Sprofonda in una notte senza fine il poeta che abbia perduto il suo destino. Sbiadisce nei giorni che fanno solo volume, quello felice della consacrazione giovanile ad Urania: poeta e dea dell’armonia un tempo siglarono il benedetto patto e mirabile era la parola poetica che sgorgava dal cuore, in amicizia con la natura e gli dei. Negli anni della torre, quanto è difficile inseguire un’intuizione lirica sempre più inafferrabile, mentre parole apparentemente senza senso segnano il perimetro di un esilio volontario dal proprio tempo. Dentro l’equilibrio tra aorgico e organico, la vita sulla terra era possibile per il comune mortale perché:
“molti meriti ha l’uomo, ma abita poeticamente il mondo”.
Poi, una tentazione da titano ha rotto il patto originario e il poeta è precipitato in una fatale malinconia, nel pianto inconsolabile di Tantalo nel Tartaro, dove si infrange in mille cocci l’ambizione di altezze irraggiungibili. Friedrich Hölderlin, che ha frequentato lontananze, consacrato al “sacerdozio della verità” è testimone di un altrove, di un sacro sulla cui traccia chi pensa o sa di essersi smarrito, può ancora porsi. Pure, anche lui forse è passato dal giogo infernale, ha perduto quelle lontananze così familiari e dei e natura, un giorno, si sono ritirati in silenzio.
Come non tacere di fronte al poeta che, non più soddisfatto di partecipare al banchetto degli dei come invitato di riguardo – “presto fu sazio” –, ha preteso di sedere inter pares? Eccolo, il kairós del poeta: non più testimone, non più semplice e umile custode della parola, ma signore assoluto di questa e dei mondi che può dischiudere. Un dio in mezzo agli altri alle prese con il linguaggio, “il più pericoloso dei beni”. E lo sa certamente il suo Empedocle che, ormai cacciato da Agrigento, piange la sua arditezza, quell’aver voluto sfidare la sorte benigna per ritrovarsi con un pugno di mosche in mano, mentre uno sconsolato Pausania, allievo prediletto, tenta di dissuaderlo dal supremo sacrificio. Ma c’è un fuoco che attende, quello del vulcano, come lavacro del suo mortale peccato, dove rendere conto di “una superbia di regina”; lui che non ha mai posseduto veramente le parole che qualche dio gli sussurrava, eppure si è permesso di sperperarle come perle sciolte nel vino, neanche fosse una splendida Cleopatra.
L’en kai pan è lì in fondo, nel magma che purifica, nel baratro di lava. La fine più gloriosa se, come scrive in una celebre lettera del 1801 allo sfortunato amico Böhlendorff , il tragico sta nel lasciare il mondo dei viventi
“silenziosamente imballati in un qualche contenitore e non che, consumati dalle fiamme, espiamo la fiamma che non riuscimmo a domare”.
Il fato mai è stato avverso al poeta, se non per suo volere. Ha voltato lui le spalle al suo destino, perché l’uomo ha “libertà di volere e un più alto potere di mancare come di compiere”. Ma l’esercizio sconsiderato di questa libertà non dà ricchezza. Altrimenti non si spiega la mestizia che gli invade le vene, come acqua che straripa. Il tempo scorre sulle rive del Neckar; scorre pure Hölderlin, entrando e uscendo dalla torre del falegname Zimmer e chissà se quel fiume gli sarà sembrato, ogni tanto, il vagheggiato Ilisso: forse in un delirio – vero o presunto – i fiumi finiscono con il somigliarsi tutti e quel continuo misurarsi con il “fuoco dal cielo” dei greci e la sobrietà giunonica tedesca (la chiarezza della rappresentazione) non è mai cessato.
Guardiamo la delusione del diciottenne Weiblinger che, ansioso di conoscere il suo idolo letterario, lo incontra una prima volta e il disinganno lo assale: come un sarto maldestro ha cucito aspettative sul poeta che mal gli si addicono. Chi è mai costui? Pare avere un pensiero sconnesso, preda di chissà quali alterazioni psichiche. Ma il poeta distrugge l’immagine; non può essere costretto dentro i lacci di un’idolatria, anche se genuina. Va per la sua strada e che gli altri capiscano, dopo aver perduto l’occasione di riconoscerlo nella sua grandezza o avendogliene imposta una inadeguata, perde del tutto di significato. Lontanissimi gli entusiasmi giovanili per i venti rivoluzionari che dalla Francia lambivano le fantasie di studenti dello Stift di Tubinga; perduti sono Eraclito e Spinoza; svanita la sua Diotima che, come quella cara a Socrate, gli insegnò tutto sull’amore. Infine, un’eco infranta su vette troppo alte, il folle volo che lo portò ad un passo dal dio.
“Chi vive a sé e si mostra quanto resta, è come se dividesse il giorno in giorni.
È un piegarsi squisito a “ciò che resta”, diviso da natura, senza invidie.
È come solo, in altro, vasto vivere, con verdi primavere e lenti estati amiche,
finché cala veloce l’annata nell’autunno e ci avvolgono sempre nubi e nubi”Der Mesch (L’uomo), trad. di Enzo Mandruzzato.
Si approssima l’inverno, ma una vertigine di fuoco che per genio sa sottrarsi ad un epilogo di cenere, pare non averne timore.
Livia Di Vona