“L’esegesi” è l’ultima opera di Philip K. Dick, che l’autore non vedrà pubblicata, e che probabilmente non avrebbe neanche voluto rendere nota. Nel 1974 il giornalista Paul Williams, sulla rivista rock “Rolling Stone”, aveva scritto un lungo articolo-intervista che cominciò a far coagulare intorno alla figura irregolare e profetica dello scrittore le prime avvisaglie di un interesse che in pochi anni si sarebbe esteso a livello planetario, specie dopo l’uscita del film “Blade Runner”. Fama da cui, del resto, Dick non poté trarre alcun vantaggio – lui che aveva sempre avuto problemi economici, dai quali peraltro in quel periodo aveva appena cominciato a districarsi – dal momento che morì prematuramente nel 1982.
Paul Williams andò a trovare lo scrittore nella cittadina dove viveva, a Fullerton, nei pressi di Los Angeles, e venne investito dalla verve affabulatoria di PKD che per quattro giorni riversò su di lui un flusso ininterrotto di teorie, contro-teorie, ipotesi bislacche, fantasie, deliri, una sorta di frutto secondario dell’intenso lavorìo mentale e scrittorio che germinava notte dopo notte nelle pagine degli ultimi lavori che lo scrittore di Berkley stava maturando in quel periodo. Oltre alla citata “Esegesi”, l’incredibile e irraggiante “Trilogia di Valis”.
Fu proprio Paul Williams a scoprire sul tavolo dello scrittore l’enorme massa di fogli in parte scritta a mano in parte dattiloscritta, che negli ultimi otto anni Dick aveva radunato per un totale di quasi novemila pagine scrivendo di notte fino alle quattro-sei del mattino e che intitolò, appunto, “L’esegesi”. PKD, si sa, era un grafomane (l’ipergrafia, e l’iperreligiosità, la neurologia ha poi scoperto essere uno dei sintomi dell’epilessia del lobo temporale. Ma da qui a supporre che malati di quel morbo fossero i più grandi artisti e santi… perversione del paradigma scientifico? Comunque, i neurologi l’ipotesi l’hanno fatta), era in grado di scrivere un romanzo di 150 pagine in una settimana. Certo, si aiutava; la chimica gli forniva innumerevoli opzioni. Pillole per tenersi sveglio e attivo durante la scrittura; per acquietarsi, dopo. Una volta, così racconta Emmanuel Carrère in “Io sono vivo, voi siete morti”, biografia romanzata dello scrittore americano, aveva provato anche l’LSD. Ma era entrato in un inferno dal quale, a sentire quelli che gli stavano intorno, erano emersi solo confusi spezzoni di discorsi in latino (e Dick non conosceva il latino).
Si narra che una volta Timothy Leary, il mentore della psichedelia come paradigma del cambio di stato di coscienza che l’umanità, secondo lui, era in procinto di compiere, chiamò Dick per complimentarsi a proposito de “Le tre stimmate di Palmer Eldritch” che aveva appena letto (così almeno racconta Carrère nella sua biografia, anche se nella prefazione a “Ubik”, per la nuova edizione recentemente uscita da Mondadori, sostiene invece che oggetto dei complimenti fosse quest’ultimo romanzo – ah, vedi a non confrontare i propri stessi scritti…); e pare che con lui, a sperticarsi in lodi, entrambi “completamente fumati”, si trovasse nientemeno che John Lennon, entusiasta all’idea di ricavarne un film – il film – psichedelico. Dick si divertiva molto a narrare questo episodio, quasi non credendoci egli stesso. In effetti gli era venuto il dubbio che la telefonata fosse stato lo scherzo di qualche burlone, ma poi si ricordò che il sedicente Lennon gli aveva parlato del nuovo disco che stava incidendo con i Beatles, e di un brano, in particolare, che parlava proprio di un viaggio da acido. Così quando uscì “Sgt. Peppers Lonely Heart’s Club Band” e sentì la canzone “Lucy in the Sky with Diamonds”, Dick si ricordò che quei titoli, all’epoca ancora sconosciuti, li aveva già sentiti citare nella famosa telefonata.
Phil attraversa quegli anni passando di casa in casa, di moglie in moglie, di romanzo in romanzo si potrebbe dire in estrema sintesi, tanta è l’irrequietezza che muove la sua vita. Cominciarono presto, i motivi di irrequietezza, a partire dal divorzio dei genitori fino al trasferimento a Washington da Chicago, dov’era nato, e da lì a Berkeley, California, dove approda con la madre quando ha dieci anni. Quella che all’epoca era una piccola città universitaria era già fucina di idee libertarie e d’avanguardia; Dorothy, sua madre, pacifista e femminista, ci si trovò benissimo. Ed è a Berkeley, lo sanno tutti, che si avvertono di lì a qualche anno i primi fermenti del movimento studentesco che contagerà poi Stati Uniti ed Europa. Ma Dick a quel punto è già andato via, a Point Reyes, un villaggio a “sessanta chilometri a nord del Golden Gate Bridge”. La decisione di trasferirsi là, con Kleo, la sua prima moglie, era maturata dopo che il quartiere in cui la coppia viveva si era fatto, per le esigenze di Phil, troppo caotico. Da un lato il chiasso dei bambini della nuova scuola montessoriana che sorgeva di fronte a loro, dall’altro la nuova superstrada dell’Embarcadero – tonnellate di cemento che ferivano la vecchia bellezza della Baia – la cui costruzione diffondeva un frastuono poco sopportabile e irritava Dick per lo scempio che così si stava compiendo.
Quella dell’Embarcadero è la stessa superstrada che sconvolge per un lungo momento il signor Tagomi nel romanzo “La svastica sul sole”. Il funzionario del governo giapponese è perso nella contemplazione del “magico” ciondolo d’oro che ha appena acquistato da un antiquario (un americano che vende agli occupanti giapponesi reliquie della vecchia America, del periodo precedente la guerra, quando gli Stati Uniti non avevano ancora subìto la sconfitta totale ad opera della Germania nazista, nel 1945…), quando vede ergersi davanti agli occhi, di colpo, quella assurda e per lui totalmente sconosciuta costruzione, il ponte della superstrada appunto, che nel suo mondo non esiste. È uno svelamento che dura poco, presto tutto torna alla “normalità”. Ma il lettore di Dick è abituato a chiedersi a ogni piè sospinto, e in ogni romanzo, dov’è, e che cos’è, la realtà?
La realtà storica come tutti la conosciamo, quella emersa alla fine della Seconda guerra mondiale, non si è mai manifestata nell’universo in cui vivono i personaggi del romanzo, dove invece si è imposto un “contromondo” in cui le potenze dell’Asse hanno stravinto su tutta la linea. Un contromondo brutale e sinistro, governato con pugno d’acciaio ancora da Hitler, ormai malato e in punto di morte e, in futuro, da chi sta per succedergli.
La realtà-come-noi-la-conosciamo viene intuita e rappresentata, in quel contromondo, nel romanzo di un oscuro scrittore, noto solo ad alcuni adepti: in questo romanzo la guerra l’hanno vinta gli anglo-americani, in un mondo che è il nostro mondo. Ecco il tema del testo che svela, del libro come fonte di conoscenza, portatore di verità, che torna nell’opera di Dick declinato in vari modi, fino al caso limite dell’“Esegesi”.
A partire dal febbraio-marzo 1974, Dick ebbe a sperimentare una serie di strani fenomeni sensoriali ed extrasensoriali; esperienza di stati di coscienza “altri” rispetto a quello di veglia, alla cosiddetta “realtà”. Intanto, l’evento che gli provoca l’“anamnesi” (il risveglio, in termini platonici): il gioiello d’oro a forma di pesce (ricordate Tagomi?) che scorge un giorno al collo di una giovane commessa di farmacia mentre lei gli consegna a domicilio un antidolorifico contro il mal di denti. Quel gioiello, la sua contemplazione stuporosa, mentre Phil per un lungo momento rimane stordito in piedi sulla porta davanti alla commessa, assume la funzione di un “codice da sempre preparato per disinnescare il modulo dell’oblio, e avviare il programma che mi riportava alla realtà”.
Dopo questo “innesco”, una notte vede materializzarsi davanti agli occhi una serie velocissima di immagini perfettamente definite in tutti i particolari, dai colori supervividi, che lui paragona alle opere di pittori come Kandinsky e Klee: ma è qualcosa di mai visto e che supera in fantasia e colore qualsiasi quadro del genere. Il flusso di immagini lo tiene avvinto per molte ore (lui dice otto) nel cuore della notte. Poi, e sono cose notissime agli appassionati di Dick, un giorno riceve attraverso l’azione altamente informativa di un lampo di luce rosa che gli attraversa gli occhi chiusi l’esatta cognizione (e ne trarrà una diagnosi formulata con precisa terminologia medica, a lui peraltro ignota) di un problema di salute congenito e grave che riguarda Chris, il figlio di tre anni. La patologia, che era stata fino a quel momento ignorata dal pediatra che aveva avuto in cura il bambino, dopo l’attenta visita di un chirurgo venne confermata e risolta la notte stessa con un’operazione urgente: “suo figlio avrebbe potuto morire da un momento all’altro per la strozzatura di un tratto di intestino”, gli dice il dottore dopo l’operazione.
Si potrebbe continuare a lungo nell’elenco delle strane esperienze occorsegli tra febbraio e marzo del 1974 (vi farà poi sempre riferimento come ai “fatti del 2-3-1974”), citando per esempio la personalità che comincia ad “abitare” Dick e che lo spinge a cambiare abitudini alimentari, a fargli perdere peso, a rendere più efficace il rapporto col proprio agente letterario. Questa personalità, benefica, lui la chiama Thomas, ed è convinto si tratti di un cristiano della Roma del I secolo dopo Cristo. Non una reincarnazione, ma una presenza concreta che vive in quello stesso momento a Roma mentre lui è a Fullerton, Los Angeles, nel 1974 e che gli dà cognizione di una lingua sconosciuta (che si rivela poi essere greco della koiné, parlato nella parte orientale dell’Impero romano nel I secolo d.C.). Phil conclude, in “Valis”: “Questo significa che il mio corpo si trova simultaneamente in due continua spazio-temporali differenti o che non è da nessuna parte”.
In chi si inoltri nell’opera sterminata di PKD dopo un po’ capita di notare non casuali, anzi insistite e quasi maniacali, corrispondenze tra fatti e accidenti della propria vita e l’opera. Non solo le tracce autobiografiche che egli dissemina nelle storie e nei personaggi (cosa peraltro comune a molti scrittori). Per esempio colpisce il fatto che gli eventi del 2-3-1974 somigliano incredibilmente a molte situazioni da lui narrate in passato nei suoi stessi romanzi. Una sorta di capovolgimento del rapporto arte-vita. Lo scrittore confesserà poi che era perseguitato dall’idea che gli stessero capitando fatti che rispecchiavano in maniera inquietante molte delle sue trame romanzesche.
Nei romanzi di Dick ci si imbatte spesso in ragazze di cui il protagonista immancabilmente si innamora; hanno tratti comuni: esili e muscolose, con i capelli neri lisci e lunghi, occhi scuri (così alcune donne importanti della sua vita). Si trovano spesso riferimenti all’arte della ceramica o della gioielleria – e due delle sue mogli o innamorate avevano avuto a che fare con queste forme di artigianato; si trova tanta musica, quella che da onnivoro consumatore di dischi Dick ascoltava e che per qualche anno gli aveva fornito di che vivere quando aveva lavorato come commesso in un negozio di dischi di Berkley.
Altro aggancio: Angel, la protagonista femminile de “La trasmigrazione di Timothy Archer” è titolare di un negozio di dischi e comincia il suo lungo percorso doloroso e in qualche modo espiatorio il giorno stesso in cui viene ucciso John Lennon. La musica aleggia continuamente nelle pagine di Dick ed è il riflesso dei suoi ascolti: i Beatles appunto, ma anche John Dowland (Flow my tears era uno dei suoi brani preferiti, che darà il titolo al romanzo “Scorrete lacrime, disse il poliziotto”); i lieder di Schumann (In der Fremde); Schubert (Viaggio d’inverno), fino ad arrivare alla apparente stranezza di una osannante predilezione (pare anche erotica) per Linda Ronstadt (invano scriverà più volte alla casa discografica per poterla conoscere) e Olivia Newton-John. Non risulta invece che fosse rimasto impressionato dalle nebulose trine del prog o dalle grandinate di metallo del punk.
Del resto non si fa fatica a capire che Dick era un tipo per così dire anche “divorato” dalla malinconia, una malinconia da periodo barocco, di cui la musica di Dowland (ma anche i versi dei poeti metafisici inglesi del XVII secolo: Herbert, Vaughan, che Dick amava) è forse una delle espressioni più alte. La malinconia di chi, nonostante la sconvolgente teofania del 2-3-1974, a cui era però seguito il silenzio, il vuoto, si sente ancora lontano da Dio, o meglio da VALIS (acronimo per Vast Active Living Intelligence System), come lo aveva rinominato, o da Zebra (altro nome di suo conio per la stessa realtà-esperienza), e lo cerca con tutte le proprie, residue, forze?