ispirarsi all’epoca in cui non erano ancora artisti, e questa è l’infanzia”, scrive Pavese nell’album privato, Il mestiere di vivere, letto, comunque, da tutti, pur a rovescio, di sbieco, in polveriera di lauti elogi, alla stregua di un pettegolezzo, che evocò “grande e indiscreto clamore”, come ha scritto Cesare Segre, il quale, pur dicendo altro, non poté non insistere sul torvo cliché del suicida “in uno dei più noti alberghi di Torino… al termine di una relazione burrascosa con un’attrice cinematografica americana” rimarcando i “motivi di attenzione persino morbosa”). La cruda nostalgia di rimirarsi sempre in colui che ha già vissuto, convivendo in un corpo improprio, si deforma in prodigio, scrittura che accenna, accelera, si smarca, oracolare, bianca alla comprensione, teurgica. Pavese orfico, già, che si aggira come lo stregone delle Langhe, trova le falde buone, snoda le serpi, smorza i veleni in antidoto, conosce il covo dei rapaci, l’invisibilità delle volpi, ed è diga ai venti che avvincono il raccolto.
Tutto converge, ruota, è riassunto nei Dialoghi, che del corpus di Pavese sono la ferita nel costato, mezza luna di sangue, da cui passare per accedere al sacrario. Tutto, appunto, si depone attorno a Leucò: la precocissima traduzione del Prometheus Unbound di Shelley e i giochi linguistici dentro la Teogonia e gli Inni omerici; la tesi di laurea su Walt Whitman – il poeta panico, pagano, del corpo, del sesso, dell’eros e della democrazia – e il corpo a corpo con la Balena Bianca, il grande romanzo misterico – in cui Melville fonde la cerca del Graal con la caccia e il sacrificio del dio-bestia –, la lettura, nel 1933, del Ramo d’oro di Frazer, fondamentale, “uno dei capisaldi nell’elaborazione della sua teoria del mito” (Mariarosa Masoero) e il lavoro di revisione, negli ultimi anni, dell’Iliade affidata a Rosa Calzecchi Onesti. Negli Stati Uniti Pavese non cercava alleanza politiche, un West della letteratura fitto di pionieri, operai e ‘situazione sociale’; era tentato, piuttosto, dalla terra vergine, dallo sconfinato, dal nuovo mondo, dalla possibilità – così prossima in Whitman, in Thoreau, in Melville, in Faulkner – di piantare il mito, di attualizzare i misteri, di dormire leali al segreto.
Aveva ragione – per lo meno, per defezione – Tibor Wlassics, in quella sagace stroncatura dei Dialoghi pubblicata nel 1985 dal “Centro Studi Piemontesi”. Le “letture antropologiche” di Pavese che fondano il libro sono “asistematiche e in parte dilettantesche”; “i miti greco-latini… sono invero solo bei nomi carichi di destino”; “quell’erudizione classica è molto meno formidabile di quel che di solito si crede”. Tutti gli elementi che per Wlassics sono deprecabili – compresa “l’ambigua stilizzazione pseudoclassica” della scrittura, costellata di “ossessioni pavesiane” – contribuiscono, piuttosto, a fare dei Dialoghi un libro illimitato, anomalo, privo di imitatori. Memorabile. A differenza di Robert Graves – che ricostruisce il ‘genio’ pagano – o di Ghiannis Ritsos – che raccoglie lacerti mitici tra i cocci, in un’abbacinante oggi, tra le cose semplici e le passioni prime – Pavese lavora con gli assoluti. Il suo linguaggio è depurato, cristallino, apocrifo. Al netto delle frasi puramente sceniche, dialogiche – quelle meno felici – Pavese costruisce una Grecia beckettiana, di pietrificati aforismi, un cosmo in gesso: quanto dice Achille potrebbe andare in bocca a Eros, a Dioniso, a Virbio. A Pavese non interessa caratterizzare i personaggi, che appaiono come visioni pallide, mirabili morgane, esito di rivelazioni istantanee e codarde. Piuttosto, Pavese pare scrivere un manuale neopagano, il codice che evoca il tempo in cui gli dèi scorrazzavano nei campi, agguantavano gli umani, in assalto, dagli alberi, in un assolo di ferocie. I Dialoghi con Leucò non sono dialoghi: una liturgia, diremmo, il formulario per accedere a quel mondo perduto, per riaccenderlo. Il libro, dunque, va sottoposto all’estro alchemico, va setacciato per far evaporare le scorie conservando il raro, il prezioso verbo. “La stessa luce che ti ha fatto frugherà il mondo, implacabile, e dappertutto ti mostrerà la tristezza, la piaga, la viltà delle cose. Su di te veglieranno i serpenti”; “Meglio soffrire che non essere esistito”; “Non conosci la strada del sangue. Gli dèi non ti aggiungono né tolgono nulla. Solamente, d’un tocco leggero, t’inchiodano dove sei giunto. Quel che prima era voglia, era scelta, ti si scopre destino. Questo vuol dire, farsi lupo”; “Né il vigore delle piante né la luce del lago mi bastano. Queste cose son come le nuvole, erranti eterne del mattino e della sera, guardiane degli orizzonti, le figure dell’Ade”; “Tutti gli dèi sono crudeli. Che vuol dire? Ogni cosa divina è crudele. Distrugge l’essere caduco che resiste. Per svegliarti più forte, devi cedere al sonno. Nessun dio sa rimpiangere nulla”. L’autentico modello di Pavese sono le memorie occasionali di Marco Aurelio, le lamine orfiche, la prosa compassata di Plutarco, le raccolte di detti evangelici, i raffinati scolî bizantini – una prosa che ritroviamo, pur con altra tensione narrativa, in quella sfera d’anni, nell’opera di Marguerite Yourcenar. Nei Dialoghi Pavese non narra, opera: perché la formula si avveri, però, ci vuole il sacrificio. Da quel libro al suicidio la strettoia è inevitabile.
Del mondo greco, i Dialoghi sono specchio cupo. “Nell’antichità lo specchio è stato tramandato come simbolo dell’adeguatezza della pienezza noetica del Tutto. Per questo dicono che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”, rivela Proclo. Eppure, lo specchio – le parole sono inaffidabile specchio di ciò che dicono, raffigurano – deve essere infranto affinché il creato ricominci: bisogna ferirsi e coltivare magioni di ossari. “I Misteri di Dioniso sono del tutto disumani”, scrive Clemente Alessandrino, ma è proprio quello, il disumano – il sesso e il sangue, i campi e gli inganni, il rito e il tradimento, il segreto e la sua dissimulazione, l’oblio e l’obliquo –, che Pavese racconta. L’ultimo stadio perché l’uomo divenga dio è farsi bestia, esautorare il ferino nella regale potenza del presente, nella bellezza della preda. “E credi ai mostri, credi ai corpi imbestiati, ai sassi vivi, ai sorrisi divini, alle parole che annientavano?”, è la domanda che chiude l’estremo dialogo. Bisognerebbe emergere muti da questo libro, con alfabeto disarticolato, e imparare la dignità della marcia a quattro zampe. Misteri simili – non rinnegamento di sé, ma mutamento – accadono anche in certe accensioni cristiane, non prive di pericoli. Dalla raccolta dei Detti e Fatti dei Padri del Deserto, curata nel 1975 per Rusconi, Cristina Campo estrae questo testo, “una delle più brevi e grandi prose che mano abbia tracciato”: «Vi era nel deserto un anacoreta che pasceva coi bufali. Rivolse a Dio questa preghiera: “Signore, insegnami ciò che mi manca”. E una voce gli disse: “Entra nel tal cenobio e fai quel che ti diranno”. Egli entrò dunque nel cenobio e vi rimase. E non conosceva nulla del lavoro dei monaci, sicché i monaci cominciarono a insegnargli i vari lavori e gli dicevano: “Fa’ questo, idiota! Fa’ quello, vecchio stolto”. E, afflitto, egli disse a Dio: “Signore, il lavoro degli uomini io non lo capisco, rimandami dai bufali”. Dio glielo consentì ed egli ritornò alla campagna a pascere con i bufali. Laggiù, gli uomini avevano teso delle reti. Alcuni bufali vi caddero dentro e, a sua volta, vi cadde dentro l’anziano. Gli venne il pensiero: “Tu hai le mani, sciogliti dalle reti”. Ma poi rispose a quel pensiero: “Se sei un uomo, ti sciogli e vai a vivere con gli uomini. Ma se sei un bufalo, allora non hai mani”. E restò nelle reti sino al mattino. Quando gli uomini vennero a prendere i bufali, alla vista del vecchio furono colti da terrore. Lui non disse parola. Lo sciolsero e lo lasciarono partire. Fuggì correndo dietro i bufali».
Gli uomini possono preferire la bestia; gli dèi anelano l’uomo e sanno polverizzarsi, fugaci icone di un sogno maldestro. In questo mondo di contraddizioni senza rilancio né riconciliazione si muove Pavese. “Il grande Pan è morto!”, urlano davanti a Tamo, un mercante fenicio, all’epoca di Tiberio, come narra Plutarco. Il mercante conosce i labirinti del linguaggio e l’energumena menzogna; chi va in mare sa che la morte per acqua ringiovanisce. Anche gli dèi, come gli scrittori, a volte, vogliono morire – perché sia lussureggiante la resurrezione.
*Si pubblica per gentile concessione la Nota dell’editore all’edizione Aragno dei “Dialoghi con Leucò” di Cesare Pavese (2021)