Esistono ancora i poeti cristiani? Discorso su poesia e Cristianesimo
Poesia
Dana Gioia
Mi sorprende un dettaglio. “Nel deserto Everett leggeva l’Odissea nella traduzione inglese di Lawrence d’Arabia”. Forse c’è una sintonia tra il deserto dello Utah, dove si muove e si immola il ragazzo, e la scabra pianura pachistana di Miranshah, dove il colonnello Lawrence, celato entro la corazza di un nome fittizio, traduce l’Odissea – e progetta rivolte. Nelle fotografie scattate lassù, ai confini del British Raj, T.E. ha mollato il turbante, il coltello ricurvo, la stola da demonio dei deserti: è basso, la maglietta larga a mezze maniche, scarpe troppo eleganti, lo sguardo abissale, i modi voluttuosi. Una specie di marziale civetteria lo contraddistingue, strano incrocio tra la geisha e l’assassino. Ad ogni modo: l’Odissea di Lawrence – cioè: T.E. Shaw – negli Stati Uniti è un successo; stampata nel 1932, il primo anno vende quasi 12mila copie. Piacque anche a un lettore poco indulgente come William B. Yeats, che a Dorothy Wellesley, amata e amica, confida “L’Odissea di Lawrence è la sola letteratura di valore in un’era volgare. La leggo di continuo”. Ma qui la letteratura non conta. O quasi.
Il ragazzo con l’Odissea nello zaino, Everett Ruess, ha vissuto tra gole e canyon: rifugiatosi in un antico avamposto indiano ha istoriato, sulla porta dell’abitazione temporanea, un’iscrizione, “Nemo 1934”. Non si sa se fosse affascinato da Odisseo, vagabondo trafitto da nostalgie e meraviglie, o dalla figura di T.E. Lawrence, l’eroe dei deserti che tentò di desertificare se stesso. Una cosa è certa: la prima spedizione impegnata a cercare il ragazzo scomparso parte nel marzo del 1935; il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence – con il suo nugolo di pseudonimi – muore un paio di mesi dopo.
A Everett Ruess, “il poeta scomparso nel nulla”, dedica un bel servizio, pubblicato su “Poesia” (n.16, Novembre/Dicembre 2022), Angelo Airò Farulla. La storia del ragazzo è semplice: nato a Oakland nel 1914, figlio di un ministro unitariano, Everett, talento particolarmente precoce, comincia a tenere un diario a dodici anni. A Los Angeles, nel 1930, frequenta, con qualche successo, un corso di scrittura creativa; dal 1931, influenzato dai grandi vagabondi americani – Henry David Thoreau, Whitman, Melville, London, ma anche John Muir, pioniere delle esplorazioni in Sierra Nevada – comincia un’esistenza elettrica e raminga, attraversando, a bordo d’asino, l’Arizona, il Nuovo Messico, lo Utah. Vuole “succhiare il midollo della vita”: dipinge, scopre antichi reperti dei Navajo e degli Hopi, studia i miti dei nativi, ne impara la lingua. Scrive. I suoi diari si dileguano nel languore di una gioia ispirata, audace. Nelle fotografie, Everett ha il viso solido e sorridente; a volta una strana cupezza, da Rimbaud africano, lo scalfisce.
Qui alcuni brani scritti dal Sequoia National Park, in Sierra Nevada, “con due asini”:
28 maggio. Sette miglia in ascesa: abbiamo svoltato e proseguito con un allevatore che scrive versi e beve whisky.
29 maggio. Incontro la signora Blossom e le sue due figlie, Nora e Dot. Il signor Blossom è morto in un incidente d’auto, la signora Blossom ha una gamba di legno.
3 giugno. Trota fritta in farina di mais e panini al formaggio: ampliano notevolmente l’orizzonte.
8 giugno. Quantità prodigiosa di panini con pomodoro e burro di arachidi. Li mangio mentre leggo Rabelais.
12 giugno. Che diritto si ha di essere felici in città quando tutto è conflitto, discordia, miseria, sofferenza senza ragione? Qui tali pensieri non si intromettono. Ho bevuto da un ruscello, mentre canto alcune melodie di Dvořák. La foresta rimbomba della mia allegria… Dondolo sul sentiero, giro su me stesso, guardo le stelle: è bianca la via dell’avventura. Ma l’avventura è per gli avventurieri e io sono solo un ragazzo folle.
23 giugno. Le scarpe si consumano: ho legato la suola della sinistra con un filo di rame. Poi ho bevuto una tazza di tè.
29 luglio. Sentiero lungo, accidentato, polveroso, ripido; cielo coperto. Ho sciolto il burro e ho cominciato a cuocere dei piselli. Si è fatto buio, i piselli sono caduti nel fuoco a metà cottura.
30 agosto. Solitudine ininterrotta. In alto, scintillano le vette bianche, fiabesche, sul cielo azzurro. Silenzi selvaggi mi avvolgono, senza resistenza. Tutto è un sogno dorato: il fruscio irreale dei pioppi culla i sensi, colori puri davanti ai miei occhi. Tutto è così bello che ho provato una forma di estasi, poi la calma, rasserenante. La gioia è così languida che ho sentito il dovere di condividerla e ho scritto una lettera a Doris. Studio le mappe al fuoco, mi soffermo sui nomi di alcuni luoghi. Lago della Luna Caduta: mi fermerò lì. A malincuore, mi rassegno al sonno.
28 settembre. Scoraggiati o soddisfatti, i cacciatori di cervi rientrano a casa e gli scolari tornano ai loro studi. Il tempo delle vacanze è finito per la mia specie. Ma questa non è una vacanza per me, è la mia vita.
Forse è nel diario il nocciolo poetico più affascinante di Everett Ruess. Visioni profetiche – “Sogni feroci su serpenti che trasportano i miei bagagli, di asini che schiattano…” – e abissi improvvisi – “Pensieri cupi. Zanzare esasperanti. Accendo il fuoco per darmi allegria”, scrive il ragazzo, in ottobre – screziano la palustre felicità di un beat ante litteram, un poeta beatificato dallo smarrimento. Di solito, Everett scambiava ciò che trovava – selci, residui indiani – e quel che creava per brandelli di cibo; di solito, il ragazzo era ospitato da fattori, archeologi, agricoltori. I genitori, ad ogni modo, gli davano qualcosa – dopo vaste solitudini, Everett faceva tappa a casa. Agnizioni d’Oriente, il cuore come un haiku, lo travolgono, a tratti:
“Guardo la luna sull’acqua, un gufo volteggia su di me, ha ali di velluto”.
Vista e visione sembrano coincidere e permettono al ragazzo brani che contengono verità ferine:
“La sera mi arrampico sulla rupe, in alto, sul fiume. Raccolgo fiori scarlatti, scendo appena le stelle brillano. I venti sibilano nel canyon e fanno ondeggiare gli alberi… La bellezza isolata, solatia è terribile, insopportabile; vederla, così nitida, uccide chi la sfida. Unico rifugio è nelle piccole cose, insignificanti, nel lavoro che allena il pensiero e lo aliena, nella compagnia che restituisce all’ego un po’ della sua antica virilità. Ma chi ha guardato a lungo la nuda bellezza potrebbe non tornare mai più al mondo: se ci provasse, non troverebbe altro che occupazioni vuote, vane, rapporti umani futili e senza senso. Solo e perduto, non gli resta che morire sull’altare della bellezza”.
Chissà poi se Everett morì, e come. Il ragazzo scompare alla fine del 1934, poco più che ventenne; lo si vede, per l’ultima volta, a Escalante, nella Contea di Garfield, Utah. La madre si rassegna a dichiararlo morto soltanto nel 1961. Nessuno ha mai trovato il corpo di Everett Ruess. “Il viaggiatore che scompare, che non fa più ritorno, che cancella il suo stesso nome nell’antichità della natura selvaggia. È qui che nasce la leggenda di Everett Ruess. Si immagina che si sia dissolto nella sabbia, il suo cadavere eroso in un battibaleno dalle intemperie, risucchiato dalla gola del canyon. Che sia stato ucciso dai ladri di bestiame, o da quegli stessi pastori che raccontavano di averlo visto per l’ultima volta. Che abbia inscenato la propria scomparsa per scomparire davvero. Che abbia attraversato il fiume Colorado insieme agli indiani che tornavano da Escalante alla riserva e che poi si sia addentrato sempre più a sud, nelle terre sconosciute, quasi impenetrabili, dei Navajo” (Angelo Airò Farulla).
I testi di Everett Ruess sono stati raccolti in un paio di libri – On Desert Trails, a cura di Hugh Lacy, nel 1940 e da W.L. Rusho, nel 1983, in Everett Ruess: Vagabond for Beauty –, altri ne sono stati scritti. Nel 2011 per la University of California Press, Philip L. Fradkin ha raccolto documenti e rilievi biografici in Everett Ruess: His Short Life, Mysterious Death, and Astonishing Afterlife. Se la vita di Everett Ruess passa di labbra in labbra come un mito e un monito, sortilegio sorgivo che slega civiltà e selvaggio, norma e natura, immaturo sogno di una fatua fuga dal mondo, i suoi testi restano intradotti, zittiti. Dal canzoniere scelto da Angelo Airò Farulla, scelgo alcuni brani da Wilderness Song, poesia-manifesto pubblicata sul “Los Angeles Daily News” il 10 maggio del 1935. Pochi giorni dopo sarebbe scomparso anche T.E. Lawrence, a tutta velocità, in uno sfarfallio di luci.
Sempre sono stato un amante delle lande selvagge:
Un cauto incosciente che i picchi montani ha scalato,
Che del mare l’intrepida musica a lungo ha ascoltato,
Che sull’urlo del vento i suoi canti, nel deserto, ha intonato.
Sui sentieri, nei canyon, tra il caldo sospiro dei venti notturni
Che dolci soffiavano e soffiano tra i pini chiomati di stelle,
Ispirato, dietro al mio asino tranquillo ho camminato,
Sopra l’acqua che schiantava sulle rocce acuminate sottostanti.
Mi sono sdraiato nella fresca dolcezza dell’erba, e nelle radure
Di pioppi ho ascoltato il mormorio spettrale
Dei venti addolorati, laddove foglie d’argento fruscianti
Alle ossidate solitudini bisbigliano barbari rimpianti.
Il verde ondeggiamento del mare ho conosciuto; ho amato
Le rupi rosse e gli alberi contorti e i tersi cieli di turchese,
Il sollevarsi della sabbia bruna, le lente nubi assolate.
Ho assaggiato la pioggia e ho dormito al riparo di cascate…
Dite pure che patii la fame; che fui perduto e stanco;
Che dal sole del deserto fui bruciato e accecato;
Scalcagnato, assetato, per strane malattie ammalato;
Solo, bagnato, infreddolito… ma che il mio sogno non ho mai tradito!