
“Adoro andarmene”. Ritratto di Blaise Cendrars
Letterature
Marco Settimini
Al poeta di corte, sotto ricatto della fama, il poeta di città, che figlia nel mondano, fa il paio il poeta dei deserti, sfuggente, in costante vagabondaggio, bandito dal mondo, a servizio della propria solitudine, scandito dalle locuste. Se il primo ausculta le chiacchiere, esalta la latrina dell’ego a proprio trono, è sottile psicologo, stratega della metafora ben tornita e della frase che seduce, l’altro è uso al coltello, all’io intagliato dalla fame, cavaliere errante o mendicante che sia, sfiancato dalla profezia, chino ai trogoli del dio.
Certo, la poesia non offre il varco a facili soluzioni, mai: non è detto che il poeta corsaro sia più bravo di quello corrotto, che l’esiliato sia più puro dell’impuro urbanizzato. Davide, il Salmista, prototipo del cantore biblico, era poeta di corte – suonava la cetra per Saul, placando le inquietudini del re: 1 Sam 16, 23 – e poeta bandito, da quando il re, di lui invidioso, tenta di ucciderlo. Passa dai covili di corte alle grotte, dal canto alla guerriglia. Sul corpo morto, suicida, del re, e su quello del figlio, Jonathan, perito in battaglia, tuttavia, è Davide a intonare il canto funebre, che propizi il vagare tra i morti: “Saul e Jonathan, i generosi, i valorosi/ più rapidi delle aquile, più forti dei leoni”. Saul, il re che interpellava i morti tramite la negromante, è evocato dal poeta esiliato, Davide ragazzo, sigillato nel bene. Poesia che scombina i canoni.
Tra i prototipi del poeta bandito, nobile reietto, spicca la figura, nell’Arabia preislamica, di Thābit bin Malik, vissuto tra V e VI secolo, meglio noto con il soprannome di al-Shanfarā (qualcosa come: “dalle capaci labbra” o “dalle ridondanti labbra”). Messo al bando dalla propria tribù, gli Azd, per azioni turpi – probabilmente, un omicidio per amore o amor proprio –, si sarebbe dato al brigantaggio, al romitaggio in attesa di vendetta, compagno delle bestie selvagge, allievo di una vita violenta, alla mercè del caos. I suoi versi – rapidi e rabbiosi e rudi – ricalcano l’idioma dell’esistenza esagerata e segreta, tra la fame, il famelico e il sangue: passarono di memoria in memoria tra le tribù, facendo di al-Shanfarā una sorta di icona della brutale individualità.
“Il poeta-ladrone canta il suo superbo isolamento dagli uomini, la sua familiarità con la natura selvaggia e con le fiere del deserto, che vantaggiosamente lo compensano del bando della società, le fide armi, le austere virtù del cavaliere e guerrigliero beduino”.
Così scrive Francesco Gabrieli, l’insigne arabista, che nel 1947, per l’Editore Fussi di Firenze, nella collezione di “scritti rari e rappresentativi di poesia e pensiero in versioni d’arte”, traduce un vasto poemetto di al-Shanfarā, con un titolo suggestivo, Il bandito del deserto (la pubblicazione è stata ripresa da La Vita Felice nel 2018). All’epoca, Gabrieli tentò dei ponti esegetici tra la poesia araba e quella d’Occidente: definisce al-Shanfarā “Archiloco o Villon del deserto”; nel “poeta reietto” intuisce una “eschilea e shakespeariana potenza”. Eppure, il bandito arabo non impetra perdono, non vuole salvezza, ma fierezza, ristoro in vendetta, reintegro del sé nell’altrui morte. Secondo la leggenda, il poeta che “celebra la propria vita di rischio e d’avventura, le sue imprese brigantesche con una piccola banda di disperati suoi pari”, fece voto “di uccidere cento dei suoi antichi compagni”, traditori. Riuscì a compiere il massacro, morendo. Naturalmente, ottenne che le sue spoglie non fossero complicate in alcun tumulo, ma mollate ai venti, al verdetto delle fiere: “Non mi seppellite! Il seppellirmi è a voi vietato, ma tu allietati, o iena!”.
Nei versi, il poeta assassino si affratella agli sciacalli dal muso simile alla mezza luna: medesimo famelico istinto li distingue. Della povertà si fa vanto – avanza scalzo – perché lo porta a strologare l’ennesima ruberia; una certa sprezzante nobiltà lo fa puro.
Secondo una velenosa ipotesi – tenuta in conto da Gabrieli – al-Shanfarā non sarebbe altro che un antieroe leggendario, figura creata a tavolino da Khalaf al-Ahmar, estroso rapsodo vissuto nell’VIII secolo, sotto i califfi Abbasidi. Il ribelle dei deserti, dunque, sarebbe l’alchemico specchio di un raffinato poeta di corte, “le più genuine esperienze di vita del bandito-poeta pagano, un prodotto della dotta officina d’un filologo sedentario di due secoli più tardi!”. Più facile che i barbarici distici di al-Shanfarā, Orfeo dedito al banditismo, siano stati levigati e rifatti, riferiti tra corti e bazar, verande e bassifondi, da un poeta di raffinati costumi. Come a dire – ritornando al tema – che la poesia non cede a facili vie, non dà avvio ad alcuna soluzione: enigma è il suo elemento, contraddizione il cardine; a noi non resta che leggere i segni, intuire la danza.
***
Per la tua vita, non è angusta la terra per un uomo che sappia il cauto incedere la notte, tra il desiderio e il timore.
A me sono compagni in vostro luogo, uno sciacallo dalla marcia veloce, una liscia pantera pezzata, e una iena arrancante dall’irta criniera.
*
Mi sono di compenso alla mancanza di chi non sa rendere un beneficio, e nella cui vicinanza non v’è soddisfazione alcuna,
tre compagni: un cuore in fiamme, una bianca spada sguainata e un lungo arco di legno giallo
un arco ronzante, di quelli dal liscio dorso, adorno di corregge sospese e di una tracolla;
quando ne scivola via il dardo, l’arco vibra, sonoro, come una donna orbata del figlio, che ulula e geme.
*
Io non sono un morto di sete che fa pascere a sera i suoi cammelli, con i piccoli malnutriti mentre le madri hanno esauste le poppe;
non sono un vile poltrone, rincantucciato con la moglie, che si consulta con lei su come debba comportarsi;
non uno pavido come uno struzzo, nel cui cuore palpitante pare ci sia un’allodola che si solleva e abbassa in volo,
non uno che resta indietro a indugiare e a civettare nell’accampamento, unto e con gli occhi spalmati di kohl,
non sono un rattrappito, che fa più male che bene, impacciato, sgomento se gli fai paura, inerme,
non sono uno che ha paura della tenebra notturna, quando un deserto spaventoso si avventa sul cammello, lanciato al cieco galoppo.
Io inganno ostinatamente la fame tanto da ammazzarla, la passo sotto silenzio sì da distrarmene.
Arrivo a trangugiare il limo della terra, perché per la mia fame il ricco non debba con la sua generosità guardarmi dall’alto in basso.
Io ripiego le viscere del mio ventre vuoto, come si ripiegano i fili di un tessitore, ripiegati e attorti.
E parto al mattino dopo un magro pasto come parte il grigio-argenteo sciacallo dai magri fianchi, che passa di deserto in deserto;
incede errando affamato contro vento, calando sui fondovalle trotterellando,
e quando il cibo lo distoglie da dove prima lo cercava, lancia un appello e gli rispondono gli smagriti suoi simili;
sottili come falce lunare, bianco-grigi nei volti, vibranti come frecce agitate da un equilibrista
o come uno sciame d’api agitato dalle bacchette di un cercatore che stana il miele lungo i monti;
dalle ampie bocche spalancate, i cui angoli sembrano fessure di bastoni, e digrignano i denti, ostili, aggressivi.
Ulula allora lo sciacallo e ululano i suoi compagni per lo scabro deserto, come donne che hanno perduto i figli e si lamentano sulle alture.
Egli socchiude gli occhi ed essi li socchiudono, egli si consola ed essi con lui si consolano, disperati che si confortano a vicenda.
Lui si duole ed essi si dolgono, poi l’uno e gli altri cessano, e la pazienza è la miglior cosa quando il dolersi non giova.
E battono insieme in ritirata, veloci, tutti alleviando con la pazienza l’angustia latente nell’animo.
*
Io ho familiare la faccia della terra quando la prendo a giaciglio, col ricurvo mio dorso cui rilevano le magre sporgenze delle vertebre,
e adatto a cuscino un braccio scarnito, le cui giunture sembrano dadi eretti, gettati da un giocatore.
*
E se tu mi vedi, o donna, abbrustolito come struzzo, miserabile, scalzo,
sappi che io sono l’uomo della pazienza, che riveste la sua armatura sul cuore, qual di bastardo di iena, e di fortezza mi calzo.
Ora sono in povertà ora in ricchezza, quella ricchezza che solo il bandito senza fissa dimora può attingere.
Non sono un disperato che mette in mostra il suo bisogno, né un arrogante che nella sua ricchezza si gonfi.
Gli istinti brutali non sopraffanno la mia saggezza, né io appaio come un curioso pettegolo, alle calcagna delle voci correnti.
Quante sinistre notti, in cui l’arco spezzato e arso serve a riscaldare il suo padrone, assieme alle asticciole che gli facevano da frecce,
io sono uscito all’avventura, tra l’oscurità e la pioggia battente, avendo a compagni disperata fame e gelo, paura e brivido di terrore
e ho vedovato donne, e resi orfani bimbi, e sono tornato così come partii, nel pieno tenebrore notturno.
*
Quanti altipiani deserti, come convessa superficie di uno scudo, ho traversati, quali non vengono battuti da alacri gambe di viaggiatori,
e li ho dominati dal principio alla fine, spiccando su una scoscesa altura, ora accosciato, ora diritto.
Attorno a me pascono le fulve capre montanine, come fanciulle ricoperte di vesti con lo strascico.
Traduzioni di Francesco Gabrieli
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Levatevi, figli di mia madre, levate il petto
dei vostri destrieri, perché io mi muovo altrove.
La notte è spezzata dalla luna, le provviste sono pronte
e le bestie sellate per la lunga marcia.
Questa terra è rifugio per il nobile
agile luogo dove si ritira chi non teme il disprezzo.
La tua vita non confina con l’uomo
confida sulla scaltrezza chi viaggia tra speranza e orrore.
*
Se mi vedi tra le figlie delle dune
magre e rabbiose di sole, scalze e senza veli
ricorda che sono maestro in perseveranza:
ho steso il suo drappo sul cuore di uno sciacallo
indosso i calzari della certezza: sono povero
perché ho la ricchezza di chi tutto dona
non mi inquieta la mancanza, non espongo la mia miseria
non mi pavoneggio quando l’abbondanza mi accoglie
la follia non mi disorienta, non inseguo
la maldicenza o i labirinti delle pompose chiacchiere.
*Le immagini usate nell’articolo sono del pittore inglese Augustus Osborne Lamplough (1877-1930)