Di Paul Durcan preferisco le altitudini elegiache ai toni del polemista. La poesia in cui racconta del viaggio, a cinque anni, con il padre, da Dublino verso la natia contea di Mayo (Going Home to Mayo, Winter, 1949), le passeggiate lungo il fiume, i muggiti, le lampade ad olio e il cimitero che incombe sullo sfondo. La poesia, bellissima, ironica e struggente, in cui racconta la morte della madre, d’oro vestita, in fuga dalla casa di cura per malati di Alzheimer (Golden Mothers Driving West).
Paul Durcan ha compiuto ottant’anni il mese scorso, dicono sia One of modern Ireland’s most distinctive poets (così Eve Patten), la madre, Sheila MacBride, era la nipote di Maud Gonne, l’amazzone musa di Yeats, moglie del maggiore John MacBride, tra i protagonisti delle guerre per l’indipendenza irlandese dalla perfida Albione. Nonostante il lignaggio, non fu semplice per Durcan fare il poeta. Da ragazzo, disprezzava il padre, giudice in una corte distrettuale; negli anni Sessanta, mentre frequentava l’università, a Dublino, i suoi lo obbligarono a violenti trattamenti psichiatrici. Durcan se ne andò a Londra, già discepolo di Patrick Kavanagh. Andava tutti i giorni a fissare i quadri di Francis Bacon alla Tate – schifava la vita nella City. Lì pubblica la prima plaquette, Endsville, nel 1967, ma è quasi dieci anni dopo, nel 1975, che esce il suo primo, autentico libro, O Westport in the Light of Asia Minor. Nel frattempo, il poeta ha fatto ritorno in Irlanda – preferì studiare archeologia e storia medioevale a Cork – con moglie appresso, Nessa, da cui avrà due figli. Il matrimonio crolla dopo quasi vent’anni: alla ex moglie Durcan dedicherà una delle sue poesie più solide, intrise di ironia, di lignea sagacia, quelle che lo hanno reso una sorta di Orazio contemporaneo, o meglio – se si tratta di temi politici o morali, soprattutto in polemica con la Chiesa cattolica irlandese e l’Ira – di Giovenale.
Ma io preferisco l’altro lato di Paul Durcan, quello che fonde la cruda quota quotidiana all’improvviso epico, il gergo all’epopea, il blues a Cú Chulainn. Poesia narrativa, la sua, come quella dei grandi compatrioti, di brutali malinconie: “Per quanto la voce di Durcan possa inclinarsi alla nostalgia, mostra sempre le spiccate caratteristiche di prestanza ironica, furia iconoclasta e lirismo che giustificano la sua continua popolarità in Irlanda e altrove”, ha scritto ancora Eve Patten. In questo altrove non è contemplata l’Italia, dove Durcan è, di fatto, uno sconosciuto – da noi la poesia irlandese è monopolio del colossale Seamus Heaney, dimenticando una genia di geni tra cui vanno ricordati, per dire, John F. Deane e Derek Mahon –, fatta salva la placca Policarpo ed altre poesie (El bagatt, 1986).
In Irlanda, la straordinaria fama di Paul Durcan comincia con la pubblicazione, nel 1982, di un volume di Selected poems; seguono libri spesso gratificati da un largo successo editoriale come Going Home to Russia (1987), Daddy, Daddy (1990), Greetings to Our Friends in Brazil (1999), The Day of Surprise (2015; dove, tra altre stravaganze, appare un Seamus Heaney che cala dal camino come Babbo Natale per domandare al poeta, “Stai bene laggiù, Durcan?”). Nel 2004, Durcan è stato eletto “Irland Professor of Poetry”, carica attualmente ricoperta da Paul Muldoon. Nel 1990 – per dire della sua popolarità – Paul Durcan scrive per Van Morrison In the Days Before Rock ’N’ Roll, che esce nell’album Enlightenment.
Alcune sue poesie hanno titoli esilaranti: Diarrhoea Attack at Party Headquarters in Leningrad, Margaret Thatcher Joins the IRA, Reading Primo Levi by the Family Fireside at Evening, ad esempio. Diversamente da altri poeti irlandesi, Durcan è meno sfumato, diciamo così, rispetto alla situazione del suo paese. “Negli anni Sessanta, l’Irlanda era come un paese comunista dell’Europa dell’Est. Soltanto, dovevi sostituire i vescovi ai kapò comunisti. Era una mera questione di conformismi”. E poi: “Io vengo da una famiglia nazionalista e repubblicana, ma sono soprattutto un essere umano, detesto omicidi e massacri, in particolarità le atrocità commesse dall’Ira, perché sostiene di rappresentare la mia nazione e la mia gente”. In una poesia che s’intitola The Dublin Belfast Railway Line, Durcan è ancora più diretto riferendosi alle milizie dell’Ira con questi toni: “Voglio udire ciascuno di loro/ fare giuramento su una copia del Mein Kampf/ quando l’Irlanda sarà unita”. Una muscolare presa d’atto del genere è impensata sui nostri lidi, dove di norma la poesia è decorativa, ghirlanda al proprio ombelico, un tutù.
Conobbe David Gascoyne, pioniere del surrealismo inglese, prima che crollasse nell’insania di mente – e poi risorgerne. Attraverso Gascoyne, ha studiato i libri di Bejamin Fondane, il pensatore amato da Cioran, facendone uno dei suoi rari lari. “Intratteneva i compagni di prigionia con storie allegre: avere il coraggio di sorridere ad Auschwitz-Birkenau, l’incarnazione della profondità e della depravazione del male, dove Fondane muore, nel 1944, beh, è davvero qualcosa di grande”, ha detto, in un’intervista rilasciata allo “Spectator” nel 2012. E poi: “Ecco cosa fa la poesia: ti fa uscire dal tuo miserabile io, ti apre gli occhi”.
Ti apre gli occhi, la poesia di Durcan. A volte, il verbo tramuta gli occhi in qualcosa di leggiadro, una libellula, un fringuello – altre volte fa iene degli occhi, ne fa avvoltoi. A volte, occorre rimestare nei cadaveri.
**
Ritorno a Mayo, Inverno, 1949
Ci lasciammo alle spalle l’aliena, allucinata città di Dublino:
mio padre guidò tutta la notte la vecchia Ford Anglia,
mentre il figlio di cinque anni era assiso al suo fianco,
sul sedile in similpelle rossa, quando
una luna gialla abbaiò dal parabrezza.
“Papà, papà”, gridai, “Fai sparire la luna”, ma la luna
non svanì nonostante la guida, selvaggia.
Ogni città che valicammo fu una pietra miliare
i loro nomi, parole magiche per varcare l’eterno:
Kilcock, Kinnegad, Strokestown, Elphin,
Tarmonbarry, Tulsk, Ballaghaderreen, Ballavarry;
entrammo a Mayo, poi giungemmo a Turlough,
il villaggio di Turlough è nel cuore villoso di Mayo,
con la casa di mio padre e di mia madre, le lampade ad olio
e le donne, la camera da letto sopra il pubblico esercizio
e le urla delle bestie, al mattino, e il canto del gallo:
la vita sembrava una vesta sgargiante, splendidamente squarciata
da quelle urla, da quei murati muggiti. E la sera
camminai con mio padre nell’alta erba, presso il fiume,
e parlammo – cosa inaudita in città.
Ma casa non era più casa e la luna non era più
fiancheggiata dalle iene diurne di Dublino.
Seguendo il canale, arrancavamo verso la città, allora,
dove ogni chiusa rintocca il nostro comune destino;
e ringhiere e palizzate e asfalto e semafori,
e quartieri e quartieri delle cosiddette ‘nuove’ palazzine –
migliaia di croci che piantumano solitudine
nel misero cimitero della vita di un padre
nell’immenso, immenso cimitero dell’infanzia di un ragazzo.
*
Perché votarsi a uno stupido matrimonio
Cara Nessa – ora che il nostro matrimonio è finito
vorrei che tu sapessi che, se potessi tornare indietro nel tempo
di quindici anni, a quel freddo giorno di marzo del nostro matrimonio,
ti sposerei ancora, e se quel matrimonio rovinasse
ti sposerei di nuovo, e se si rompesse per la terza volta
ancora una volta ti sposerei, e ancora, e ancora, e ancora:
se tu mi volessi ancora, ovvio, ma questo, è ovvio, è da escludere.
Perché pure tu – in onore alla tua pazienza e alla tua innocenza
(strane attitudini in un’epoca come la nostra) – perfino tu
dovresti scrollarti dal petto il delirio dell’amore romantico
e cercare, piuttosto, il rimedio erboristico di una sana relazione
in cui sono mischiati in profusa ed esatta proporzione
amorevolezza, fratellanza, paternità:
un uomo sano di mente non potrebbe sposare
un amico più fedele di te.
*
Vita tra i suburbi dei primati superiori
Dopo aver sopportato quel chiasso per dieci minuti buoni
(All’inizio pensai a un assassinio, a uno che veniva menato)
Decisi di lasciare il letto e di sporgermi dalla finestra:
il pieno giorno vidi che
il mio vicino di casa, il professore di Archeologia,
urlava dal suo giardino pezzato di asfalto al figlio
che penzolava dall’albero:
“Smettila – ti ripeto, smettila – scendi da quell’albero
e non fare mai più la scimmia”, gridò il professore.
Il ragazzo accondiscese, dondolando da un ramo
il padre fece finta di dargli un calcio
e il ragazzo scappò in casa frignando “Mamma, mamma”.
Quella notte, caracollando verso il cancello di casa,
di ritorno dal pub, vidi, oltre la siepe, a poca distanza da me,
il professore vestito come una scimmia e la moglie
impellicciata e con un abito da sera trasparente:
“Bon soir compagni primati”, ghignai loro:
ma non mi salutarono, non lo fanno mai.
*
Le dorate madri guidano verso Ovest
L’inevitabile chiamata arrivò dalla casa di cura per l’Alzheimer.
Mamma era lì da due anni, seduta su quella poltrona
in una stanza all’ultimo piano con altre due anziane dame,
Deborah O’Donoghue e Maureen Timoney.
Tre oranghi d’Irlanda, silenti, estatici e statuari.
La chiamata diceva che tra le 3 e le 5 del mattino
le tre erano scomparse dalla loro stanza.
Dapprincipio, si pensò che fossero scivolate, tutte e tre,
fuori dalla finestra appena socchiusa, verso la notte umida, calda.
Ma, no, non c’erano bocconi di carne nell’aiuola.
Scoprirono che era scomparsa anche un’automobile.
Davvero avevano rubato un’auto?
Alle cinque del pomeriggio chiamò la polizia
per dirci che un giovane polacco aveva pulito
e lucidato un mezzo per tre signore, all’autolavaggio Kinnegad,
e che tutte e tre indossavano vestaglie dorate –
vestaglie dorate comuni, senza vezzi,
indossate dagli internati nella casa di cura per Alzheimer.
Si ricordava di loro perché era rimasto colpito dal fatto
che ridessero – tutte e tre le signore risero
per tutti i dieci minuti che gli ci vollero per pulire l’auto.
“Mi stupì”, dichiarò, “che ridessero”.
Alle nove di sera l’auto fu avvistata a Tarmonbarry
sulla riva sinistra del fiume Shannon,
parcheggiata presso il molo Emerald Star.
Alle nove e trenta una ragazza tedesca fu condotta
alla stazione di polizia di Longford dal patrigno.
L’undicenne aveva raccontato in precedenza al patrigno
di aver visto, dalla cabina dell’incrociatore di fiume a sei posti letto,
tre signore saltare dal ponte. Il patrigno
aveva pensato che la figlia se lo fosse inventato
visto che era, così disse, “una sognatrice nata”.
La ragazza ripeté la storia alla polizia:
le tre piccole, leggiadre, vecchie signore dai capelli bianchi
erano saltate insieme dal ponte,
con le vestaglie che fluttuavano al vento.
Di che colore erano le vestaglie?, le chiesero.
“Indossavano l’oro”, rispose.
Presso la diga a valle del fiume,
i subacquei della polizia raccattarono i tre corpi,
uno dei quali, ovviamente, era della mia emaciata madre:
le sue impronte digitali furono rintracciate, più tardi,
sul volante dell’auto. Stava guidando verso ovest, a ovest di Westport,
Westport, sulla costa occidentale d’Irlanda
nella contea di Mayo,
dove era cresciuta con la madre e le sorelle
durante la guerra d’indipendenza e la guerra civile,
guidava verso ovest, verso Streamstown, a tre miglia da Westport,
dove nei pomeriggi di settembre del 1920
ignorando posti di blocco e assassini,
erano soliti camminare lungo Sunnyside, in riva al mare,
a guardare i chiurli e le beccacce,
e i neri currach marcivano sulle pietre
e mangiavano sull’erba, sopra le alghe,
sotto i castagni che d’autunno diventano oro
e le fucsie sanguigne simili a truppe di ballerine in tutù cremisi
nelle oscure siepi. In piedi, presso la carcassa di mia madre
nella camera mortuaria: un cranio di pecora su una lastra,
una ragazza con un vestitino strappato dalla sabbia,
chiusi gli occhi:
grazie, mia dorata madre,
per avermi dato la vita
questa spirale di piogge.
Hai passato una lunga vita a cercare
il piccolo bimbo che vive in fondo alla strada:
non l’hai mai trovato, mai ti sei arresa;
nell’aldilà indossi la camicia da notte
danzi, piroetti, fedele a tutto questo, per l’ultima volta.
Paul Durcan
*In copertina: Paul Durcan in un ritratto fotografico di Patrick Bolger