In un altro dei miei deliri, pensavo che noi, siamo della città gli invisibili maestri del niente. Per gli altri, siamo intoccabili eremiti. Stravaganze da additare. Parametri del cielo. Ci chiamano ragazzi anche a cinquant’anni. In effetti ‒ vallo a capire ‒ dimostriamo sempre molti meno anni di quelli che abbiamo. Dove ci porterà il futuro? Siamo noi, lo sguardo sull’ignoto. Chi ci aiuta ha bisogno di redimere il proprio passato. Chi ci aiuta, ama veramente? O, ama l’ideale che sottende. Probabilmente, non si capisce ancora quello che rappresentiamo per il mondo. Quale, mondo? L’acqua scorre ugualmente. Si ha capienza di nuvole, noi quaggiù. L’effimero non è il nostro pane. Sguinzagliati per il pianeta, eravamo cani perduti. Ora, siamo l’oro del millennio che tarda a riconoscersi in qualcosa di autentico. Propendere all’abbraccio, sarà il gesto da compiere vicendevolmente. La tempesta porta i nostri nomi tra le vie della Storia. Della tempesta siamo il vanto. Il vuoto, ci ha risputato a terra, quali mostri; malvisti. Saremo i fiori nuovi delle nostre solitudini. Fiumi di quarzo al crepuscolo dell’altro mondo. Camosci al cospetto di Dio. Crisalidi baciate dal vento.
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Ho avuto l’onore di amare donne folli; compagne di lavoro, la cui follia non era ultima a gesti eroici. Sull’argomento C, era però intransigente. Si doveva fare tutto di nascosto. Altrimenti non si poteva. Sicché ho amato M, la sua ingenuità e la sua potente baldanza. Possedeva una paura effervescente, perché l’ex marito, oltre ad andare con l’amante, la picchiava spesso. Io e M, ci siamo voluti bene, nel tempo effimero di dirci grazie. Abbandonandoci all’ascolto di qualche sera, e a una notte d’amore finita troppo presto. A volte la paura te la trascini dietro. E ti fa aver paura di amare l’ignoto cuore umano che ti si inginocchia davanti. Fragile quanto te, impietrito dal male passato, che ritorna a scorticare ferite gialle e vene di cobalto.
Dopo di che ho amato A, col riserbo della lontananza. In certi attimi, basta sfiorarsi per aprire mondi nascosti. L’amore è ribellione. Dimostratemi il contrario. Ciò mi ha permesso di amare anche altre donne al di fuori della cooperativa, e di nutrire un desiderio fin troppo lontano per sembrare vero.
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Poi. Quando l’amore finisce, ti metti a cercare qualcuno che ti possa essere amico. Ed è sempre impresa da titani. Cercare qualcuno, dico. O si è come noi, o contro di noi. Le eccezioni rimangono appunto eccezioni. Mentre penso questo, contemporaneamente, a Tijuana, un bambino cade in un vecchio pozzo di scolo. Anche l’Oceano Pacifico è scosso dalla notizia, che rimbalza ormai in tutto il mondo. Si stanno organizzando squadre di soccorso. Lo psicologo è appena giunto sul posto. Si tenta di far arrivare al ragazzino acqua e viveri. Ma cercare ‒ penso ‒ è vanto da poeta, brivido che corrompe stormi di farfalle, roba da misconosciuti delle strade. Non incontri nessuno in grado di reggere il tuo urto. E ciò mi scandalizza, fa male. Perché, santo dio!, si può veramente restare soli tutta la vita? Magari sì. Vado a scoprirlo. Intanto, il bambino imprigionato nell’imbuto del pozzo di scolo, urla, singhiozza allo psicologo che ha freddo, che è tutto buio intorno, ha paura e vuole la sua mamma. Alla stessa ora italiana, dall’altra parte dell’Oceano, Mariapia parla dolcemente al cocorito, ricordando quello strano poeta che amò per un istante, nella casa sui Navigli…
Lo confesso: in un’altra delle mie dissolute vite, ho raggiunto Mariapia, che dice di aver bisogno di me. Vuole creare un archivio con tutto quello che ha fatto di buono per la letteratura femminile italiana. Suono il campanello della palazzina, e mi fa salire. Trovo all’ingresso un filippino, che ha il compito di pulire casa. Lei, intanto ‒ follemente divina ‒ mi accoglie trasandata, sorridendo. La poetessa m’incontra in uno dei suoi momenti più difficili, del quale sarà lei a raccontarmi. Per questo mi faccio ascolto, orecchio attento, servo altrui della dimenticanza. Il pavimento e tutte le stanze della casa, sono disseminati di collant arrotolati. Il disordine regna ovunque. Mariapia, gentilmente mi prepara un caffè. Ah, quanto sarei fiero di vivere in una casa come la sua! Dico sul serio. Una casa da poeti ‒ non per altri. C’era polvere provvidenziale, tanti libri e disordine. Non importa. Il filippino era lì apposta per rimettere tutto a lucido. Se avessi anch’io una casa tutta mia, anche più piccola: sarebbe il punto di partenza per un nuovo inizio!
Bevuto il caffè, le chiedo se posso fumare. Mi accompagna giù in cortile. Lei avvisa il domestico che saremmo tornati di lì a breve, chiudendo a chiave la porta. In realtà, continuiamo a parlare. È inverno, fa freddo e, senza accorgercene, usciamo sul naviglio. Mariapia indossa solo un leggero cappottino rosso piumato ‒ è questa la vera vita del poeta; povero e infreddolito, ma vivo, vivido. Reverenziale. Mi parla di Alda, mi mostra dove abitava. Lei è sconsolata, sola: Sono ormai tutti morti i miei amici poeti!, dice, aggrappandosi al mio braccio. Ci fermiamo a un’edicola, le pago ‘la Lettura’. Ridendo e scherzando, passeggiamo e parliamo per un’ora intera, che sembra Eden. Santo cielo, bisognerebbe tornare indietro! Una volta riaperta la porta di casa, ci troviamo davanti il volto del filippino, disperato e piangente. L’abbiamo chiuso dentro. La chiave che lui aveva, ci dice, non funziona, non apriva la porta! Mariapia, è veramente dispiaciuta. Il filippino fugge spazientito e epilettico, ruggendo parole di fuoco in un idioma incomprensibile. Rimaniamo soli. Il cocorito spia il nostro dolce abbraccio. In quell’istante, ci siamo voluti bene…
Nel frattempo, una violenta pioggia giunta dall’Oceano, impedisce ai soccorsi di salvare, dal sottosuolo, Carmelo. La madre, disperata, con un filo di voce, urla: Carmelito, Carmelito! Salvate il mio chico… «Carmelito Rodriguez, di anni nove, è intrappolato da più di ventiquattrore in un pozzo di scolo, a cento metri di profondità. Bisognerà aspettare che la tormenta si plachi e la luce del giorno, per poter riprendere i soccorsi», squilla in radio l’Ansa battuta dalle agenzie. In tutto questo marasma generale che è il mondo, governato dalla legge implacabile dell’amore, non si placa nemmeno il mio cercare. Fino a quando capisco, abbattuto, che è solo una perdita di tempo. Devo abbandonarmi ad altro, magari pregare, accendendo il televisore, che Carmelo torni presto sano e salvo tra le braccia di sua madre.
Giorgio Anelli
*In copertina: Jusepe de Ribera, “San Girolamo e l’angelo”, 1626