“Arriva zampettando, senza accorgersi nemmeno di essere vivo, arriva tutto sbregato, tagliato dappertutto – le cicatrici partivano dallo stinco destro e salivano, aprendosi maestosamente come una piazza, sul petto”. Questo l’inizio del romanzo di Emanuele Tonon, Il nemico, pubblicato da Isbn nel 2009. Sembra che descriva un animale malmesso arrivare verso di noi, farsi strada nella visione seguendo la segnaletica delle cicatrici. Un animale che si è fatto trentaquattro anni di fabbrica di sedie, “trentaquattro anni e cinque mesi di puro orrore”. L’animale è uomo, è il padre.
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Sappiamo da subito che Tonon strappa la pietà tenera da commiserazione e la butta nella spazzatura. Il nemico è dentro e fuori di te, il nemico sta nel ventre, sta anche in Dio. “Io studiavo il suo corpo, le sue cicatrici con la passione precisa di un teologo: cioè cercavo i segni di Dio nella sua carne tutta sbregata”. Una paziente una volta mi ha detto che il suo corpo aveva la geografia del dolore. Nel corpo puoi trovare tutte le forme di sofferenza, per quelle segrete basta premere forte nelle giunture degli arti. Un punto che cede lo trovi sempre. “Il corpo di mio padre era l’esatta manifestazione di Dio nel mondo: niente”: quando l’escursione nella ferita non arriva a trovare l’arcobaleno si capisce che ci sono vite per cui il dolore non porta a nessuna meta di luce. Qui sta l’inganno dei secoli, l’inganno dei preti. È la luce del mondo che divora l’uomo, “Il buio. Imparare a memoria le stanze. Il buio è scuola, bisogna imparare ad amarlo, il buio, il buio educa al silenzio, educa al proprio sterminio, alla propria sparizione”. L’uomo può prendere fuoco, incendiarsi per quegli attimi di felicità e credere di potersi aprire un passaggio al buio esteriore. “Ci ostiniamo a essere nessuno”, a fare il tragitto casa – lavoro in questo deserto di luce, esposti. L’armatura contiene il nostro niente, permette di attraversare la luce.
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Settimo, il padre, è malato di cancro per colpa del lavoro in fabbrica. Quegli anni dedicati al padrone non hanno restituito niente, solo un conto alla rovescia che va più veloce di come dovrebbe essere. Il nemico è un romanzo che dice la perdita digrignando i denti, annaspando sotto metri di neve bianca. “Se io ho commesso il male abbandonando mio padre alla propria morte (perché io non potevo impedirla, non potevo sostituirmi a Dio) l’ho commesso poiché era scritto che io lo commettessi. (…) Non mi giustificano le opere: le opere manifestano solo il male da cui Dio, per puro miracolo, trae il bene, indipendentemente dalla sua stessa, divina volontà”. La perdita di un padre è anche la perdita di un altro grande padre, o meglio della sua idea. Il Dio non salva, l’operaio continua a morire soffocato dal muco giallo della sua condizione, il padrone si salva sempre, anche da morto abita nel lusso della sua bara, senza rigurgiti di sangue e saliva sul petto. Una storia questa di Tonon che stringe in una stessa morsa la questione sociale delle fabbriche, la crisi di fede e la crisi di una paternità mancata. Tutto in questo libro è privazione e assenza. Un libro che è esattamente come trovarsi nelle scale di Escher: domande si aprono su altre domande, alla sofferenza non c’è né ragione né cura, alla morte non si risponde alcuna nuova vita. “Quel niente che sa tutto nel portarsi addosso il male, come una cosa necessaria, come un’abitudine, come una malattia”. Il male lo si porta addosso, non esiste un luogo in cui poterlo lasciare, non lo si abbandona.
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Settimo che porta dentro il male trova rifugio in Dio da questa invasione. Lo stesso Dio che per il narratore è qualcosa o qualcuno a cui ormai non si tenta nemmeno una domanda. Un libro che può apparire aggressivo e feroce, un libro che in realtà è un lungo e costante lamento a Dio. L’atto di fede forse sta in questo: affondare nella domanda. Quando ho iniziato a leggere La luce prima di Tonon, il primo libro che ho letto di lui, ho pensato che per poter superare la sola prima pagina fosse per me necessario avere qualcuno di fianco, qualcuno che avesse cura di me. Per Il nemico è quasi lo stesso, ma qui la cura non basta. Va letto in solitudine totale, bisogna affogare nella domanda. “Poi hanno lasciato mio padre a cavalcioni su di un lettino, tutto spogliato, eccetto le mutande. Solo lì ho capito cos’è la paternità e, di conseguenza, la figliolanza. La paternità è quel bisogno di stringere, di proteggere, di salvare dal male. La figliolanza è questa seduzione continua del male”. La perdita del padre chiama l’istinto alla conservazione, generare per trattenere. Ma qui niente può essere trattenuto davvero. E il padre morto non si ripete nel figlio di suo figlio, ne Il nemico persino l’idea felice della nascita è negata.
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Nella seconda parte abbiamo una Sacra Scrittura alternativa, questo vangelo dell’annientamento. Questa nebbia di luce esterna che acceca e il buio della casa dove trovare tregua. Ci sono due corpi, marito e moglie, che hanno cura reciprocamente di un niente che è il loro secco involucro di pelle. Rimane una foresta ordinata di gesti, ripetuti come l’ultimo rito sacro possibile. L’impossibilità di generare è il nodo di questa seconda parte, l’assenza del figlio è scavare nei gesti quotidiani fino a seppellirsi dentro. “Non è possibile sopportare quello che hanno da dire i morti. Il nostro martirio notturno è questa sopportazione impossibile. Cominciamo a dormire abbracciati, io e la mia sposa muta, ci svegliamo dandoci la schiena”. Se il sonno può sembrare la zattera della tregua in realtà è solo un’altra regione abitata dal silenzio. La sposa muta non parla quasi mai. A un certo punto chiede “Non provi pietà per le cose che muoiono?”. Una domanda che arriva come una lancia negli occhi. La pietà in questo libro è stata esiliata con tutta la forza possibile, e qui sbatte in questa domanda come un passerotto disorientato dal vento sulla finestra di vetro. Sbatte per ritrovarsi le ali, picchia il becco per ricordarsi come si fa, a chiedere aiuto, a volare.
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Un uomo che prima era frate e poi questa donna, la sposa muta, ha mani che sembrano giuste, ha mani che gli accarezzano il volto: “Io ero stato un frate, non avevo mai conosciuto mani ad accarezzarmi il volto. (…) Non so, non ricordo come ha fatto a morire, so solo che un giorno qualcuno le ha saldato perfettamente le ossa, le ha denudato il cervello. Meglio, so perfettamente cosa ha chiuso la sua vita. Il suo ventre sterile. Io sono stato creato per essere custode della sua sterilità”. Un uomo che tenta la strada della rinuncia alla paternità, torna indietro e accoglie questo istinto ma rimane soltanto il custode della “soluzione definitiva al dolore”.
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A questo Dio che toglie il padre e il figlio, che priva quest’uomo di entrambi i ruoli, Emanuele Tonon risponde con questa sua Sacra Scrittura alternativa. Una scrittura che scaglia la rabbia, stringe i denti e li mostra come i lupi. Questo libro è un lupo: vi guarderà coi suoi occhi gialli, saranno lampi nascosti, nemmeno il rumore vi salverà.
Clery Celeste
*In copertina: Georges de la Tour, “Maddalena penitente con candela”, 1640