A tratti, Álvaro Mutis sembra un Joseph Conrad sudamericano. Nato a Bogotà nel 1923, figlio di un diplomatico di stanza a Bruxelles, Mutis ha alternato gli studi in Europa – da qui la passione, catartica, per Valéry Larbaud – a lunghe vacanze nella foresta colombiana (“vissi in una finca di piantagioni di caffè e canna da zucchero che aveva fondato mio nonno materno”), la sua vera iniziazione alla scrittura (“Tutto ciò che ho scritto è destinato a perpetuare, a celebrare, a ricordare questo angolo di terra calda da cui emana la sostanza stessa dei miei sogni, delle nostalgie, dei terrori e delle mie gioie”). Non è aliena da avventure – seppur di statuto modesto rispetto ai suoi libri – la vita di Mutis: accusato dalla Esso, per cui lavorava, di aver usato impropriamente fondi aziendali, lo scrittore scappa dal suo paese, si trasferisce in Messico. Tuttavia, viene arrestato, e detenuto nel carcere di Lucumberri per quindici mesi: dall’esperienza, trarrà, va da sé, un libro, Diario de Lecumberri (1960). All’epoca, aveva già pubblicato una delle sue raccolte poetiche più belle, Gli elementi del disastro (1953; tradotto in Italia da Le lettere, nel 1997), dove appare il suo alter ego onirico, Maqroll il Gabbiere, specie di Marlow conradiano, dalle vestigia lorde di ambizioni ambigue, dalle oceaniche nostalgie sudamericane, reprobo al proprio tempo, in perenne esilio, mendicante di peccati tra Anversa e la Cordigliera delle Ande, tra i mercati d’Oriente e gli abissi (anche metafisici) della foresta, mefistofelico idolatra della carne e del rammarico. Quel libro, permise a Mutis l’ammirazione pressoché incondizionata di Octavio Paz e di Gabriel García Márquez; Fabrizio De André rimodulerà i versi di Mutis in una delle sue canzoni più struggenti, Smisurata preghiera (è l’ultima canzone dell’ultimo album, Anime salve).
A Maqroll, Mutis dedica frammenti poetici – qui ne abbiamo tradotto uno, finora inedito in Italia, tratto da Rassegna degli ospedali d’Oltremare, 1955 – e romanzi (La neve dell’ammiraglio, Ilona arriva con la pioggia, Un bel morir, ad esempio), che gli consentono gloria e lo congedano da ulteriori lavori oltre la scrittura. Per un periodo, in Messico – dove ottiene cittadinanza e ospitalità – Mutis lavora come direttore vendite per il latinoamerica della Twentieth Century Fox; dai suoi romanzi trarranno alcuni film, non belli.
Mutis ha vinto tutti i premi immaginabili, tranne il Nobel, è morto nel 2013; Adelphi ha tradotto una sua folgorante, gotica raccolta di racconti, La casa di Araucaíma.Il libro più bello, tuttavia, è incorporato nella ‘bianca’ Einaudi – numero 239, anno 1993 –, s’intitola Summa di Maqroll il Gabbiere: poesia che ti si contorce al collo, di un cartesiano finito a vivere nella giungla, passato dalla geometria all’arte di addestrare i boa. Tuttavia, oggi Álvaro Mutis è una specie di scomparso, di incompreso: i suoi libri si rintracciano, qua e là, ma chi ne parla, ormai? All’avventura, ormai, preferiamo le battaglie sociali, infine insipide, alle ispirazioni guidate dal niente il mero metallo dell’utile, all’azzardo l’azzeramento (anche verbale). Quanto a lui, con stola antimoderna, diceva:
“Non ho mai partecipato alla vita politica, non ho mai votato e l’ultimo fatto che a dire il vero mi preoccupa in questo campo e che mi riguarda e interessa in modo pieno e sincero è la caduta di Costantinopoli per mano degli infedeli il 29 maggio 1453”.
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Nel fiume
Il Gabbiere traeva una certa consolazione dai rapporti con la gente. Riversava sopra gli ascoltatori la malinconia dei suoi lunghi viaggi, la nostalgia dei luoghi cari alla memoria, da cui distillava le scarne ragioni per restare vivo.
Ma fu all’Ospedale del Río che imparò ad amare la solitudine, a riscattarla, a vedere in essa l’unica, imperitura sostanza dei suoi giorni. Fu sul fiume che imparò ad affezionarsi alle larghe ore del sognatore solitario, inquisitore subacqueo, appeso a quel filo di chiarezza che sorge da una vigilanza priva di compari o testimoni.
L’Ospedale era stato costruito sulle rive di un vasto rio, navigabile, che valicava le interiora di un paese costellato da miniere, i cui prodotti scendevano lungo le coste in casse arrugginite, spinte da un rimorchiatore che ogni settimana risaliva la corrente con la lenta e ostinata fatica di un asmatico.
La regione era popolata da grandi alberi dal tronco pallido, foglie verdi perennemente tenere che davano poca ombra e riparo dal sole implacabile dei tropici. Il lungo edificio era costruito con un tetto di paglia e muri di mattone, per ospitare i malati che provenivano dalle miniere, reduci da crolli ed esplosioni, derelitti, insomma, caricati sul rimorchiatore, diretti al mare, anelando la salvezza, un soccorso che facesse risorgere, pur per breve tempo, le loro vite spezzate, miserabili. Le miniere erano in disuso, il rimorchiatore dilatava i suoi percorsi: fu allora che il Gabbiere approdò in quei luoghi, stabilendosi nelle enfiate baracche, occupate da una doppia fila di letti corrosi dalla ruggine, dalla lama verdastra e tiepida nata dall’umidità, grata a quell’aria carica di impalpabili e violente materie vegetali.
Il Gabbiere curava ferite catalogate sulla via dei bordelli del porto quando, ubriaco, insistette nel dichiararsi a una negra vecchia e sorridente, dai seni languidi, all’ingresso del tempio, con espressione assente e intontita.
Dandosi al fiume, rifugiatosi nel rimorchiatore in partenza, il Gabbiere era riuscito a liberarsi da una muta di parrocchiani inferociti. Tuttavia, un coltello gli aveva perforato il ventre per due volte, il braccio glielo avevano spezzato lungo le gradinate del tempio.
Mentre si curava le ferite, il Gabbiere meditò a lungo sulla ruota dei suoi anni. I mestieranti sul rimorchiatore lo mollarono, allucinati dalle visioni che tormentavano i giorni e le notti del Gabbiere, minato dalla febbre e lavorato dall’antica angoscia, che si rinnovava sempre alle fonti della sua maniaca lucidità, frutto di un perpetuo esilio.
Al mattino, il fiume era coperto da una nebbia lattiginosa, che si dissipava non tanto per impulso della brezza, che non scollinava mai dalle alte catene montuose, ma dal soffio metallico che annuncia il lebbrosario del sole durante la breve stagione delle piogge. Frutti amari, pesce dal crudo sapore di fango, infuso di foglie di aranci selvatici infecondi erano il cibo dei convalescenti.
Da quella solitudine ruminata a lungo, nelle lunghe giornate passate a decifrare le sferiche macchie con cui l’umidità mitragliava i muri di mattone, il Gabbiere traeva insegnamenti duraturi e un’attitudine, sempre più accentuata, a stare solo. Sapeva, ad esempio, che la carne assorbe le ferite e lava via ogni traccia del passato, ma non può nulla per lenire la memoria e i piaceri dei corpi a cui si è unita.
Imparò l’intatta nostalgia dei corpi goduti, e che dalle ore del disordine della carne nasce una verità dalla sostanza speciale, su cui il tempo non ha alcun ascendente o sedimento. Volti e nomi si confondono, azioni e dolci sacrifici fatti per chi un tempo si è amato svaniscono, ma il rauco grido di gioia continua a elevarsi, risillabando l’antica litania, come le sirene della baia sulla soglia del porto.
Quando i ricordi irrompevano nei suoi sogni inquieti, quando la nostalgia cominciava a confondersi con la materia vegetale che lo assediava, quando il corso silenzioso delle acque fangose lo intontiva per buona parte della giornata, ampliando un vuoto in cui desiderava mettere alla prova la materia della propria accurata solitudine, il Gabbiere saliva sugli altipiani, visitava i pozzi delle miniere abbandonate, gridava nomi di donne e imprecazioni oscene che risonavano felpate lungo le pareti dell’abisso.
Si perdeva nella brughiera ricoperta da un vento che spargeva semi secchi e foglie enormi, rivestite da una calda peluria perlacea. Una pattuglia di militari lo salvò dalla morte quando, tentando l’ultimo fiotto di calore dal proprio sangue, che a malapena circolava in quel corpo emaciato e scuoiato, si era rannicchiato tra le rocce, al riparo dal sole della cordigliera.