Secondo il racconto biblico, l’uomo è creato nel greto del verbo divino – “Dio disse…” –, con la materia più scabra, la “polvere del suolo”. La parola ebraica che indica questa polvere, aphar, definisce un tipo di terra cruda, secca, infeconda; a volte aphar si usa per dire i detriti di una città in disastro, rasa al suolo. Nulla può nascere su quella terra, rovinata e rovinosa: eppure, resa al fiato divino, vi germoglia l’uomo. In alcune circostanze, aphar significa cenere. Robert Walser, il grande scrittore svizzero che finì in un ricovero psichiatrico, amava la cenere. “La cenere”, scrive Walser, “rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere?”. Abramo, per definire il suo ruolo nel mondo, al cospetto di Dio, si dice “polvere e cenere” (Gen 18, 27).
La Bibbia insiste spesso sugli aspetti microscopici, apparentemente insignificanti del creato. I Vangeli, in particolare, esaltano il carisma delle briciole, i fedeli come “cagnolini sotto la tavola” (Mc 7, 28) che si nutrono degli scarti caduti dal desco divino. Ecco: l’ultimo libro di Francesca Serragnoli, Non è mai notte non è mai giorno (Interno Poesia, 2023), che avrebbe potuto titolarsi – lo avrei preferito – “gli intubati di Dio”, verso perfetto della sezione più bella del libro, “Ospedale dei guardati”, insegna a fissare le cose minime e brutali del mondo. Il poeta è così: raccoglie le briciole, spartisce la cenere, lamina alfabeti nella polvere. Ribadisce l’evangelica verità violenta: tutto è sacro. Se tutto è sacro – se tutto è davvero salvo – il poeta deve farsi mendicante, imparare a non togliere neppure una foglia dal tesoro terrestre, porre un velo sulle cose perché la forma sia giusta, nuziale.
Il primo libro, Il fianco dove poggiare un figlio, Francesca Serragnoli lo ha pubblicato vent’anni fa: la sua bibliografia, scarna, con il saio – Il rubino del martedì, Aprile di là, La quasi notte – fa di lei, da anni, uno dei poeti più potenti del nostro tempo. Ma le classifiche e le classiche note a margine, polemiche o estetiche, non hanno senso, ora: la poesia, ora, è giunta alla spoliazione estrema, mostra la carne viva, cavia del miracolo s’impasta dei più umili elementi. Un repertorio di versi dà ragione dell’immaginario immemore e immediato della Serragnoli, come di chi, saltando sui sassi del fiume, incurante della corrente, vada a caccia di libellule, procacci, per i suoi, selciati di luce: “crepuscolo selvatico d’alga/ dove l’abisso e la notte stendono le calze”; “mi aggrappo al segreto frantumare/ delle tue dita/ frolle di enjambement/ in una bara di zucchero”; “l’acqua, clochard dei suoi ponti/ corre sotto i tuoi occhi”; “Il pianto cucito, amico del sangue, avrà un merletto, un alfabeto cuneiforme”. In un testo si racconta della preghiera, “grande come un’unghia” della “rana del Borneo”; in una sezione, bellissima, si prova la poesia allo sgomento dei malati, “che accendono una candela/ sfregandosi i capelli”.
In una nota poi scartata dal volume, Francesca Serragnoli, che ha un pudore virile, ragiona sulla morte della lingua italiana, di una lingua, cioè, che certifica l’andare delle morenti cose:
“Faccio parte di quelli che si tengono strette le parole a cui frulla ancora qualcosa. Non ho medicamenti se non il pronunciarle o chiamarle per nome… Qualcuna mi muore fra le mani mentre scrivo, s’accascia dopo l’ultimo giro di una farfalla che rotola attorno a un filo d’aria”.
Questo libro nasce sotto l’astro di Cristina Campo – a cui è dedicata la prima poesia della raccolta – ma si muove altrove, tra i silenzi di Antonia Pozzi, le analfabete agnizioni di Umiltà da Faenza e di Angela da Foligno. È difficile, d’altronde, dargli un posto nella poesia italiana recente: questo libro si desidera povero, con le mani aperte, ha perso i paramenti lirici, le fibbie e l’ostensorio; si ostina al vagabondaggio. È un libro ospite: entra nella casa, che è sempre sacra, dopo essersi levato le scarpe.
**
La rana del Borneo canta tutta la notte in cerca di qualche altra rana, grande come un’unghia entra nei tronchi cavi per gridare il canto e il grido trascina il corpo
non come un carro funebre o un lombrico
come un laccio splendido o un campanaccio
fa della parola una panchina, un negozietto un souvenir.
Dura come un’unghia, la sua preghiera.
*
Vorrei ricevere la pioggia immobile come l’airone nel campo
lasciare l’acqua scendere l’acqua di essere qui una cosa nuda fra terra e cielo
non essere nulla che il volo che la preghiera
della preghiera essere l’ombra ricongiungersi, riposare lì sentirsi cadere rinascere volar via
*
Si sono accorti della mia disperazione loro lo sguardo cioè niente
lo sguardo di ognuno che non sa chi è l’altro
quella bifora gelata
quel portone fermato dal legnetto delle tue mani
l’arcata viva della tua schiena i fiori di plastica davanti a Sant’Antonio
loro che non sanno chi è l’altro che accendono una candela sfregandosi i capelli
loro l’ospedale dei guardati gli intubati di Dio
in quel viso sgangherato legato a una cordicella come l’orto di un morto
qualcuno getta un pugno di semi e li richiama a casa con un fischio.