A cinquant’anni dalla morte, Alejandra Pizarnik è effettivamente diventata, come grida la biografia scritta da Cristina Piña e Patricia Venti, aggiornata di continuo, un mito. Donna difficile, chiusa in articolati labirinti, coraggiosa nel delirio, accesa, nata a Buenos Aires nel 1936, amica di Julio Cortázar e legata a una certa tradizione francese – ha tradotto Artaud, Bonnefoy, Michaux e Lautréamont; leggeva divorando, fino al sangue del testo –, la Pizarnik si è uccisa nel ’72, dopo vaste magioni di depressione testimoniate, con accuratezza kafkiana, nei quaderni che formano i Diarios, pubblicati da Lumen nel 2013 (in attesa di traduzione italiana). È forse questa esagerata presenza, la prestanza di chi ti butta in faccia l’oscurità e l’insonnia, un grido brunito di gloria, a conquistare della Pizarnik, fino all’insostenibile; appunto, lei è la poetessa senza sostegni, che si consegna, cruenta. Negli anni, la fama della Pizarnik è cresciuta in enormità: Lumen, che fa parte del gruppo Penguin Random House, ha pubblicato la Prosa completa (2002), la Poesía completa (2011), le lettere (2012). Di recente, “El País” ha dedicato un servizio alla poetessa argentina, “a mezzo secolo dal suicidio”: naturalmente, si svelano “materiali inediti e fatti sconosciuti”, meglio se tragici. La Biblioteca Nacional argentina detiene, dal 2008, un fondo con diversi documenti della Pizarnik. Anche in Italia la Pizarnik ha i suoi autentici estimatori: le poesie sono edite da Crocetti (La figlia dell’insonnia) e da Lietocolle; una scelta di lettere da Giometti & Antonello (L’altra voce); testi spesso irreperibili, però, forse in attesa di una pubblicazione più ampia, organica, completa.
Nella Biografía de un mito, le studiose fanno riferimento, tra i contatti della Pizarnik, a “su gran amiga Cristina Campo”, “la escritora tan admirada por Alejandra”. Si fa riferimento anche alla loro corrispondenza, durata dal 1963 al 1970, in seguito a un incontro a Parigi, nel ’62. Conservato a Princeton, tra gli “Alejandra Pizarnik Papers”, sul carteggio vaga un paradosso: tradotto da Sefanie Golisch, si trova facilmente in rete, ma nessuno può pubblicarlo, lo faccia Adelphi, proprio quest’anno. Il carteggio è una pietra miliare per comprendere rapporti e reazioni della Pizarnik, succube della Campo, della sua fantomatica, sprezzante eleganza. La fascinazione verso Djuna Barnes, ad esempio, la scrittrice di Nightwood, al cui culto costringe Silvina Ocampo, le è consegnato dalla Campo nell’ottobre del 1963: “Conosce le tre grandi dame della poesia ancora viventi, Marianne Moore, Ivy Compton-Burnett e Djuna Barnes? Sono tre vecchie donne, le più sole al mondo, il cui genio non cessa di meravigliarmi”. Nei diari, in diversi modi, la Pizarnik si riferisce alla Campo: appunta tutte le volte che le scrive una lettera, ogni volta che accusa una lettera (“Lettera di Cristina. Mi spaventa come se mi avesse scritto un angelo”). Il 6 settembre del 1965 scrive: “Sottile tradimento di Cristina. Mi risucchia da lontano, mi svuota attraverso il suo silenzio. Operazione magica. Ripeto i suoi gesti. Non è impunito l’onore di avere una doppia presenza a Roma. La pago. È come se parte della mia malattia sia dovuta al fatto che una parte di me è trattenuta là. Forse accade lo stesso anche a lei. Forse la sua perdita della tradizione è in certo modo mia responsabilità”. A Roma, in effetti, la Pizarnik si figurava di poter dimorare, “vorrei stare un po’ a Roma, il tempo sufficiente per entrare in contatto con tre scrittori che più di altri mi interessano: Italo Calvino per i racconti filosofici e i saggi, Elémire Zolla per i saggi sul nostro tempo e gli studi sulla letteratura inglese; e Cristina Campo, che pratica, all’interno di schemi rigorosamente tradizioni, un genere letterario quasi inedito: il racconto-saggio”. Con Cristina la fratellanza diventò sinistra, sfinita.
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1965
12 marzo. Perché ho bisogno di umiliarmi? Perché ho bisogno di inseguire chi non mi vuole e mi rattrista qualcuno che mi vuole? Perché l’amore di qualcuno per me mi riempie di odio per costui; perché l’indifferenza di un altro mi seduce?
Anche se tutto procede più o meno serenamente, ho bisogno ogni due o tre mesi di una notte di ottundimento.
Necessità di incarnare presagi e sogni, di incaricarmene. Il mondo esterno si oppone. Questo è ovvio ma non posso ammetterlo; lo desidero – in nome del mio, diciamo, istinto di conservazione –, lo desidero, dico, ma non posso. Resta da capire se lo voglio davvero.
Quindi, per quanto creda di essere maturata, il mio sentimento di amore e desiderio è diffuso, confuso, come a cinque, dieci, quindici anni. Una notte di sesso è un taglio netto. Non posso, non so, non potrei mai legare quella notte a obblighi, relazioni, orari… Sempre, dopo una notte di sesso, pianifico: organizzare gli scritti, le letture, etc. Come qualcuno che stava per morire e, guarito, proietta atti energici, sani.
Una notte di sesso è agonia, morte, la sola felicità.
Ma certi gesti, certe parole, io che perdo coscienza, sono ubriaca quando mi spogliano, cosa lontana e prossima. Si ripete il mai visto. Faccio sempre l’amore per la prima volta. Stupore, caduta, il mio soffocamento, la mia liberazione.
Sono codarda. Il sesso, per me, è la sola iniziazione. A volte lo nego, per paura. Quello che per gli altri è ascesi, per me è il sesso. Ma questo deve essere consumato. Questo colpire a lungo una bestia morta.
Ma non capisco perché sono sedotta da chi non mi vuole. Questo è il mio marchio. Questa la maledizione. Chiunque mi abbandona, riesce a sedurmi. E viceversa. Quando è cominciato, per quale urgenza? Questo significa paura della solitudine e nient’altro. Ho bisogno di stare da sola con qualcuno. Questo è: stare sola di nulla. Dunque, non più sola.
Orgoglio. Non voglio condividere il mio silenzio con nessuno. Ma esiste il mio silenzio? Esiste ora, mentre scrivo, mentre mi creo con le parole, mi do forma, mi scolpisco. Se non mi scrivo, sono un’assenza. Sesso e scrittura mi permettono di dare forma a qualcosa. E l’umiliazione? Anche. Meglio essere abbandonata che essere nulla. È più complesso. Ciò che è accaduto con S. obbliga all’impossibile. Parto dall’impossibile per giungere alla pace. Infine, ho ragione (?). Non so se riderne. Ma non è divertente, non è divertente.
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Lunedì 1 giugno. Pareti aperte, muri abbattuti, grate, fessure, chi le chiuderà? A questa domanda, facile da formulare, è impossibile rispondere. L’io in forma di persiane aperte di una casa di racconti per bambini. Quelle stesse persiane, chiuse, formano un cuore verde con piccoli cuori che sono fessure attraverso cui passa l’aria. Ma non si possono chiudere. O se si chiude, accade qualcosa perché l’aria non passa e gli abitanti della casa nel bosco muoiono. No. Nessuno muore perché nessuno può essere recluso. Piuttosto, sono feriti. Feriti, non morti, benché desiderino la morte; feriti dalla forza del vento. Non so se è a causa del vento o dei banditi che sono riusciti a entrare, che li hanno feriti, spogliati, lasciando le spoglie della loro sfortuna. Sognano il cuore verde e i cuoricini da cui sgorgava l’aria. Doveva essere così. Non sarebbero scampati al rigore, ma a un rigore diverso, non così nudo, tanto umiliante. Non è terribile soffrire, ma soffrire per ragioni che umiliano, che tolgono ogni bellezza alla cerimonia della sofferenza, che al principio non differiva dalle altre cerimonie.
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1970
22 agosto. Incontro con Fernando, un nuovo discepolo. Non voglio discepoli, non mi servono. Berretto nero. F. lo ha dimenticato, dunque immagino una sequela di discepoli con il berretto nero. Mentre scrivo, asfissia. P.R. mi spaventa. Morirà? No, non mi soffoca P.R., ma la vicina dell’ottavo piano. È lei ch morirà. Nel frattempo, asfissia per il ricordo delle notti della mia infanzia, terribili, quando la mamma accendeva improvvisamente la luce per scoprire dove fossero le nostre mani: sotto o sopra la coperta. Siccome capitava che le mie fossero sotto, lei fingeva di riordinare il letto e metteva le mani al loro posto.
Di quelle visite notturne e inverosimili – ma vere, tanto vere che mi soffocano, ora, mentre la vicina dorme – mi è restata una paura straordinaria e il sentore di fiato cattivo. Trattengo il respiro per non farmi notare e allo stesso tempo faccio rumori esagerati per denunciare che non ho paura di essere notata. Quel terrore per le visite notturne di mia madre, seguita da mio padre e da un domestico o un paggio. E ora sono sola, vivo sola, e nel silenzio della notte attendo l’attimo in cui la donna dell’ottavo piano si accorga che non sto dormendo, che le mie mani non sono dove dovrebbero, e che tutto in me è olocausto, è ciò che non si deve.
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1971
Venerdì 8 gennaio. Abbandono di tutti i progetti letterari, tutti. Disoccupata. Soffrire di questa forzata disoccupazione. Mette in discussione tutto. Contatto con il dottor A., che non è affatto uno che possa tranquillizzarmi, in effetti lo vedo appena, e quando lo vedo non desidero che trapiantargli mon ennui.
È più tardi di quanto credi.
Un canto all’oscurità interiore.
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Domenica 24. Ho tradotto con Antonio l’intervista di Breton su Artaud. Gioia e sollievo per svolgere un lavoro condiviso. Angoscia per le mestruazioni premature. Umiliazione per questa angoscia.
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13 febbraio. Pare la fine. Desidero morire. Lo desidero con serietà, con una vocazione integra.
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Luglio. P.R. rifiuta il patto che gli ho proposto: darmi la dose esatta di barbiturici per poter morire senza essere scoperti con il cuore che ancora pulsa. Questo vecchio cuore che non sa spezzarsi. Questo giovane corpo, indicibilmente stanco e vigoroso, mio compagno traditore, il corpo vivo del tradimento che sono. Dove sono non c’è scherzo né gioco, nessuna attenzione alla sintassi, agli aggettivi superflui. La mente mi rifiuta. Si rifiuta di aiutarmi. Quante pillole devo prendere per morire una volta per tutte? E quali pillole? Come si chiamano? Nessuno vuole dirmelo. P.R. non vuole essere coinvolto nel mio progetto. Mi ha dato pillole per vivere, cinque anni fa. Ora, tocca a lui consegnarmi l’arma con cui consumare la mia sconfitta. “Perché tanta onnipotenza?”, mi ha chiesto, oggi. Allude alla mia solitudine assoluta. Perché infatti bastare a me stessa, in tutto? Ma ora, come scoscendere lungo la riva delle necessità comuni? (Tutto questo lo scrivo odiando la lingua con cui scrivo).
Alejandra Pizarnik