18 Agosto 2022

“Del pudore di dire la propria sofferenza”. Anna Cavalletti, l’amica di Cristina Campo

Nella breve nota introduttiva a L’esatta divisione dell’aria (Edizioni Cenere, 2022; info: edizionicenere@gmail.com), pubblicazione di alcuni stralci di diario di Anna Cavalletti, la dolcissima amica di Cristina Campo morta a diciotto anni sotto la prima bomba caduta a Firenze il 25 settembre del ’43, è scritto un laconico “ogni altra pagina redatta dalla giovane Anna è ad oggi, con ogni probabilità, andata perduta”. Una postilla lasciata lì, senza concedersi spazi per scivolare nel sentimentalismo, pure una nota di malinconia colpisce se si pensa che queste poche parole – venti passi – selezionate nel ’53 dalla stessa Campo e sottratte ad un destino di oblio per la rubrica “La posta letteraria” del Corriere dell’Adda, testimoniano non solo un giovanissimo cuore che ha saputo osservare il mondo interiore ed esteriore con weiliana attenzione, ma ci consentono di entrare, in punta di piedi, nel cosmo affettivo della stessa Cristina Campo, nei suoi pudori. E certo ci vuole un passo leggero, magari fare il proprio ingresso come un refolo di vento, avendo cura di non distruggere il mistero che è negli altri, come ci suggerisce Anna.

Vi è uno sguardo fiabesco, che procedendo per analogie coglie l’invisibile e lo fa trasparire dalle poche parole che noi leggiamo, ma che non sono scarne: si percepisce la pienezza dell’inesprimibile, dell’indicibile, a volte come promessa, altre come un triste presagio. In effetti, così pochi passi sembrano involontariamente puntare il dito, seppur in modo benevolo, su quanto di superfluo, quindi inutile, ci sia nel nostro commercio quotidiano di parole, in cui pronunciamo nomi di cose, persone, sentimenti, emozioni, etc… e non sappiamo, neanche ce lo chiediamo, a chi appartengano queste parole. Sono nostre? Di altri? Di un Altro? La parola necessaria, quella che forse portava la stessa Cristina Campo a dire di sé: “Ha scritto poco, e le piacerebbe aver scritto meno”, è quella che non pronunciamo, ed è quella di cui abbiamo più bisogno.

“Immaginati Čechov, in un salotto di cicogne, che dice, con un gesto esplicativo: «e così nacque l’anguilla…». Nel momento della trascrizione, come nell’attimo fisico delle parole, credo che il sentimento venga soffocato: qualsiasi processo è una sosta. Insomma, sono poco chiara: mentre dico “ti comprendo”, io sono freddissima. Soltanto nel silenzio, prima o dopo l’espressione, posso vibrare. Ho scritto “dopo”; è vero? Ma la manifestazione non può essere distruzione…”.

Cosa va perduto nelle parole che diciamo? Cosa tentiamo di afferrare, quale maldestra signoria sulle cose e su noi stessi ci illudiamo di affermare, perdendola per sempre nelle acque limacciose dell’insignificante? Nei dettagli che Anna riferisce – un mazzo di mughetti e roselline di Firenze; le grandi foglie di un ippocastano; un albicocco scosso dal vento e foglie piccole e rotonde che non cadranno mai; l’anno appena trascorso guardato come un susino da donare agli altri, mentre dalla finestra aperta una donna passa cullando il suo bimbo – non c’è un’intenzione descrittiva, solo quella di esprimere gratitudine perché “tutto è splendidamente sereno e armonioso” e lo è pur sempre in modo misterioso, sicché ci auguriamo di non farle torto – e di non farlo neanche alla memoria di Cristina Campo – se diciamo che lei stessa, in maniera del tutto naturale, tentasse di riannodare i fili con quel mistero cui apparteniamo.

“E quando saremo grandi e avrai scritto il tuo racconto faremo un viaggio a Friburgo, in dicembre, e disegneremo col mignolo sui vetri del treno. Ma ci sarebbero ancora molte cose da dirti: del dolore: ogni soffio di vento e ogni foglia alitano sul cuore così profondamente leggeri che esso prende la loro forma: del pudore di dire la propria sofferenza, mentire ad ogni costo per dire cose vere in uno stato di falsità, per l’amore di esse: raggiungere il fondo, proprio il fondo di un ambiente negativo, per estrarne la possibilità di cose meravigliose…”.

Così scrive il 3 luglio 1943, due mesi prima del fragoroso addio: a diciotto anni Anna Cavalletti sa che se la bellezza manifesta dei doni di cui il mondo è carico è segno di cose meravigliose, sa a maggior ragione che bisogna esperire il fondo del proprio dolore, andare nel punto più basso di una pena straziante, per arrivare al cuore di quella promessa, al culmine di quella possibilità.

“Nei momenti in cui sono tanto felice, mi viene voglia di morire. Non per viltà, ma per ringraziare direttamente Dio”.

La vita vera esonda dagli argini del visibile, è quel “di più” che non cogliamo non perché Qualcuno giochi a farci un dispetto, ma perché il pudore con cui si cela è necessario alla nostra libertà di creature ferite da una nostalgia. Anna è in grado di misurare l’esistenza dividendo l’aria in maniera esatta. Pare impresa vana, forse addirittura sciocca, quasi come lottare contro i mulini a vento di Chisciotte, ma l’impalpabilità dell’aria dev’esserle sembrata la più adatta ad indicare il suo desiderio di “occupare poco posto”. Farsi piccola, fino a scomparire, farsi segno discreto fra gli altri, sapendo tuttavia che nulla si perde sulla terra e che tutto rivivrà in altri giorni. In quei giorni destinati a non sfiorire più, perché l’aria è tornata nuovamente ad unità.

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