Paradosso meridiano: Rimbaud, lo scomparso, il giovane svanito, il gioco di prestigio della lirica – eccolo, lo dici, ne acciuffi il ceppo del verbo e… puf!, è già via – chiede condivisione di miracolo. Va spezzato, come il pane. Se lo leggi da solo, nello shuttle della tua stanza, Rimbaud ti confonde, ti divora, ti ammazza. Non puoi imitarlo; devi seguirlo. Cioè, starti zitto. Smettere l’opera quotidiana – la scrittura, oppure: l’accomodarti tra le ore – e partire, avventarsi nell’ignoto, nel senza niente, avventurarsi a mordere la limonaia della vita. Da solo, Rimbaud brucia; insieme, stiamo intorno alla sua fiamma, oranti a quel lampo. Stiamo intorno alla sedia lasciata vuota dal poeta veggente, facendo rito di gratitudine – quella sedia è lì, chi avrà fame sufficiente per sedersi? In questa moltiplicazione di Rimbaud – un Rimbaud centuplicato, acceso all’eccesso – credo stia il lavoro di Carmelo Pistillo, che si è messo nel pericolo maggiore, tradurre Una stagione all’inferno (per La Vita Felice), dopo che nell’inferno del tradurre Rimbaud si sono messi in moltissimi. La traduzione, però – che, come deve accadere, esige che il tradotto perda ogni vocabolario – è l’esito di un incontro fugace – con Moravia, mito dell’adolescenza di Pistillo – e di una ossessione mordace – inizia a tradurre ventenne. Rimbaud, appunto, obbliga al silenzio. E Pistillo – che ha esorcizzato il silenzio scrivendo decine di pagine introduttive – per uscire dall’incubo bianco in cui è piombato ha chiesto aiuto. Ai vivi. Ai morti. Per capire questo libro, parere mio, bisogna partire dal fondo, dalla “Crestomazia rimbaudiana” – che dura sessanta pagine – dove si schedano molteplici, millesimati Rimbaud: di Giovanni Testori (“Credo che Verlaine avesse intuito subito una cosa: che gli angeli in esilio non desiderano il paradiso, bensì l’inferno; e che fatalmente lo cercano sulla terra dove, appunto, sono stati gettati…”) e di Vittorio Sereni (“Su Rimbaud si potrebbe tranquillamente spendere una vita di studio. Ma come vincere lo smarrimento di fronte a quel baratro; o, per altro verso, la tentazione di abbandonarsi alle troppe e contrastanti ipotesi che pullulano dal fondo di esso, variamente autorizzate da quanto lui ha lasciato di scritto?”), di Soffici e di Solmi e di Penna e di Bloom, ma pure dei poeti viventi, pretesi da Pistillo per questo libro, spesso balbettanti di fronte a Rimbaud il Tagliagole, ma è questo il bello, l’audacia dell’indeciso, del titubante (tra tutti, ritaglio parte del pensiero di Giancarlo Pontiggia: “Leggere Rimbaud, negli anni del ginnasio, fu come entrare in un continente nuovo, in una sorta di Africa nera della poesia. Come muoversi, quasi ipnoticamente, verso le sorgenti del Nilo, abbeverarsi di cieli inauditi, di pensieri assoluti”). Voglio dire, il resto è un gioco spericolato, un puzzle infernale, la mattanza sotto il mattino delle allocuzioni. Falciare brandelli di Saison e compararli:
Io! io che mi sono proclamato angelo o mago, liberato da qualsiasi obbligo morale, sono qui, riportato sulla terra, con un dovere da cercare, e la ruvida realtà da stringere! Contadino!
Sono forse in inganno? la carità è sorella della morte, per me?
Infine, chiederò perdono per essermi illuso con le menzogne. E andiamo.
Non c’è nessuna mano amica! e dove chiedere aiuto? (Carmine Pistillo)
Io! io che mi ero detto mago o angelo, dispensato da ogni morale, eccomi riportato al suolo, con un dovere da cercare, e la realtà rugosa da stringere! Bifolco!
Sono ingannato? la carità sarebbe sorella della morte, per me?
Insomma, chiederò scusa per essermi nutrito di menzogna. E andiamo.
Ma neanche una mano amica! e dove attingere soccorso? (Diana Grange Fiori)
Io! io che mi son detto mago o angelo, esonerato da ogni morale, vengo restituito al suolo, con un compito da cercare, e la realtà rugosa da abbracciare! Bifolco!
Sono ingannato? la carità sarebbe forse sorella della morte, per me?
Infine chiederò perdono per essermi nutrito di menzogna. E via.
Non una mano amica, però! e dove trovare aiuto? (Ornella Tajani)
Eppure, è questa comunità rimbaudiana, di poeti ribaldi che non hanno neppure un’Africa né un Aden in cui sparire, in espatrio poetico, che coltivano il cuore di tenebre nell’Harar della metropolitana, che mi conquista. Non resta, rifiutati, sfigati, spretati, che conquistare una città, il circondario del sé, fino all’ultimo fiato. (d.b.)
L’editore Marsilio ha da poco pubblicato una nuova traduzione delle poesie di Rimbaud: di fatto, non c’è editore che non abbia il ‘suo’ Rimbaud. Perché non ti sei accontentato del tanto che già editorialmente esiste, delle traduzioni esistenti, intendo?
La risposta, in un certo senso, è già nella domanda. La Vita Felice, la mia casa editrice, accanto a moltissimi classici antichi e moderni, non aveva nel catalogo Rimbaud. Ma non è solo questo, naturalmente. Sarebbe una risposta editoriale che non mi compete. In realtà, come scrivo nella premessa, avevo un conto in sospeso con questo poeta rivoluzionario. La traduzione della Saison en enfer, in gran parte scritta ai tempi del servizio di leva – nel libro racconto come – era rimasta in silenzio sotto forma di desiderio inconfessato. Quel primo manufatto scritto a vent’anni sia a mano che di nascosto con l’Olivetti della fureria, dormiva da decenni nel cassetto. Parlando con l’editore è riemersa quell’idea, che poi ho abbandonato forse per paura di misurarmi con tutta la letteratura già esistente in proposito e sicuramente perché Rimbaud mi aveva gettato in una spirale di malinconia e di disfatta creativa. Sono stato un anno intero chiuso in casa, seduto in poltrona a guardare il soffitto. Come talvolta accade a chi scrive, mi sono sentito assediato dal fantasma del personaggio. Era già accaduto anni fa con Vincent van Gogh, un altro parto lunghissimo che mi ha portato a sperimentare la scrittura automatica. Parti di quel libro sono state scritte così. Non so spiegarne le ragioni. Probabilmente sono un caso clinico. Ma è anche vero, come dice Benn, che: “bisogna continuare /a portare in sé i motivi, / per anni, si deve saper tacere”. Quando devo affrontare un autore ho sempre la sensazione di trovarmi davanti a un’urna segreta e inviolabile. A un certo punto, come alcuni personaggi pirandelliani, Rimbaud ha deciso di venire alla luce e di chiedermi conto e giustizia poetica di quell’esperienza giovanile. Voleva esistere ancora una volta sulla pagina. Come un bravo soldato, ho obbedito. Ho ripreso la marcia.
Di Rimbaud, poi, scegli “Una stagione all’inferno”, lavoro barbarico e forse terminale: come mai?
Un caso. Comprai il libretto di Rimbaud tradotto da Ruggero Jacobbi in una libreria di Sabaudia, sotto gli occhi di Moravia, autore che amavo incondizionatamente e che ebbi la fortuna di conoscere proprio in quel luogo. Rimbaud, ha scritto Moravia, ha contribuito a salvargli la vita durante la sua lunga malattia. Se Moravia ama Rimbaud, pensai, come per una sorta di transfert, non posso che seguire il suo esempio. Tra una marcia e una ronda, una lezione di balistica e di storia, vale a dire tra la noia e la nausea per il servizio militare, mi avventurai nella traduzione di quel prosimetro infernale. Non so giudicare il risultato. Spetta a chi ne sa più di me. So che per trasformare un fantasma in un oggetto di studio, non mi è bastato tradurre la sua opera più famosa, ma ho dovuto scrivere un saggio di sessanta pagine che accompagna la traduzione. E altre duecento che dormono in uno dei tanti files dentro la memoria del computer.
Spalanco la domanda precedente: perché è ancora così decisivo Rimbaud, oggi? Perché è necessario continuare a tradurlo, a tradirlo?
Rimbaud, il ragazzo di Charleville, rappresenta la storia infinita della poesia. Con la sua opera ha posto un interrogativo senza tempo: è davvero necessario scrivere poesia? Lui l’ha fatto egregiamente, ma poi ha lasciato a noi il conto in sospeso. Ha preferito andarsene in giro per il mondo e ripiantare le radici in Africa. Nel momento stesso in cui ha decretato la fine della sua poesia, ha lasciato a noi l’onere di riportarla in vita. È come se ci avesse detto: se ci credete, andate avanti voi! Forse sta qui il motivo di cercare la spaccatura, la ferita che ha prodotto la sua metamorfosi, vale a dire quell’istante in cui è accaduto qualcosa di enorme e d’inspiegabile: il sacrificio delle parole poetiche a favore di quelle della vita. È questa la sfida!
Ti sei fatto accompagnare, nel lavoro, da una massa di poeti, ciascuno dei quali ha dato descrizione del suo Rimbaud: come mai questa scelta?
Avevo rinunciato, ero solo. Chi scrive, lo so, è sempre solo. Scrivere vuol dire decidere d’imprigionarsi nelle stanze della propria mente. Scrivere, ha detto Hebbel, vuol dire anche suicidarsi. Ma nessuno sapeva di questo lavoro rimasto in sospeso e che stavo male. Nemmeno l’editore, che pazientemente aspettava il lavoro finito. E lì che è scattata l’idea di chiedere ai poeti una loro testimonianza, in realtà un soccorso spirituale. Quell’idea è stata terapeutica. Tutti i libri in circolazione riportavano sempre il giudizio e le riflessioni di scrittori morti. Un vero cimitero, una sequela di croci legate alla cultura del passato. Nessuna contemporaneità. Ho cominciato a fare l’appello e la risposta è stata… beh, basta sfogliare quella che ho definito Crestomazia rimbaudiana, in assoluto un unicum. Si tratta di sessanta pagine, un libro nel libro. Alcuni poeti hanno scritto dei brevi saggi, andando al di là della misura richiesta. Naturalmente, accanto ai testimoni d’oggi, tutti corredati della loro bibliografia, ho voluto recuperare le voci del passato, alcune mai citate, ma cruciali e fondamentali per la mia prospettiva. Ne è venuto fuori una specie di palcoscenico con i poeti di ieri da un lato e quelli di oggi dall’altro. Al centro Rimbaud, l’oggetto del desiderio.
Ognuno, in effetti, ha il ‘suo’ Rimbaud: Arthur è tanto sfuggente da stare nella tasca di chiunque lo legge, si fa predare da tutti, essendo di nessuno. Qual è il tuo Rimbaud? O meglio: qual è l’aspetto di Rimbaud che ti ha affascinato, che ti continua a conquistare?
La sua vita, la prosa più della poesia. Lo so, sembra un paradosso, soprattutto per un autore come me che vive immerso nei libri e che rifugge dagli aspetti del mondano.
*In copertina: caricatura di Rimbaud sulla copertina di “Les Hommes d’aujourd’hui”, n.318, gennaio 1888