Bisogna osare azioni controcorrente, contro l’ordine imperante. Una delle regole della comunicazione è che intervistato un tizio si passa al prossimo, senza soluzione di affetto né di coinvolgimento. D’altronde, dopo che uno ha detto quello che ha da dire, basta. Non funziona così in letteratura, perché lo scrittore, quando è grande, è un mondo e le interviste, di solito, non sono ‘promozionali’ né ‘elettorali’, ma sostanziali. Da tempo dialogo con Sylvia Iparraguirre (qui e qui), che è tra i grandi scrittori latinoamericani di oggi, per fortuna tradotta in Italia (in catalogo Einaudi il suo capolavoro, La terra del fuoco): un dialogo ‘infinito’. Sylvia non è soltanto una grande scrittrice, è una donna che ha attraversato il periodo più luminoso e più buio della storia argentina. Ha visto la dittatura militare ed è stata allieva di Jorge Luis Borges, ha scritto quando scrivere, negli anni Settanta, era di per sé un gesto ribelle e ha conosciuto Cortázar (“gli ho voluto bene immediatamente”), ha sguardi grevi di anni, colmi di futuro. La sua generosità, tanto limpida e disarmata, non smette di sorprendermi in questo tempo in cui anche gli insulsi si credono divi.
Qual è stato il suo rapporto con gli scrittori argentini, ad esempio con Borges e Cortázar?
Il mio debito con la tradizione letteraria argentina riempirebbe una biblioteca. C’è una linea che inizia nel XIX secolo – il passato di tutti noi –, che costituisce il DNA di tutti gli scrittori argentini. Nell’epoca contemporanea: l’avanguardia degli anni Venti, quando cominciano a scrivere i grandi maestri come Borges, Roberto Arlt e Leopoldo Marechal. Poi, negli anni Quaranta, quando pubblicano Ernesto Sábato, Adolfo Bioy Casares, Silvina Ocampo e Cortázar. Quella è la costellazione più luminosa di grandi scrittori argentini. La loro eredità viene ripresa dalla generazione degli anni Sessanta, che la trasforma e la rinnova (Tizón, Castillo, Piglia, Fogwill, Heker, Di Benedetto, Briante). Di quella tradizione, Arlt e Borges sono stati, per motivi diversi, i miei maestri. E Cortázar, con i suoi racconti. Ciò che mi colpì veramente, da adolescente, delle opere di Borges e Cortázar, come anche di Sábato, fu l’avere portato alla ribalta un linguaggio: la lingua letteraria degli argentini. Fu una scoperta cruciale. Un colloquialismo legato alla quotidianità che riusciva a trattare questioni che non avevano niente a che fare con il quotidiano. E un umorismo tipicamente argentino. è difficile da spiegare a un europeo. In Argentina abbiamo due canoni: lo spagnolo di Spagna e il nostro, il rioplatense. Le traduzioni che leggevamo da bambini o da adolescenti provenivano principalmente dalla Spagna: con tú e vosotros. Da qui la fascinazione nel leggere in tali autori la mia propria lingua, la “parlata” argentina. Successivamente, nel 1968, un autore come Manuel Puig fece di quei registri di linguaggio, di quegli stili colloquiali, materia dei suoi romanzi, veramente unici, come Il tradimento di Rita Hayworth (La traición de Rita Hayworth) e Una frase, un rigo appena (Boquitas pintadas). Molto interessante, nella storia della letteratura latinoamericana, il suo rapporto conflittuale con la Real Academia Española. è esilarante uno degli articoli che Borges dedica proprio al tema della lingua degli argentini: I timori del dottor Américo Castro (Las alarmas del doctor Américo Castro; in Italia è leggibile nel libro Altre inquisizioni, ndr). Ma qui ci sarebbe da scrivere un altro articolo.
A parte la letteratura argentina e tutti i suoi meandri, nella mia genealogia letteraria hanno svolto un ruolo significativo la letteratura nordamericana (Faulkner, Hemingway, Carson McCullers, Flannery O’Connor, Salinger, Capote, Thomas Wolfe) e quella inglese, per non dire irlandese: Woolf, Joyce, le sorelle Brontë, Katherine Mansfield, Dylan Thomas, William Trevor, per citarne alcuni. La letteratura giapponese è molto presente tra di noi e nelle mie letture, come Mishima, Kenzaburo Oé, Akutagawa. Di base, ho una venerazione anche per i russi, da Pushkin a Chejov. Veniamo ora all’altra parte della tua domanda.
Borges è stato il mio professore di letteratura inglese alla Universidad de Buenos Aires. Avevo letto Fervore di Buenos Aires (Fervor de Buenos Aires) a scuola; il tono delicato, intimo, colloquiale di tutti i versi di Borges fece sì che, a quindici anni, mi avvicinassi a lui e alla sua opera con assoluta naturalezza. Dopo l’università, incontrai molte volte Borges, in occasione di conferenze, incontri, nella sua casa di via Maipú. Nel 1983 condividemmo una notte indimenticabile io, Borges e Abelardo. Da scrittrice, l’esempio di Borges è stato fondamentale: la sua volontà stilistica era, come disse tante volte, muoversi verso la semplicità. Il suo vivere per la letteratura era un modus operandi; il suo dilettarsi nell’uso delle parole, nelle espressioni idiomatiche, nell’umorismo anacronistico di certe frasi, e la sua perspicacia semantica sono stati esempi di devozione per l’arte di scrivere; la constatazione che la letteratura era il suo tema imprescindibile – a tal punto che qualunque interlocutore, per assurda che fosse la domanda, si ritrovava immediatamente immerso nell’universo di Borges – e la sua reiterata affermazione di sentirsi, prima che scrittore, orgoglioso lettore hanno rafforzato incessantemente la mia ammirazione per la sua opera. Come lettore, Borges era un maestro, con la sua arbitrarietà genuina e dissacrante. Si aggiungano la sua modestia autentica, esemplare, che conosco per esperienza diretta, una umiltà quasi sconcertante e il suo essere di una onestà totale quando l’argomento era di tipo letterario. Possedeva una ironia e un sarcasmo letali. Penso che Borges, come Almotásim, irradiasse, se non santità, letteratura, e che noi scrittori argentini abbiamo desiderato tutti, in un modo o nell’altro, avvicinarci a quel magisterio, a quel fulgore.
Sempre in quegli anni, quando avevo tra quindici e sedici anni, lessi per la prima volta Cortázar, Il viaggio premio (Los premios). Successivamente lessi Il gioco del mondo (Rayuela), una rivoluzione per il lettore argentino, ma è stata la lettura di Il viaggio premio (Los premios) quella che mi ha segnato maggiormente. E i suoi racconti fantastici. Cortázar ha impostato il racconto fantastico (una tradizione argentina) in termini inediti: una crepa in pieno giorno. Ciò che è insolito, terrificante, in mezzo a quanto di più innocuo e quotidiano: il rovescio della tela. Cortázar era una persona incantevole, estremamente gentile, che parlava con voce sommessa, in una curiosa relazione inversa con la sua statura di quasi due metri. Era avvolto da una certa aura da indifeso, cosa che, al di là dell’ammirazione che lui suscitava, faceva sì che uno gli volesse bene immediatamente. Io gli ho voluto bene immediatamente. In seguito, nel periodo della dittatura, El Ornitorrinco alimentò una polemica con Cortázar riguardo all’esilio, ma questo non modificò né il nostro affetto né la nostra ammirazione per lui come scrittore.
A mia memoria, dagli anni Settanta in Argentina nessun altro scrittore è passato dalla gloria all’ingiuria più velocemente di Cortázar: da parte della destra, per il suo coinvolgimento etico ed emotivo con Cuba e Nicaragua; da parte della sinistra, per la sua lontananza dall’Argentina e la frivolezza di Libro de Manuel. Dovette anche barcamenarsi in un fraintendimento: quello di una certa avanguardia superficiale degli anni Sessanta che, sedotta dai suoi giochi di parole e sfrontatezze tipografiche, li ripeteva ad nauseam e che furono per lui una sorta di semente del diavolo. Comunque, se questo accadde fu perché l’opera di Cortázar, forse come quella di nessun altro scrittore argentino prima o dopo, generò un lettore che, a sua volta, generò un tavolo di discussione in cui si mescolarono politica e letteratura e in cui vennero giudicate a caldo le sue opere e il suo coinvolgimento politico. Placate quelle acque turbolente, che devo assolutamente menzionare quando lo ricordo, Cortázar continua a essere ciò che è, uno scrittore immenso, un maestro per gli scrittori e un trasformatore della loro eredità letteraria argentina, dai cui maestri si distinse.
La sua ricerca letteraria ha avuto luogo in solitudine?
Il lavoro dello scrittore è solitario per natura. Ho avuto la fortuna di condividere la vita con un altro scrittore, cosa che ha messo la letteratura al centro delle nostre conversazioni e discussioni di ogni sorta: su stili, preferenze, autori e opere. Leggevamo vicendevolmente i nostri testi, le bozze, come ho già detto, con amore ma senza indulgenza.
Che ruolo ha lo scrittore, oggi, nel contesto della società argentina? Viene trattato con indifferenza, con rispetto, ha un ruolo “pubblico”?
Nessun ruolo, o comunque un ruolo molto limitato, sempre più limitato. Il suo posto è stato preso dai personaggi televisivi, dalle modelle o dagli sportivi. Basta guardare alla velocità con cui si riproduce la realtà nei cosiddetti ‘media’ per capire che lo scrittore non solo non è una notizia, ma che non ha un posto in essa. Un buon libro, come un grande libro, sembrano cadere in questo contesto come una goccia nel deserto. Il posto dello scrittore oggi è quello che gli assegnano i supplementi letterari, le riviste e le tavole rotonde. Lo scrittore non ha un ruolo pubblico, come lo ha avuto, e di grande peso, nella generazione del Sessanta, in cui rappresentava (alcuni scrittori, per lo meno) una riserva etica. Ora ha cessato di interessare come personaggio, come qualcuno che ha qualcosa da dire. La presenza dello scrittore perdura in modo laterale, in modo meno evidente, tramite le interviste e gli articoli di giornale. Ci sono eccellenti programmi televisivi dedicati ai libri che invitano gli scrittori. Sono spazi dove lo scrittore o la scrittrice possono dire ciò che pensano del mondo e ragionare su certe questioni di estetica letteraria che non precipitano nella propria opera. Tuttavia, penso che sia salutare, oggi, per lo scrittore, questa condizione appartata. Nelle case, nei bar, nelle riunioni tra amici scrittori la letteratura e la poesia proseguono il loro cammino.
(traduzione italiana di Marianna Marchi, revisione di Mercedes Ariza; servizio e interventi di Davide Brullo)