La letteratura si agglutina nel fango, è aggiogata al fango. Secondo alcuni, la storia della letteratura occidentale prende una svolta quando Fëdor Dostoevskij descrive il cadavere dello starec Zosima, in odore di santità, che puzza, che scandalo; secondo altri è quando Dostoevskij ribadisce quella catatonica verità, “perché siamo tutti colpevoli per tutti gli altri”, che si sancisce l’impeto morale di una letteratura nuova, ulteriore, altra. Per tutti, ad ogni modo, I fratelli Karamazov sono l’opera con cui bisogna confrontarsi, sono l’opera da vivere prima che da leggere.
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Libro nono, capitolo otto. In quel luogo dei ‘Karamazov’ accade qualcosa che non smette di uncinarmi – è qualcosa di semplice – di dichiarato – di disperatamente ultimo. Ognuno s’arrampica ai ‘Karamazov’ come può – io parto da lì, dal sogno di Dmitrij Karamazov, durante il processo in cui deve rispondere all’accusa di essere l’omicida del padre. In forma preliminare, di danza: mi sembra emblematico che Dostoevskij, lo scrittore ‘realista’, penetri nella pasta onirica, s’ingolfi nel sogno per dire le cose definitive – leggete, almeno, Il sogno di un uomo ridicolo.
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La quinta. Il sogno avviene in una “steppa”, in una scenografia canonicamente russa, “era l’inizio di novembre, e la neve cadeva in grossi fiocchi umidi”. Fa freddo e Dmitrij è su un carro. Il freddo è la condizione esistenziale permanente. Il carro va veloce e passa di fianco a un “villaggio per metà bruciato”. Ai confini del villaggio, “delle contadine… un’intera schiera, tutte magre, emaciate, con i visi scuri”.
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Una natività dostoevskijana. Nella corsa affannosa lungo la steppa, attraversando il villaggio bruciato, Dmitrij è frenato da “una donna ossuta e alta, che dimostrava quarant’anni, ma poteva averne venti, con il viso magro, che teneva fra le braccia un bimbo in lacrime: evidentemente il suo seno non aveva più latte e il bambino piangeva, piangeva, mulinava le braccia nude, con i pugni illividiti dal freddo”. Questa donna è lo zenit del sogno, colei che morde il cuore di Dmitrij, che lo mangia. La mamma con il bambino è una immagine cristica – ricordiamo come Vasilij Grossman ha descritto la Madonna sistina di Raffaello – è una immagine devota, qui ribaltata, però. Gli uomini pregano davanti alla Mamma con il Bambino – qui la mamma non ha la forza di implorare aiuto e il suo bambino piange. Il bambino di questa donna non morirà per redimere le colpe dell’uomo, morirà e basta, come il più solo e incolpevole degli uomini.
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La creatura. Uno dei momenti letterari e significativi più alti dei ‘Karamazov’ accade quando Dmitrij chiede al conducente che guida il carro “perché piangono?”. Il conducente risponde, “la creatura, la creatura piange”. Dmitrij, cioè Mitja, nel diminutivo, è sorpreso da questo modo di dire, creatura. “Restò colpito dal fatto che egli l’avesse chiamato a modo suo, alla contadina: ‘creatura’ e non bambino. E gli piacque che il contadino avesse detto ‘creatura’: era come se in quella parola si racchiudesse una compassione più intensa”. Il dettaglio narrativo – dire ‘creatura’ al posto di ‘bambino’, mimando il gergo dei contadini – amplifica quello significativo: creatura ci fa percepire che in quell’istante, a soffrire, non è una donna singola con il suo singolare bambino; è l’intera umanità, la ‘creatura’, a soffrire.
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Il ritmo. Già ora, chi legge, percepisce il ritmo narrativo imposto da Dostoevskij: la scrittura corre come il calesse su cui è accucciato, nel sogno, Mitja. Le frasi si decompongono, come le ruote che fendono le strade ricoperte di neve, la scrittura è svelta, vibra, precipita, alla ricerca del senso.
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La risposta ‘normale’. Mitja, Dmitrij, è ossessionato e continua a chiedere al conducente “perché piangono?, perché piange?, perché è così?”. Il conducente dà a Mitja una risposta ovvia, razionale, “è povera gente, la casa è bruciata, non hanno di che mangiare”. Insomma, sono poveri come tanti poveri, sono gli sfortunati, quelli ce vediamo ovunque, nel sottobosco cittadino – anche noi, in fondo, abbiamo la nostra quote ingiusta di sfortuna – a noi non resta che correre oltre, andare, chi si cura degli altri è perduto, è idiota. Ma Mitja, nonostante il carro corra a precipizio, non va oltre, si blocca, capisce che quel dolore particolare è il dolore assoluto.
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Sfidare l’impossibile è un carisma narrativo. L’ultima parte del sogno si perde nel grumo di domande deliranti di Mitja, drogate – “perché quella gente è povera? Perché è povera la creatura? Perché la steppa è desolata? Perché non si abbracciano, non cantano di gioia, perché la miseria li abbrutisce? Perché non danno da mangiare a quel bambino?”. Mitja non si dà pace: quel singolo episodio di dolore – quella maternità annerita dalla fame, dalla miseria – è stato uno shock, gli ha fatto scoprire che il mondo soffre. “E avvertiva che stava crescendo nel suo cuore un senso di pietà che non aveva mai provato prima, che aveva voglia di piangere, che voleva fare qualcosa per tutti, affinché quel bambino non piangesse più, e non piangesse più quella madre dal viso nero e dal seno secco, affinché da ora non esistessero più lacrime per nessuno, e voleva fare tutto questo all’istante, ora, immediatamente, al di là di tutti gli ostacoli, con tutta l’impetuosità dei Karamazov”. Eccola, la fiamma narrativa! “L’impetuosità dei Karamazov” si fa evidente, fiammante, in due modi: l’impetuosa passione verso la vita – che ha come estremo la dissipazione, la stessa dissipazione nell’amore per le prostitute e per il gioco d’azzardo di Mitja – e l’impetuosa compassione verso le creature – che sfocia in questo amore ingenuo, irrimediabile, fino alle lacrime. Senza quella cerniera finale, che lega l’orazione possente alla storia del romanzo, innervata sulla genia dei Karamazov, Dostoevskij sarebbe un mirabile predicatore, ma non un geniale romanziere.
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Le domande illogiche sono le uniche logicamente sane. Il sogno termina così, sull’impetuosità dei Karamazov, sul proposito, impossibile, lo sappiamo – ma si vive per sentire il sapore dell’impossibile –, di sanare il male dal mondo, dall’uomo. Poco prima, riguardo al rosario di perché? detonati da Mitja, l’uomo che non arretra di fronte al dolore, che non si dà pace finché l’uomo soffre, Dostoevskij scrive una frase che è come un amuleto: “ed egli sentiva che sebbene le sue domande fossero irragionevoli e prive di senso, tuttavia desiderava proprio porre quelle domande e porle proprio in quel modo”. Nell’epoca in cui tutti pensano di poter rispondere a ogni richiesta, nell’epoca della domanda-risposta meccanizzata – digito un tasto e la macchina risponde –, le uniche domande degne di nota, pregne di valore, sono quelle irragionevoli, quelle prive di senso, perciò sensibili alla natura inquieta dell’uomo. La domanda che porta in sé la risposta è foriera di morte, non si pone in rapporto con l’eterno, non risuona nei millenni: è per essersi posto domande ancora irrisolte che l’essere umano è tale. L’uomo esiste perché raggiunge l’irragionevole, perché si assopisce nell’impossibile: il problema non è estirpare il male, ma porsi con incessante tensione la domanda intorno al male. (d.b.)
*In copertina, Vladimir I. Dal’ secondo Vasilij G. Perov, 1872