Non si sceglie l’Afghanistan per colorire il caso. Il magnete potrà essere pure l’India, coreuta dello spirito – ma chi sceglie l’Afghanistan preferisce il tintinnio dell’inno e le mitraglie che sfrangiano l’orizzonte; il monolite Islam che si regola sui precordi glifi cristiani; l’ira shivaita, con la lingua di fuori, simile al tuono; una cornucopia di mercenari – terra di pellegrini, di spretati, di chi si addestra a un cielo petroso, pari alla terra, di sfracellati angeli. Vi risuonano ancora i passi dell’esercito di Alessandro. Ossessionato dai colori della Battriana – l’oro dei re, il grigio dei morti – il re macedone fece fiorire città al suo passaggio, effimere come i pascoli d’alto monte, che durano il tiro di sasso di un mese.
Striature di tigre buddista, calamità zoroastriane, il soffice soffio dei sufi, i sauri più savi del Vecchio della Montagna: quella terra prostrata a ogni rivoluzione – dunque, sempre eguale a se stessa – piaceva a Franco Busca, che vi piantò liriche gambe – postura del rapace in rotta. Uomo capace di voltare braci, dadi di fuoco, alla ricerca di un destino, per decrittare il ricordo che è sul fondo di ogni ricordo.
Mani simili a granchi – volto-totem.
La poesia di Busca nasce afghana: nasce di spalle. Va sbriciolata insieme alla menta seccata e ai fiori di rosmarino – il suo risonare ha un odore.
Ricorre, in questa bisaccia di versi, la figura dello specchio, gemello del fuoco – lo specchio svela il mio sembiante, che il fuoco incenerisce. “Chi custodisce il segreto dello specchio senza tempo”; “ho chiuso nello specchio tutta la seta rimasta del sole”. Danzando davanti allo specchio, Dioniso formula il creato: dall’uno, il molteplice; dall’unico, il riflesso. “Nell’antichità lo specchio è stato tramandato come simbolo dell’adeguatezza della pienezza noetica del Tutto. Per questo dicono che Efesto fabbricò uno specchio per Dioniso e che il dio guardando dentro di esso e contemplando la propria immagine si slanciò alla fabbricazione di tutta la pluralità”, rivela Proclo. Per tornare al principio, occorre spezzare i corpi: riti di sangue per il dio ragazzo, con fauci sulle braccia. “I Misteri di Dioniso sono del tutto disumani”, scrive Clemente Alessandrino, dando al ‘classico’ valore sinistro, pagano, d’urlo muto, di mutila ombra. Dunque: la poesia – colpo di fionda che fende lo specchio, lo sbriciola – lo incendia.
La poesia fa tornare lo specchio ciò che era: acqua – matrice contraria al fuoco.
La poesia ritorna all’uno: al tuono che fu serpente.
Non hanno precedenti nell’italico ‘canone’ – forse, i versi d’artista, di rara innocenza, di Scipione, o le liriche-tuareg di Franco Ferrara, collezionista di vuoti –, le poesie di Busca, scritte per punteggiare la fuga. Sono, in effetti, le poesie di un fuggiasco, di un uomo sproporzionato alla propria era.
Il poeta, in effetti: eterno fuggiasco – scava i versi sul torso di un tronco, sul vello di un fiume.
C’è chi scrive sulla chiglia della scrivania – e chi scrive in fuga, per seminagione di identità.
Alessandro costruiva metropoli distillando morte, tra pietre che gli parevano leoni – Franco Busca ha interrato poesie. Si elevano come transitori falò: ripercorrerle – perché la poesia agisce in questo modo – significa scoscendere nel punto latteo dell’uomo – essere liberi, cioè, agli occhi degli altri, pavidi pavoni, dei pazzi.
La poesia dedicata a Sergej Esenin, il “maledetto” della letteratura russa, l’eterno ragazzo “con gli occhi azzurri e puro come Lohengrin” (così il fermoimmagine di Maksim Gor’kij), si apre con un verso bellissimo: “Chiusa la bettola nel cortile di betulla”. A Est si volge la poesia di Brusa, disamorato della meccanica occidentale dell’arte. In pittura, preferirà Piero, quel tratto ‘bizantino’, ieratico, che conferisce sacralità alle minime mimose cose: l’aura dell’eterno nell’orda del transitorio.
Gli sarebbe piaciuta, restando tra i russi, la poesia di Boris Pasternak, il poeta che auscultava le nevi e a cui conveniva il cosmo interno, a fior di dita (poeta: biada del creato):
“In ogni cosa ho voglia di arrivare
sino alla sostanza…
Sino all’essenza dei giorni passati,
sino alla loro ragione,
sino ai motivi, sino alle radici,
sino al midollo…
Introdurrei nei versi la fragranza
delle rose, un alito di menta,
ed il fieno tagliato, i prati, i biodi,
gli schianti della tempesta”
Poeta per indole, senza darsi all’industria poetica, Busca scuote il verbo come una kamlanie, una “seduta sciamanica” pur priva di spettatori. Alcuni versi introducono al deliquio: “chi aprirà lo scrigno d’oro/ e scenderà il sentiero accecante”; “una copia di giorni/ giunge con gli uccelli”; “inventerò l’azzurro per avvolgere i fianchi/ del sole adolescente”; “la notte è sulla porta/ come un sacerdote con mani stellate”; “annegano sventolando/ divinità millenarie”. La poesia leva il morso al cielo: nell’astro vede un grande erbivoro, nella sedia l’acquattata lince, nella finestra il gheppio in apertura alare.
“La seduta sciamanica può essere vista come la trasformazione dello sciamano in uno o più animali simultaneamente o successivamente”.
Ugo Marazzi
Di volta in volta, Franco Busca il lupo, il cane Caronte, la libellula e l’airone: importante è divorare le stelle, il pane di Dio.
Uno scrittore d’alterna sorte, ancorato alla solitudine come Busca – lui, però, Francesco Biamonti, sulle scoscese rupi della Liguria di ponente, al confine con tutto, dove l’azzurro giunge a rapina, tra rari uomini microliti – ha insegnato che “il deserto è inarrestabile”, che abitare il deserto “a parte qualche ora di esaltazione” è impossibile “senza una fede”. “Guardare qualcuno o qualcosa nel deserto è già vederli morire”, scrive Biamonti, nel suo libro più dolente, Le parole la notte.
La poesia crea la vita per chi la legge, un bestiario d’ombre – fa il deserto in chi l’ha scritta: apre un luogo in cui sparire. Non è poco. Il poeta, semmai, lo vediamo cavalcare uno sciacallo, felice: ha tumulato la sera e una cresta di denti gli cresce sul cranio.
Il poeta non ha posti a cui tornare: questo è il suo unico ritorno. (d.b.)
**
Per Sergèj Esenin
Chiusa la bettola nel cortile di betulla
una scatola di vento è sotto la pioggia
scandalo crocefisso in cinghie di cuoio
ora attraversi la campagna con mani contadine
le stesse che diedero forme notturne alle tue strade di carta
le stesse che giunsero al soffitto
a sbucciare l’arancio di una lampadina
*
Chi custodisce il segreto dello specchio senza tempo
e viaggia dimensioni di memoria
chi aprirà lo scrigno d’oro
e scenderà il sentiero accecante
stringendo nelle mani
l’occhio millenario in attesa paziente
*
Finestre congelate divorano
cieli di montagna e ricordi di vento
lingue sconosciute saltano su quattro sedie da cucina dipinta d’ospedale
ho chiuso nello specchio tutta la sete rimasta del sole
e l’oceano di cristallo trovato in giardino
la notte è sulla porta
come un sacerdote con mani stellate
*
Ho visto masticare spugne di cervello
come sacchetti di memoria
e il pasto crocefisso della vena
nel corridoio gelato
ho visto la sua bocca chiedere gli occhi
e la vertigine che rotea nelle stanze
non più tue
*
L’ultima farfalla rosicchia il vetro nudo
il tuono marrone dell’armadio
che m’interroga, la visione di me
nel sacco ferito della casa
turbina il tempo rottame d’infinito
Franco Busca
*Le poesie di Franco Busca e il testo introduttivo qui presentati in anteprima saranno editi da MmeWebb in Domodossola