20 Maggio 2023

“Il cuore trionfa, più forte di tutto”. Paul Valéry, il poeta maledetto

Yves Bonnefoy[1] scrive che la poesia è finalmente tornata a se stessa dopo l’ebbrezza e la fine del grande sogno di Mallarmé, vale a dire il progetto di superare “la distanza tra la parola e questa cosa reale”, ovvero la distanza tra ciò che è raffigurato e ciò che è, per esempio questo fiore qui fiore, che infatti è “assente da ogni bouquet”. Il sogno o l’ossessione di Mallarmé era poter cogliere tutto il reale nel Libro. La sua era un’aspirazione alla salvezza, alla redenzione dalla caducità delle cose che nel Libro dovevano diventare Idea, intransitiva come la parola poetica che non rinvia ad altro che a se stessa. È la riproposta dell’Idea, dell’eidos platonico, che è al di là non solo della cosa ma anche di ogni parvenza, di ogni eidolon. Non è più necessario raffigurare il fiore. La sua essenza è già nella parola poetica chiusa nel libro. Ma “la poesia come l’amore”, scrive ancora Bonnefoy, “deve decidere che gli esseri sono”. La poesia, infatti, non salva le cose e gli esseri dalla precarietà chiudendoli disincarnati nel Libro, ma è tesa a “nominare ciò che si perde”, ciò che vive e che perciò, come ha detto Eliot, può soltanto morire[2]. Il drammatico fallimento del sogno mallarmeano ci ripropone “la carta della poesia ritrovata, il sonetto A une passante di Baudelaire che ci fa scoprire che “la materia della poesia ripresa dopo tanto errare è la meditazione della morte”. Poi, subito sotto, aggiunge:

“Ma Valéry non ha mai saputo che fosse stata inventata la morte”.

L’affermazione è stupefacente. La grande poesia di Valéry sembra essere al contrario interamente nel segno della morte. Non sappiamo quale delle tre moire la Giovane Parca porti sulla scena, ma le Parche costituiscono di fatto un’unità – in Omero erano infatti un’unica figura – e questa unità parla implacabile del destino mortale dell’uomo. Narciso, a cui Valéry ha dedicato un ciclo intero di poesie, concentra in sé la ricerca e la scoperta dell’Io che è al contempo la rivelazione della morte. In una conferenza del 1941 Valéry parla dei suoi testi intorno a Narciso come di un’autobiografia poetica. E in un’annotazione nei suoi Cahiers anch’essa del 1941 Valéry scrive:

“Ascoltami… L’uomo ad ogni istante, incontra l’indefinibile.  Sembra che egli, ad ogni istante, si avvicini a qualche punto dal quale è subito respinto. Tocca all’estremo di una sensazione o di una impressione e ne è respinto e ricade nel suo luogo in cui si ritrae nel suo guscio. Così l’idea della morte, – così il suo proprio io, quando cerca di liberarlo da tutti i suoi attributi variabili”[3].

L’io e la morte, dunque. Anche il Cimitero marino, non solo per Bonnefoy “il più bel poema di Valéry”, in cui la solarità mediterranea diventa “scintillio di tombe”, è forse la rivelazione di una soglia, forse la soglia di una possibile nekyia, di un viaggio che dallo splendore del giorno conduce a un camminamento tra le ombre.

“Dimenticare Valéry”, scrive Bonnefoy. Cerchiamo di capire il senso di quella che pare essere una vera e propria ostilità, che ritroviamo anche in Nathalie Sarraute, accanto alle riserve di Emil Cioran o di Jacques Derrida. Ma la presa di distanza di Bonnefoy è particolarmente significativa e a apre una prospettiva di grande interesse che può portarci anche a conclusioni diverse dalle sue. Scrive Bonnefoy:

“Penso che sia stato nel nostro tempo il vero poeta maledetto [s.m], al riparo senza dubbio dalla sventura e dalla immaginazione della sventura ma condannato alle idee, alle parole (alla parte intellegibile della parola) non avendo saputo le cose, e privato da quella gioia essenziale mescolata alle lacrime che strappa d’un colpo l’opera poetica alla sua notte”.

Valéry, ospite di cenacoli letterari, di salotti mondani atenei e accademie dove è “ospite acclamato, poeta riconosciuto, l’immagine stessa dell’esprit francese”[4] è davvero un poète maudit? Forse, secondo Bonnefoy, lo è in quanto avrebbe aperto un vero e proprio conflitto con la poesia.

*

Montale ha scritto in Satura rivolgendosi alla moglie: “La poesia e la fogna, due problemi / mai disgiunti (ma non te ne parlai)”[5]. Qualcosa del genere ha scritto Czesław Miłosz parlando di quella “scia di immondizie e di cascami disseminati sulla via che porta a pochi segni perfettamente puri”[6]. Quei grumi trasportati negli interstizi dei versi poetico o sulla tele che riempiono gli spazi di gallerie e di musei, hanno l’odore acre della caducità, hanno l’odore della morte. Valéry lo ha percepito quando in mare incontra,

“sotto quell’acqua meravigliosamente piatta e trasparente, un orribile e splendido caos che mi fece fremere: c’erano là delle cose d’un rosso nauseante, masse di un rosa delicato o di una porpora profonda e sinistra… Riconobbi con orrore l’ammasso spaventoso di viscere e delle interiora di tutto il gregge di Nettuno che i pescatori avevano rigettato in mare”[7].

Qui Valéry lo ha percepito astrattamente. Lo ha invece vissuto nell’infelice relazione con Jeanne Loviton.

È una relazione tormentata, che via via diventerà drammatica e disperata. Valéry si impegna a correggere le bozze di un romanzo della donna, lei vorrebbe spingerlo e lo ha quasi convinto a scrivere un romanzo a quattro mani. Jeanne nel 1943 diventa anche l’amante dell’editore Denoël, che più di Valéry o dei suoi altri amanti poteva aprirle la strada per pubblicare. E Valéry scrive poesie. Scrive poesie per lei, per conquistarla, per trattenerla. Dopo aver affermato che la poesia è intransitiva, e che non ha un senso o un significato rivolto alle cose, al mondo, agli esseri, piega la sua poesia ad una funzione strumentale[8]. Jeanne sposa Denoël nel 1945, e Valéry, straziato e umiliato, nello stesso anno, inaugurando l’ultimo dei suoi Cahiers con l’epigrafe Sub signo doloris ad un certo punto scrive:

“Ho la sensazione che la mia vita sia finita, cioè non vedo più niente che richieda un domani. Quel che mi resta da vivere non può più essere ormai tempo da perdere. Dopo tutto ho fatto quel che ho potuto. Conosco: 1) abbastanza bene la mia mente. Credo che quel che ho trovato d’importante – sono sicuro di questo valore – non sarà facile da decifrare dalle mie note – Non importa. 2) Conosco anche my heart. Esso trionfa più forte di tutto, della mente, dell’organismo. È un fatto”[9].

Non le viscide viscere dei pesci che galleggiano sotto la superfice di cristallo del mare, ma il proprio cuore, pudicamente detto in inglese my heart, è il lato oscuro che la poesia non può né rimuovere né sublimare, perché esso è “più forte di tutto”. Più forte dell’organismo e più forte della mente. È un’oscurità che attraversa come un lampo buio anche l’ultimo pensiero di Monsieur Teste. È un’oscurità che paradossalmente illumina e rende abbaglianti La giovane Parca, i testi su Narciso, il Cimitero marino.

*

Il 29 dicembre del 1921, sulla soglia delle Elegie duinesi e dei sonetti a Orfeo, Rilke scrive a Lou Andreas Salomé delle sue letture e dice che

“assolutamente stupendi sono per me gli scritti di Paul Valéry, di cui sono riuscito a tradurre una poesia, “Le Cimetière marin”, con un’equivalenza che tra le due lingue credevo appena raggiungibile. Quando avrò riacquistato un po’ di sicurezza in me, spero di potermi cimentare anche con la sua prosa”[10].

Rilke comunica dunque a Lou la sua emozione e su questa emozione dovrei chiudere questo mio testo. Eppure, penso di dover dire ancora qualcosa.

Due testi mi si sono presentati insieme all’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso. Stavo scrivendo di Wittgenstein, di Benjamin, di Nietzsche e di Freud nel Silenzio e le parole e in Miti e figure del moderno quando ho incontrato Valéry, dapprima dei Cahiers, e contemporaneamente l’immenso epistolario di Flaubert, due testi per molti versi antitetici e, se vogliamo, conflittuali. Valéry detestava Flaubert, che probabilmente l’avrebbe ricambiato. È stata la scrittura rapsodica e per certi versi enigmatica dei Cahiers e la scrittura rapsodica, fluviale delle lettere di Flaubert, che mi ha preso con una forza inattesa. Ho tradotto un’antologia delle lettere di Flaubert, una sorta di tributo pagato alla mia passione per la sua intelligenza, per la sua anima, per la sua lotta disperata e inesausta contro la bêtise, e per la sua scrittura. La sua presenza è stata però piuttosto rara nei miei scritti. Più frequente è stata la presenza di Valéry, soprattutto sulla rottura del tempo lineare e progressivo, che è decisiva per il pensiero del moderno a partire da Nietzsche, e poi Benjamin, e Proust e appunto Valéry soprattutto in alcune annotazioni dei suoi Cahiers sul tempo-ripetizione. Avrei voluto tradurre e presentare proprio quelle note, e non è stato possibile per questione di diritti. Quindi ho pagato il mio debito nei suoi confronti traducendo Cimitero marino.

È stato un lavoro appassionante in un contatto molto ravvicinato con il testo. Non oso dire, come Rilke, “con un’equivalenza che tra le due lingue credevo appena raggiungibile”, eppure è quello che ho cercato. La mia non ha voluto essere una traduzione di “servizio” a fianco del testo originale. Ho cercato una fedeltà al testo che fosse anche fedeltà alla poesia del testo, alla sua struttura, e che proponesse una sua musicalità. Così, ho lavorato per ospitare Le cimitiere marine con tutte le sue rime in uno spazio che ho chiamato Il cimitero marino. Il cimitero marino di Paul Valéry.

Franco Rella

*Per gentile concessione pubblichiamo un estratto dalla postfazione di Franco Rella a: Paul Valéry, “Il poeta maledetto. Monsieur Teste. Il cimitero marino”, De Piante, 2023


[1] Y. Bonnefoy, Valéry, in L’improbable e autres essais, Gallimard, Folio, Paris 1992. Data la brevità del testo non si dà riscontro di pagina.

[2] T.S. Eliot, I quattro quartetti, tr. it. di F. Donini, Garzanti, Milano 1994, I, 5.

[3] P. Valéry, Cahiers, a cura di J. Robinson, Gallimard, Paris 1973-1974, vol. II, p. 539.  Questa edizione dei Cahiers è ordinata tematicamente, e riporta una parte dei 29 volumi in cui sono raccolte 50 anni di annotazioni quotidiane (CNRS, Paris 1957-1961). Ora una parte anche in Cahiers 1984-1914, a cura di N- Celeurette-Pietri, J. Robinson-Valéry, R. Pickering, 12 voll., Gallimard, Paris 1987-2012.

[4] M. T. Giaveri, Un’inesausta volontà di autocostruzione, in P. Valéry, Opere scelte, a cura di M. T. Giaveri, Mondadori, Milano 2014, p. XIII.

[5] E. Montale, Satura II, in Tutte le poesie cit. p. 398.

[6] C. Miłosz, Il cagnolino lungo la strada, tr. it. di A. Ceccarelli, Adelphi, Milano 2002, p. 144.

[7] P. Valéry Inspirations méditerranéennes in Œuvres cit, vol ii, p.1088

[8] Questi testi sono stati pubblicati in tempi relativamente recenti in P: Valéry, Corona &Coronilla, Éditions de Fallois, Paris 2008. Bernard de Fallois ne scrive la postfazione L’histoire de Corona.

[9] P. Valéry, Cahiers XXIX, p. 908. È il testo con cui M. T. Giaveri chiude la sua Cronologia valeriana in Opere scelte cit. che ho ripreso qui nella sua traduzone. Émilie Teste, la moglie di Monsieur Teste, aveva affermato: “Ma non so se egli abbia un cuore”. Il cuore di fatto c’era.

[10] R. M. Rilke a Lou Andreas Salomé, 29 dicembre 1921, in Rilke, Noi siamo le api dell’invisibile. Lettere da Muzot, a cura di F. Rella, De Piante, Milano 2022

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