“Non sono mai stato felice altro che negli inganni”. La poesia di Luca Canali
Poesia
Giorgio Anelli
The Tyro era grave di rabbia salutare, che esplodeva a momenti, “a intervalli di due o tre mesi”. The Tyro fu una delle più strambe riviste del primo Novecento, quando le riviste erano il propulsore letterario fondamentale. Fondata da Wyndham Lewis, stampata a Londra da “The Egoist Press”, durò l’arcata stretta di due numeri, il primo nel 1921; nel 1922 era già defunta. Peripezie muscolari di Lewis, che si gettava a pesce in una impresa, annoiandosi troppo in fretta. La “Review of the Arts of Painting Sculpture and Design”, retta sull’ispirazione di Lewis e da lui illustrata, prolungava l’esperienza di BLAST – che durò pochissimo, tra luglio 1914 e luglio 1915, ma fu fieramente ‘seminale’, l’alcova del Vorticismo, per merito di Ezra Pound – con una nuova convinzione. Che dopo la Grande Guerra bisognasse costruire un uomo nuovo e un’arte all’altezza, attuale. In effetti, l’editoriale di Lewis – che nel 1918 aveva pubblicato il suo primo grande libro, Tarr – è lampante, “Siamo al principio di una nuova epoca, appena inaugurata, siamo i primi bimbi del nuovo” (titolo: “The Children of the New Epoch”).
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Tyro stava a significare “una persona elementare; l’Elemento”. Lewis costella la rivista di Tyros, cioè di volti, simili ai monoliti dell’Isola di Pasqua, che ridono con sguardo spavaldo, rabbioso. Rabbia, risata e desiderio, in effetti, sono le parole fondamentali di Lewis che morde la vita, la strappa, ha una visione carnale dell’arte, selvatica. “Questi immensi novizi brandiscono i loro appetiti sul viso”: l’idea è quella del continuo esordio, di una perpetua fame. Al netto del linguaggio provocatorio, rustico ed elastico, che accarezza gli eccessi, una frase è interessante, nelle motivazioni che reggono la rivista. “Durante il Rinascimento, in Italia, non destava meraviglia vedere un uomo che, alternativamente, cesellava una parola e dava forma alla pietra”. Qui si vede: la molteplicità dei talenti rispetto alla speciosa specializzazione; il Rinascimento come mito dell’uomo totale, che dà forma a sé formando il mondo; il fatto che la parola sia pietra, che la parola vada modellata.
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Privo di Pound – un baricentro per tutti – Lewis non riuscì ad organizzare a lungo la rivista, che di fatto era un catalogo delle sue idee e delle sue opere (nel 1921, alla Leicester Gallery, realizza la mostra “Tyros and Portraits”). Gli fu al fianco, però, Thomas S. Eliot, che nel primo numero fa lezione su Baudelaire e si esprime in un saggio critico su “The Romantic Englishman, the Comic Spirit, and the Function of Criticism”. Più interessante l’articolo che Eliot pubblica nel secondo – e ultimo – numero di The Tyro, finora inedito in Italia, “The Three Povincialities”. Partendo da una considerazione di fatto – la letteratura ‘inglese’ è divisa in tre ‘province’: quella d’Irlanda, d’Inghilterra e di Usa – Eliot afferma che il grande scrittore si libera del ‘locale’ per giungere all’universale (non proprio una scoperta), che la sua unica ‘tradizione’ non è la patria ma il linguaggio. Eliot anela a liberare la letteratura in lingua inglese dai localismi – per questo non capisce gli scrittori irlandesi che vogliono adottare la propria lingua natia: si condannano al provinciale – per ascendere a una cultura pienamente ‘europea’. Questo ‘europeismo’, questo imperialismo dell’universale – il primo Eliot, per distaccarsi dalle pastoie della lingua inglese, studia i francesi e scrive poesie in francese – che Eliot ha già sfiorato nel saggio “Tradition and Individual Talent” (1919), sarà sviluppato pienamente nel testo del 1945, “What is a Classic?”. Già allora – siamo all’epoca di “Gerontion”, dentro il cantiere che porterà, proprio quell’anno, alla pubblicazione della “Waste Land” – Eliot lastricava la propria idea di una letteratura sovranazionale. Si apprestava a diventare un ‘classico’: lo divenne quasi subito (chiedere a Montale). Non amava l’esotico, il regionalismo, le ragioni di una identità specifica, locale (a differenza di D.H. Lawrence e di William Faulkner che sul micro-regionalismo sviluppò il genio del romanzo americano). Credeva che lo scrittore dovesse affondare nel luogo oscuro delle parole, saggiandole, fino a costruire un “nuovo idioma”. Per questo, preferiva Joyce a Yeats – ancorato agli ‘irlandesisimi’ – e Edgar Allan Poe a Dickens. (d.b.)
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Per diversi anni sono esistite, chiaramente, tre tipi di letteratura inglese: una scritta da Irlandesi, l’altra da Americani, la terza composta dagli Inglesi stessi. Trenta anni fa la letteratura inglese e quella irlandese erano amalgamate. Voglio dire che il movimento letterario inglese fu sostenuto ampiamente dagli irlandesi; per alcuni anni i ranghi inglesi, piuttosto impoveriti, hanno fatto spazio agli irlandesi. La letteratura inglese era priva della vitalità adatta ad assorbire questi elementi estranei; di recente, in accordo con le questioni politiche, scrittori irlandesi (per lo più di minore importanza) si sono riuniti a Dublino. Restano invece, come parte permanente della letteratura inglese, alcune poesie di Yeats e, con più perplessità, alcuni testi di Synge (troppo locali per restarvi a lungo, probabilmente). Per quanto riguarda il futuro, si può prevedere che il lavoro di Mr. Joyce possa arrestare la corrente irlandese separatista, poiché la sua è la prima opera irlandese, dai tempi di Swift, a possedere un significato assolutamente europeo. Joyce ha usato ciò che è locale e nazionale per tramutarlo in qualcosa di internazionale; così che i futuri scrittori irlandesi, misurati sulla base di questo standard, dovranno scegliere se percorrere lo stesso ideale o scrivere solo per un irlandese e non per il pubblico europeo. Non più contadini comici, eroi epici, Deirdre, povera gente; Mr. Joyce è un esempio. James Stephens in un numero recente di “Outlook” ha detto che gli scrittori irlandesi dovrebbero tornare alla lingua irlandese. In quel caso, è inutile discutere ancora di letteratura irlandese.
A differenza di quella irlandese, la letteratura americana non ha ancora ricevuto un simile colpo mortale dalla mano nativa. Questo dipende dal fatto che l’America possiede un numero maggiore (anche contando la diversità della popolazione) di scrittori di second’ordine rispetto all’Inghilterra, e ciò rende la sua “letteratura nazionale” estremamente fiorente. Se non ha prodotto nulla di comparabile alla letteratura europea, conta comunque un numero considerevole di scrittori intelligenti; ha molti critici letterari attenti e di mentalità più aperta di quelli di qualsiasi generazione in questo paese; e i suoi poeti e romanzieri infine ammirano ideali rispettabili e tendono alla luce. L’avanzata della “letteratura americana” è accelerata dal collasso dello sforzo letterario in Inghilterra. Si potrebbe dire che lo stato attuale è una specie di scandalo che non si può più nascondere alle altre nazioni; la letteratura è nelle mani di persone che potrebbero occuparsi di tutt’altro; la letteratura ha l’apparenza di un giardino non coltivato, non curato, soffocato dalla vegetazione nata dal seme di una pianta dell’anno scorso, germinato per caso.
È un segno della povertà e della cecità della nostra critica che in tutti e tre i paesi si sia diffuso un atteggiamento sbagliato nei confronti della nazionalità, adottato inconsapevolmente o sorto con consapevolezza. Il punto è questo: la letteratura non è primariamente una questione di nazionalità ma di linguaggio; le tradizioni del linguaggio e non le tradizioni della nazione o della razza sono ciò che interessa a uno scrittore. Gli irlandesi radicali sono encomiabili quando pretendono la necessità di una scelta. L’Irlanda deve sviluppare la propria lingua o aderire agli standard internazionali. Dal mio punto di vista, è irrilevante se la letteratura inglese è scritta a Londra, a New York, a Dublino, a Indianapolis o a Trieste. Tra cinquant’anni sarà possibile per tutti stare a Parigi come a New York. Ma non se ne curerà la letteratura inglese, se vuole essere di primo piano e non un mero spettacolo per divertire i lettori. L’America svilupperà nel tempo un linguaggio più articolato (mentre l’Irlanda potrebbe preferire il ritorno a una lingua più barbara), allora si creerebbe una letteratura Americana separata – contingente, è possibile, dopo la scomparsa o la definitiva degenerazione della lingua inglese in Inghilterra.
Ogni letteratura ha due lati; ha ciò che è essenziale come letteratura, che può essere apprezzata da tutti, con una adeguata conoscenza del linguaggio, e d’altra parte ha ciò che può essere goduto soltanto da un particolare gruppo di persone che abita una porzione particolare del pianeta. Se infine per adeguata conoscenza del linguaggio intendiamo completa conoscenza (e nessuno può dire di avere una conoscenza completa di un linguaggio), è facile confondere questi due aspetti. Il critico è la persona che ha il potere di distinguere questi due punti di vista e discernere che cosa, dentro un’opera letteraria, abbia il suo posto nella letteratura europea e che cosa abbia una importanza squisitamente locale. (Nel caso di uno scrittore come Dickens, ad esempio, questa distinzione deve ancora essere perfezionata).
La letteratura inglese soffre al momento, credo, come ciò che è scritto in America, di un delicato provincialismo. (Molti versi contemporanei, ad esempio, si appellano all’amore dell’uomo inglese verso la campagna più che a una universale percezione della Natura, come Wordsworth raramente ha fatto). E quanto è tardivo e ancora insufficiente l’apprezzamento inglese di uno degli scrittori più grandi e meno provinciali: Edgar Allan Poe. La lezione del linguaggio, perciò, è da apprendere su entrambi i lati dell’Atlantico. Di ogni parola che usa, lo scrittore deve capire la storia, gli usi in cui è già stata applicata. Questa conoscenza facilita il suo compito di dare nuova vita alla parola, un nuovo senso al linguaggio. L’essenza della tradizione è proprio qui: nell’ottenere il più possibile dalla storia che si agita dentro una parola. Non tutti i buoni scrittori ne sono consapevoli – non so fino a che punto Wyndham Lewis abbia studiato la prosa elisabettiana – Joyce non ha solo una tradizione ma ne possiede la consapevolezza. I grandi scrittori produrranno sempre opere che non sono Americane, o Inglesi, o Irlandesi, ma che prendono posto nella “Letteratura Inglese”. È un peccato che gli scrittori di secondo piano, per mancanza di ampiezza critica, continuino a insistere, per vanità patria o per incoscienza, perpetuando ciò che li renderà infallibilmente insopportabili ai posteri. Lo scrittore britannico che si ritira a scrivere nel fine settimana o quando è in ferie, non troverà congeniali queste idee. D’altronde, non andranno a genio, per altre ragioni, neppure ai critici americani.
T. S. Eliot
*In copertina: Thomas S. Eliot con la prima moglie, Vivienne Haigh-Wood