Senza dubbio, gli incontri decisivi accadono sotto il sole nero della tragedia. Il legame – fantomatico, annodato in una ipnotica sudditanza – tra David Gascoyne e Benjamin Fondane ha per testimone, specie di invisibile confessore, Emil Cioran. “Il poeta inglese David Gascoyne (che avrebbe avuto anche lui, in altre circostanze, una sorte tragica) mi ha raccontato di essere stato perseguitato per mesi dall’immagine di Fondane…”, scrive Cioran in 6 rue Rollin, uno dei suoi Esercizi di ammirazione. Poco importa che Gascoyne abbia combattuto quella didascalia – il collasso mentale non è paragonabile alla camera a gas di Auschwitz-Birkenau – dacché “una sorte tragica” non rimanda a una qualche quantità, a una dizione storica, ma alla qualità dell’esistere, da allucinati alla vita. È il tragico, in effetti, a gemellare i due, una poetica del tragico: tra loro, Gascoyne era il più debole, il poeta dallo sguardo spettrale, spesso emaciato, con la carne cristallina dei mistici medioevali, dei visionari pezzenti, fatti a pezzi dalla piazza. Lo si vede anche nel ritratto che gli fa Patrick Swift: Gascoyne, banalmente elegante, come chi abbia appreso la verità dell’anonimato, ha gli occhi al di là, persi in un liquore profetico, e le labbra curve, di chi è ispirato per balbuzie.
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Gascoyne ha la precocità dei rapiti: pubblica il primo libro, Roman Balcony and Other Poems, a sedici anni, nel 1932; Gascoyne scalpita: s’iscrive al Communist Party, fa una gita in Spagna per accorgersi che ogni ideologia è fatua, l’acido spurio della Storia. L’accanimento con cui s’impania nel buio, nei lati anomali, urlati, della poesia: alieno ai poeti alla moda, alle effervescenze galanti di W.H. Auden, è seguace e amico di Dylan Thomas, tra tutti è sempre il più giovane e la giovinezza è il criterio che ne coglie l’opera, alta per candore e tremore prima che per esuberanza. Trovava accordo nel salto, nell’entusiasmo disordinato dei folli: il suo è un cursus honorum verso il delirio. Scrisse un libro su Hölderlin’s Madness (1938); s’installo a Parigi certo di trovare casa tra i surrealisti: l’amicizia con André Breton, Benjamin Peret, Salvador Dalí, Paul Eluard gli permise, diciannovenne, di pubblicare A Short Survey of Surrealism, “un libro miracoloso che per la prima volta nel mondo inglese trasmette il fascino di quella avanguardia” (Stephen Spender). La precocità prelude quasi sempre al crollo, comunque alla foia. Gascoyne studia per esaurire, scrive per divorarsi: nel 1937 invia la prima lettera a Benjamin Fondane. Lo ha scoperto leggendo Rimbaud le Voyou – se Cioran è il testimone di questa amicizia, come in una stanza di vetro, Rimbaud è il tramite selvaggio, la miccia – e scrive tremando, tremendo, ha 21 anni. Fondane sigilla la ricerca e la gioventù di Gascoyne, lo afferma con il tratto distintivo dell’anomalia, dell’audacia. Gascoyne sbraccia, con l’ansia di chi cerca un padre, una parte, un partito – si rivela solo, e Fondane è il fondamento di quella solitudine. In qualche modo, Gascoyne realizza l’esistenza di quell’uomo inaudito.
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A Parigi, nel 1937, l’incontro tra Fondane e Gascoyne non è tra intellettuali, ma tra esuli. Lì, in una lingua decentrata, non propria, inappropriata, forse, si salda un dialogo illusorio tra espulsi dalla Storia, tra marginali, tra esclusi e illeciti. In quell’incunabolo notturno, nel covo di conversazioni spiritate, alieni all’incubo dei giorni, due poeti impongono la propria marcia al tempo, senza nulla chiedere, fronteggiando l’era dell’impegno e il regno della ragione, come un affronto. Ci si poteva ancora incontrare tra ignoti, prestando fede all’insegnamento del pudore, aspro.
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Fondane ha appena pubblicato La Conscience malheureuse, sta lavorando al Faux Traité d’esthétique. Incontra spesso Lev Šestov, che il 16 novembre del 1937 gli dice: “Sono perfettamente cosciente che attualmente sia la necessità a regnare sovrana e che essa esiste da mille, duemila anni. Ma chi può dimostrare che sia sempre esistita? Che prima di lei non esistesse qualcos’altro? E che dopo di lei non vi sarà nient’altro? Forse è compito degli uomini attenersi alla Necessità… Ma il filosofo deve cercare le Origini, al di là della Necessità, al di là del Bene e del Male…”. Negli stessi anni Gascoyne comincia a raccogliere testi che confluiranno in Poems (1943), uno dei suoi libri più importanti. Quell’incontro, istantaneo – i maestri non si frequentano, si riconoscono, e l’amicizia ha la tensione di un morso più che la costanza di un pasto –, che fagocita ombre, ha i caratteri della svolta.
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Il fatto che Gascoyne assembli i Rencontres avec Benjamin Fondane nel 1984, quarant’anni dopo la morte del maestro imprevisto, non fa che sobillare il fascino. Quello, per così dire, è il libro della guarigione e della luce, che sancisce l’eterna giovinezza di Gascoyne, poeta che ha attraversato il secolo da imbambolato, fuori tempo, come un profeta che passeggi sulle mura della città assediata dimentico della propria profezia. Dagli anni Sessanta, Gascoyne vive sull’Isola di Wight, presso il Whitecroft Hospital: soffre di depressione, di instabilità mentale. Il genio della giovinezza lo ha svuotato; scrive pochissimo, deambulare tra i verbi lo sfianca. Durante una seduta con i pazienti, una donna legge una poesia. S’intitola September Sun.
Concedici di consumare nel fuoco, digiuni,
e possa l’oro vivere in me e coniare
la mia vita, trasmutando in un fine migliore
questa usura ottusa e autarchica…
Con un sole rabbioso possa Egli che per primo
ha piantato un seme d’oro nel campo cieco
del Caos, ridurre in cenere il nostro orrore.
La poesia l’ha scritta David Gascoyne, nel 1947. La donna si chiama Judy Lewis. Lui, il poeta nella casa dei matti, si avvicina, sussurra “l’ho scritta io”. Siamo nel 1973. Quando lei capisce che il matto dice il vero, si sposano, due anni dopo.
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Gascoyne morì nel 2001, pressoché isolato, evoluto nell’assenza. I giornali, all’epoca, ricamarono sulla doppia vita di Gascoyne: “a sedici anni fu comparato a Rimbaud, e di Rimbaud rappresentò la promessa, la precocità… dagli anni Sessanta passò per diversi istituti psichiatrici” (Daily Telegraph). Le Monde si fece sedurre dal poeta inglese che “all’improvviso, svanì dal mondo”, dal cliché del poeta folle, ricordando “l’amicizia con Benjamin Fondane”. C’è chi trova Aden nel precipizio mentale, chi scova la propria Samoa, Atlantide e Shangri-la là dove scoscende la ragione, nella pazzia. Il poeta non è appropriato a niente, evoca dèi con la cataratta, riti sanciti nel legno, un abside nel fegato, l’ostia ostile. D’altronde, è Gascoyne ad aver dettato la propria vita nella dottrina di un aforisma: “un poeta che ha scritto tanto da giovane, ed è diventato matto”.
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Nella biografia dedicata a “The Surreal Life of the Poet David Gascoyne”, Night Thoughts (2012), Robert Fraser assegna un ruolo centrale a Fondane. L’affinità tra i due fu fiera, felina: “L’iconoclastica spavalderia dell’approccio: ecco ciò che affascinava in Fondane, e che attraeva il giovane discepolo britannico”. In una Note on Benjamin Fondane, Gascoyne ricorda di aver fatto leggere il “Rimbaud” a Henry Miller, e rimarca, come sempre, il suo debito verso il pensatore rumeno: “Sono orgoglioso di aver conosciuto Fondane… nel momento cruciale della mia giovinezza mi ha influenzato enormemente”. Pare un racconto di Joseph Conrad, un patto stretto tra le tenebre, mentre la luce, un verminaio, stritola.
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Esiste una elegia della dimenticanza, una memoria irta di rasoi. D’altronde, si ama al punto da annientare tutto. Quando Gascoyne pubblica Rencontres avec Benjamin Fondane, omette le lettere di Fondane, e non ne registra i dialoghi. Come se Fondane fosse rinchiuso in una stanza di vetro bianco, a cui abbia accesso soltanto Gascoyne. Eppure, il poeta ci offre un indizio: “conservai per anni nella mia tasca… la sua lettera”. Quella lettera, evidentemente, è tanto importante che il poeta ricorda di averne “annotato qualche frase in un vecchio quaderno”. E la conserva, per anni, in tasca. Fino a smarrirla: “non saprei esprimere quanto mi rimprovero di non aver saputo custodire la sua lettera”. Gascoyne porta la colpa di chi crede di non aver adempiuto un compito: ha decorato intenti nel vuoto. L’amicizia diventa scisma se disperdi le lettere che l’hanno creata, calligrafica sutura che rende l’abbraccio un geroglifico e relega il drago della Storia a grottesco pupazzo di vetro. Lunga è la storia di legami costruiti intorno a lettere perdute e custodite, come anelli nuziali, con sé, addosso, fino a dimenticarsene. Nelle tasche di Boris Pasternak, ormai cadavere, è spuntata una lettera di Rainer Maria Rilke di parecchi decenni prima: era il suo più caro monile. D’altronde, il carteggio tra Pasternak e Marina Cvetaeva è andato quasi del tutto perso, nella foga della Seconda guerra. Intorno alle lettere di Franz Kafka sono nati fraintesi ed eredità oblique: le lettere, in effetti, vanno nascoste sotto il cuscino o bruciate. C’è chi ha atteso lettere e ci sono lettere che hanno disatteso promesse. Questa, forse, è la storia della letteratura; il resto, è cronaca per i critici.
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La fatidica lettera di Fondane a Gascoyne è stata ritrovata da Roger Scott nei primi anni Novanta, nel fondo che, presso le British Library Manuscript Collections, custodisce i “David Gascoyne papers”. Stava, raggomitolata, in uno dei quaderni di Gascoyne; è stata pubblicata sul “Bulletin de la Société d’Etudes Benjamin Fondane”, no. 3 (Printemps 1995). “Ne ho fatto una copia e gliel’ho spedita”, racconta Scott, che per “Temporel. Reveu littéraire & artistique” (n.9, 26 aprile 2010), ha curato un vasto dossier su David Gascoyne e Benjamin Fondane. Gascoyne, il poeta che si riconosce sempre quando è cadavere: chissà cosa avrà provato rileggendo quella lettera, imparata a memoria, vecchia di oltre cinquant’anni… La scoperta è un lusso per gli storici della letteratura, per chi, col bisturi, disseziona le anime. Riguardo al legame tra Gascoyne e Fondane – raccontato da un poeta sopravvissuto al disastro e all’oblio – aggiunge poco. È l’assenza, la discordanza, il mostro appena sfiorato che ci suggestiona; il gesto di chi lascia una sedia, presso l’ingresso, per uno che arriverà tra qualche anno, dopo orde di acquazzoni, o nell’arco di certi decenni, o mai. Non basta una vita a censire un legame. Oggi siamo noi quelli seduti tra anime strane, senza mani; complici.