Siamo circonfusi dalla menzogna. Mentono i tg quando urlano, in occasione della scomparsa di Alda Merini fregnacce del tipo: «È morta la più grande poetessa italiana del Novecento»; mentono i critici letterari, che preferiscono elucubrare intorno ai versi-serpenti di Andrea Zanzotto e liquidare Alda, scomparsa domenica, come la pazza della porta accanto: nelle canoniche antologie di letteratura la Merini è trattata come un caso sociale e perciò umano, come una bestia da talk show, quando va bene, come nei Poeti italiani del secondo Novecento, editore Mondadori, firmato da Stefano Giovanardi e Maurizio Cucchi, dove se ne parla come di una «esperienza fra le più appartate del secondo Novecento, a suo modo erede di una linea antimoderna scarsamente attestata in Italia».
In questo circo di avvoltoi, non si salvano neppure loro, i poeti, che adottano la buffa, simpatica, innocua Merini perché ricorda loro chi dovrebbero essere, cos’è la nuda, verace polpa della poesia. Ha scritto troppo, ha scritto male, dettava le sue poesie al telefono (è la cruda verità!), sussurrano tra loro i poeti laureati con lingua serpentina; ah, che razza di sensibilità, dice il lettore comune che non fa distinzioni tra la Divina Commedia e i Baci Perugina (ma perfino io, un Natale di qualche lustro fa, ho donato a mia madre un libro di Alda).
E noi, da che lato della via ci mettiamo? La virtù sta nel mezzo, diceva Orazio e io mi piazzo a metà strada attendendo il camion dei critici pomposi che mi sfracelli per sempre. Dico questo: Alda Merini ci ha donato una lancinante autenticità. Ha estratto il suo cuore purissimo, commovente, e ce lo ha offerto. Questo è tutto, e questo è stato concesso solo a lei, tutti gli altri sono sonori poeti della domenica, oppure scurrili, sentenziosi accademici (che scoperta, è ovvio che Mario Luzi, Amelia Rosselli e Giorgio Caproni hanno un’altra marcia, e lo sapeva anche Alda).
*
I poeti che contano sono troppo occupati per accorgersi di lei, gli editori si lustrano le mani perché ogni libro di Alda vende parecchio, e adesso vedrete, la sfrutteranno fino all’osso, fino all’ultimo verso, come il Michael Jackson della poesia. Così, meglio lasciar perdere con gli editori, pronti ad annaffiare d’incenso e d’oro il corpo della salma, ma ascoltare le parole di una amica, di una consorella di Alda, Marina Bignotti, già capo ufficio stampa delle Edizioni Excelsior 1881, per più di vent’anni il braccio destro di Vanni Scheiwiller («Ho lavorato alla Libri Scheiwiller dal 1981 fino al 13 ottobre del 2006: la data mi è limpida in mente, è il giorno in cui il “Poema della croce” di Alda veniva rappresentato nel Duomo di Milano»).
«Marina è stata la terra del mio canto», scriveva Alda Merini a mo’ di dedica, come verso culminante della raccolta poetica Le briglie d’oro (Libri Scheiwiller, 2005), partorito insieme alla Bignotti (e a lei espressamente donato: «Mi telefonava alle ore più impensate, dettandomi i versi, rileggendoli; e perfino il suo buongiorno era poetico»), uno dei suoi libri più alti, concepito nell’arco di un ventennio. Vuoto d’amore (Einaudi, 1991) raccoglie una silloge, Poesie per Marina, dedicata proprio a lei, la confidente, la professionista e l’amata, la «mia rondine felice», la «mia adorata figliola/ piena di mille grazie».
Già, ma quando è scattato l’incontro, l’affetto? «Accadde come con gli amori a prima vista», mi racconta Marina. «Era il 1983, Alda aveva un appuntamento con Scheiwiller, per pubblicare La Terra Santa, che è sicuramente il suo capolavoro. Ero giovane e molto agitata, Vanni mi aveva parlato a lungo della “poetessa del manicomio”, poi la vidi, e lei era più agitata di me, tremava, mi sembrava così fragile, stringeva un sacchetto colmo di brioches, pensai che fossero per i suoi figli, per quei bambini in attesa della mamma: non sapevo ancora che le figlie di Alda erano più grandi di me…».
*
Il rapporto di lavoro s’intreccia subito con quello affettivo: «Alda si era trasferita a Taranto, perdutamente innamorata di Michele Pierri. Nel 1984 esplode la pazzia, la fanno rinchiudere in un ospedale psichiatrico, da dove Alda mi telefona: “Marina, aiutami”. Grazie a un forsennato giro di telefonate, anche a chi l’ha avuta in cura a Milano, riesco a tirarla fuori: da allora il nostro legame si consolida».
Marina, l’amica, la figlia, la salvatrice. «Gli anni tra il 1985 e il 1990 sono i più duri, Alda vive in una povertà estrema: Vanni Scheiwiller le paga l’affitto della casa; incapace di curare le proprie finanze mi affida la gestione della reversibilità del marito». La Merini è unica, nella buona e nella cattiva sorte («Era passionale, e anche dispettosa: durante un agosto, mentre ero in vacanza, mi telefona una società dicendomi che la signora Merini aveva ordinato una vasca idromassaggio di gran lusso. Immaginati che il suo bagno era minuscolo e addirittura fatiscente…»). «È stata l’incontro della mia vita, come quello con Vanni, ora non ho più nulla. Ha rappresentato la poesia, era un ossimoro vivente: forte e fragile, dolce e nello stesso tempo amara».
*
L’ultimo incontro tra Marina e Alda proprio la settimana scorsa: «Sono andata a trovarla a casa sua: era intontita dai farmaci, stava molto male. La stanza era piena di gente, lei mi fa un gesto, avvicinati, mi dice. “Mi toccano tutti, mi toccano le braccia, i capelli”, mi sussurrava, e non poteva sopportarlo perché quel toccarla, quel tastarla le ricordava gli anni del manicomio. “Va a finire che mi portano via il carisma”, mi ha detto. Ecco, sai, la cosa che più mi manca di Alda è proprio la sua voce».
Addio Alda, cerca di capirli i fragranti letterati che ti hanno ignorata, vilipesa, osteggiata (io, universitario atletico e spocchioso, sarò stato tra quelli), tu che sei una poetessa vera, l’ultimo poeta assoluto, sai bene che la poesia dura e cruda terrorizza, spaventa, disfa.
Davide Brullo
*Si pubblica questo articolo, in memoria di Alda Merini, pubblicato in origine il 3 novembre 2009, su “Libero”, con il titolo “Gli ultimi giorni di Alda Merini: ‘Mi sento ancora in manicomio’”.