Joseph Grand o della ricerca della perfezione. Sul più affascinante personaggio de “La peste”
Letterature
Daniele Moglia
L’opera si espia, fino all’ultimo respiro, si inscrive nel corpo, esasperandolo. Per capire l’opera conturbante, dissipata, da contorsionista del verbo, di Antonin Artaud bisogna incrociare la fotografia del 1926, mentre recita in Le Juif errant, a quella di vent’anni dopo, tra i rifiuti di Rodez. Quel volto di ineffabile innocenza, spaventoso per purezza, è, ora, nei momenti ultimi, derelitto, deprezzato, bestemmiato, stravolto nel suo contrario, senza denti, con gli sciacalli negli occhi, pura stimmate. Il corpus letterario s’incardina nel corpo: Artaud passa dal “teatro della crudeltà” all’anatema, all’idolatria della lingua, idioletto magico, effluvio di sort, di maledizioni, parola-feticcio, formula esoterica, fetida (“Tolga adesso, Hitler, gli sbarramenti che avevo fatto!”, intima Artaud, in una lettera del 1939: era certo di aver incontrato il futuro Führer “nel 1932 presso il caffè dell’Ider a Berlino”). Corroso il corpo, si sradica il linguaggio, fino al fetore glossolalico, “ti largar/ ori tartura/ la tartura/ ara tula” (esercizio trascritto nel gennaio del ’47), balbettio confinato in sé, dunque infinito, bava di lettere che ascende, tra Dio e lurido.
L’agonia del recluso – che coincide con una nuova visione letteraria, eletta dal manicomio – comincia nell’ottobre del ’37. Il dottor Romain certifica “turbe mentali caratterizzate da idee di persecuzione con allucinazioni” e incamera il poeta a Les Quatre Mares, ricovero psichiatrico presso Sotteville-lès-Rouen, Normandia. Artaud era stato arrestato a Dublino: dopo una rissa, aveva cercato di forzare il Milltown College, sede dei Gesuiti in Irlanda. Doveva confessarsi. Aveva perduto il bastone di San Patrizio, Bachal Isu, straordinario strumento del santo, distrutto nel 1538 per impeto iconoclasta. Artaud diceva di averlo ritrovato, voleva restituirlo agli irlandesi. Il vagabondaggio alle Aran è rimasto impresso: “Pensavo fosse un recluso, un prigioniero o qualcosa del genere… Quando portavo le mucche al pascolo, lo incrociavo spesso, seduto sulle rocce. Era riservato, chiuso in se stesso”, ricorda Bridget O’Toole, una di lì, anni dopo la morte del poeta.
Chiunque incroci Artaud ne viene segnato, ustionato; anche il viaggio in Irlanda, all’apparenza insignificante, ha la trigonometria di un’epica ipnotica: nel 2018 le edizioni Diaphanes, per la cura di Stephen Barber, hanno pubblicato come Artaud 1937 Apocalypse le Letters from Ireland by Antonin Artaud. Fermato il 23 settembre dalla polizia irlandese, imbarcato una settimana dopo sul “SS Washington”, il poeta atterra a Le Havre. Le Havre è un luogo chiave nella topografia artaudiana: lì termina l’altro viaggio formidabile, in Messico, verso i Tarahumara, popolo arcano in cui rivivono – secondo le teorie dell’occultista Antoine Fabre d’Olivet, fonte di Artaud – le fatue vestigia degli abitanti di Atlantide. Anche nell’altro mondo, indelebile è la memoria del corpo di Artuad: “Lo ricordo incandescente, fatto a pezzi da se stesso, strangolato, fertile di guizzi e di crolli, errabondo, incapace di coerenza esteriore, anarchico a forza di sincerità…”, scrive di lui Luis Cardoza y Aragón; all’epoca aveva 25 anni, lo attendeva una luminosa carriera letteraria e politica.
Ma Artaud va visto da lontano, in zona protetta; e citato a lungo, a favore di terga, per salvarci dall’abisso in cui mai sprofonderemo. Le Lettere dai manicomi raccolte per le Edizioni Medusa da Pasquale Di Palmo come Sono nato dal mio dolore, sono piene di improperi (“Uomo sconcio, vecchio masturbatore… scrittore plagiaro di nefandezze senza idee”, scrive il 15 luglio 1939 ad André Gide; ma cinque anni dopo, nel gennaio del ’44, il tono cambia, “lei si è sempre comportato con me da buon cristiano, l’Amore che mi ha testimoniato è diventato per me assolutamente indimenticabile”), di urla lunari, di sonnambulismi orfici (“Io sono un fanatico, non sono un pazzo. Non voglio più saperne dell’ordinamento moderno, che porta al caos”, scrive il 7 aprile 1939 a Jacqueline Breton). Il manicomio è alcova per iniziati, catacomba di riti astrali, carnivori (“Ti avverto che ti mutilerò e ti taglierò a pezzi… e che farò bere il tuo sangue a cani e topi”, scrive, nell’estate del ’39, al direttore del manicomio Ville-Évrard): ma a che pro leggere la conturbante, turbata testimonianza di un genio gettato agli inferi? Artaud è l’emblema onnipresente – cioè: insopportabile, rivoltante – della poesia, che sempre è un pericolo, spazio dell’azzardo e dell’agguato; per questo il poeta non può che finire nella casa dei matti, nell’isolamento artico che sancisce o sconfigge la sua opera.
Uno dei rari, grandi romanzi di questi ultimi anni (perciò, pressoché ignorato dai critici avoriati nello snobismo), Tutte le voci di questo aldilà (Guaraldi, 2015), scritto da un poeta, Andrea Temporelli, comincia con la lista, funerea, dei poeti andati fuori di testa, letteralmente, per la poesia. Da Emilio Praga a Georg Trakl, che “trovò pace con un’overdose di cocaina”, da Ezra Pound a Sylvia Plath ad Amelia Rosselli e Antonia Pozzi, la poesia dialoga sempre con la devianza, dilaga nel delirio, lecca i denti al male, ha a che fare, spesso, con la pazzia. “Resta da capire, comunque”, conclude Temporelli, “perché ci siano così tante persone che ancora oggi si dannano l’anima pur di diventare poeti famosi, cioè squinternati-morti-di-fame”. Già: il binomio poesia/follia, al netto dello strazio, è diventato un cliché come gli altri, una moda, basti il successo di Alda Merini, spartita come i Baci Perugina, e l’oscenità di quelli – più scaltri che folli – che mettono in versi, di solito banali, la propria patologia, il regesto dei propri azzurri dolori.
“Non è la schizofrenia, ma la normalità che è schizofrenica… gli schizofrenici soffrono della verità”, scrive Norman O. Brown in un libro necessario – e oggi negletto –, Corpo d’amore. Eppure, non tutti gli schizofrenici sono poeti – semmai, imbracciano una poetica – e non tutti i poeti sono pazzi. Certo, c’è la miliare follia di Friedrich Hölderlin – “Si rivolse a me chiamandomi Vostra Maestà Reale e il resto del discorso fu in parte senza senso… Hölderlin mi turba. Dio, Dio, Dio! I pensieri, lo spirito audace, elevato, puro di quest’uomo folle!”, scrive l’estasiato Wilhelm Waiblinger – e quella magnetica di Dino Campana; le nevrosi di Umberto Saba e di Andrea Zanzotto, gli scatti di Dylan Thomas e del suo discepolo, David Gascoyne, che finì in un sanatorio sull’Isola di Wight (dopo aver tradotto Hölderlin). Ogni poeta è attratto dall’altro lato dell’uomo, l’autentico; d’altronde, la poesia, sempre, è elusione del senso, conferma dell’ambiguo, ambizione al tremendo. Soprattutto, è un bisturi; non concede appigli. Wallace Stevens e Saint-John Perse hanno portato il linguaggio poetico a punte di inaudita vertigine. Non erano, agli occhi della società, pazzi, anzi: il primo è stato alto dirigente per una sontuosa società di assicurazioni americana, il secondo era il braccio diplomatico di Aristide Briand.
“Non ricordo di essere mai nato”, scrive, da Rodez, Artaud. Eccolo, l’abracadabra del poeta – ne vedi l’ombra, il volto frainteso, e il suo canto ti scardina la mascella, ti aggioga a una gioia ambigua.