“Essere capiti fino al limite disumano”. Storie dal Tempio
Letterature
Veronica Tomassini
Notoriamente, prima gli amici. Io non ho amici. Gli amici – forse cinque – li chiamo ‘parenti’. Il resto è carne che sorge&tramonta, tanto piacere, adieu. Comunque, notoriamente, prima gli amici. Uno degli scrittori di cui ho scritto di più è Denis Johnson. Notoriamente, di letteratura ci capisco un torsolo. Uno dei miei cinque amici, pardon, ‘parenti’, si è buttato dal settimo piano di casa sua, a Saronno, sono passati otto anni e lui, tra una manciata di settimane, di anni, ne farebbe 44, cifra mistica. Quanto a letteratura, io mi fidavo solo di lui. Simone Cattaneo. Poeta. Poeta dalla prepotenza multipla e dalla ferocia salutare. Lui mi fa. Leggiti Jesus’ Son, è uno dei libri più belli. Lui si chiama Denis Johnson. Un genio. Simone ha sempre ragione. Anche oggi, di notte, ogni tanto, mi sussurra all’orecchio i suoi improbabili consigli letterari. Per questo ho scritto così tanto di Denis Johnson. Perché vengono prima gli amici. Ho scritto su Albero di fumo, micidiale romanzo, catastrofico, della guerra in Vietnam; su Mostri che ridono, pazzesca spy story-farsa ambientata in un’Africa che ghigna visioni; perfino su Nessuno si muova, che invece è un libro di merda. L’anno scorso quelli de il Giornale m’han fatto l’onore di farmi scrivere il ‘coccodrillo’ di Denis Johnson, figlio dell’America alcova di incubi, classe 1949, tante donne, troppe sbronze, nastri di coca nelle narici, Raymond Carver come maestrina, un ‘vaffa’ a caratteri cubitali sul deretano della letteratura Usa, onorato a tratti – un National Book Award in teca – costantemente eccessivo, che muore a 67 anni per un cancro al fegato. Sorte puttana. Ho scritto il ‘coccodrillo’ di Denis Johnson. Ho scritto il ‘coccodrillo’ del mio amico unico, Simone, che mi chiamava ‘fratellino’, se n’è andato assiderandomi nel senso di colpa, e mi consigliava con ardore di leggere Johnson. Simone ha sempre ragione. Denis Johnson – che piaceva tanto a Philip Roth e a Don DeLillo – non si smanetta con la retorica del Grande Scrittore Americano, non gli interessa altro che andare a pesare quel grammo di dolore che è in ogni cosa. Pesa il dolore come il dio egizio della giustizia ti pesa il cuore. Come se nel dolore fosse incardinato il nostro carisma. Ora. Sepolto Denis, un mazzo di mesi dopo, esce il libro postumo. Racconti. Denis è un dio sinistro, un dio oscuro del racconto. Bravo romanziere, ma narratore eccelso, dicono i critici. Il libro s’intitola The Largesse of the Sea Maiden, è uscito questa settimana, per Random House (pp.224, $ 17.70; lo trovate qui) e visto che io non credo nei libri post mortem, sfilati sotto la chiglia della bara, mi sono fatto un giro. Tutti ne scrivono un gran bene. Forse perché dei morti sepolti di fresco non si può sparlare. Non lo so. Il pezzo più bello – e più articolato – comunque, l’ha scritto Christian Lorentzen, s’intitola Denis Johnson Left Us With One Final – and Terrific – Book. “Questi cinque racconti sono tra i lavori migliori di Johnson – ma quello che dà il titolo alla raccolta, un catalogo di singoli momenti vissuti da un uomo che ci dice di passare attraverso l’esistenza come se fosse una mascherata, è tra i migliori racconti in assoluto pubblicati da uno scrittore americano in questo squarcio di secolo”. Christian scrive questo. E vi spiega perché. Se non vi fidate, leggete il libro in inglese, altrimenti aspettate la traduzione Einaudi, che capiterà quando capiterà. Gli altri racconti s’intitolano The Starlight on Idaho, Strangler Bob, Triumph Over the Grave, Doppelgänger, Poltergeist. Il primo racconto – quello del titolo – parte con una sezione che si chiama Silences, così: “Dopo cena, nessuno se n’è andato a casa. Ci siamo goduti il pasto così tanto che speravamo che Elaine ci avrebbe servito il tutto ancora una volta. Sapevamo qualcosa del lavoro di volontariato di Elaine – nessuno sapeva del mio lavoro, dell’agenzia pubblicitaria. Ci siamo seduti nel soggiorno, per raccontarci i rumori più forti che avessimo mai udito. Uno disse: la voce di mia moglie quando mi ha detto che non mi amava e voleva divorziare. Un altro ricordò il tonfo del cuore quando gli partì la coronaria. Tia Jones era diventata nonna a 37 anni e si augurava di non udire più niente di così forte quanto il pianto della nipote tra le braccia della figlia sedicenne. Il marito, Ralph, diceva che ogni volta che suo fratello apriva bocca gli spaccava le orecchie, aveva la sindrome di Tourette e detonava in commenti del tipo, ‘Me lo meno! Il tuo cazzo odora di buono!’, davanti a perfetti sconosciuti, in autobus, al cinema, perfino in chiesa. Il giovane Chris Case ha cambiato rotta, ha preferito parlare del silenzio. La cosa più silenziosa che abbia mai sentito è stata la mina che gli ha strappato la gamba destra alla periferia di Kabul, Afghanistan”. Ascoltate il ritmo di Denis. Umanità marginale e smangiata in primo piano. Rettitudine di fronte al mastio del dolore. Tranquilli, dicevo. The Largesse of the Sea Maiden sbarcherà in Italia, griffato Einaudi, è probabile. Comunque, stampa un editore al top. Quello che non tradurranno mai sono le poesie di Denis. Peccato. ‘Cazzo, Johnson è anche un grande poeta’, mi diceva Simone. Rilancio. Denis Johnson è soprattutto poeta. Esordisce come poeta, specie di derelitto rimbambito da Rimbaud, nel 1969, a vent’anni, con The Man Among the Seals. Il primo premio importante lo ottiene, sotto la benedizione di Mark Strand, nel 1981, per The Incognito Lounge, e i primi soldi veri – la residenza al The Frost Place – li vede come poeta. La narrativa, con Angels, comincia dopo, nel 1983. Poi, è vero, la prosa ingoierà il talento lirico – che significa: saper fissare con occhi come cani il dolore, appunto – di Johnson, che comunque pubblica altre due raccolte, The Veil (1985) e The Throne of the Third Heaven of the Nations Millennium General Assembly (1995), a cui bisogna sommare un paio di testi teatrali in versi. Detto questo, vi spiego come funziona. Del libro postumo di racconti di Johnson – giurano che l’aveva rifinito per la pubblicazione poco prima di passare a miglior vita – parleranno tutti. Della sua poesia nessuno. Allora, io vi offro un paio di poesie come drink.
Davide Brullo
Calura
Qui nel crepuscolo elettrico il tuo amante nudo
eccita il vetro del bicchiere e cubi di ghiaccio cadono dai suoi denti.
Meravigliosa Susan, i suoi capelli appiccicosi di gin
Nostra Signora del Bicchiere Bagnato sulla copertina del disco
oscilla incattivita nella calura
mentre precipita un primato e accordi serpentini
si spaccano come un notizia terribile sui Rolling Stones,
come l’ultima luce – piena di sfere e di regioni.
Agosto,
tu sei solo una allucinazione erotica,
solo la musica febbrile prodotta da un kazoo
sei serio? – un forno gigantesco interpreta la notte
questa follia mutilata assomiglia alla passione,
la luna contraffatta di tenerezza e magia
offrirà una tazza di luce ai prigionieri?
da The Incognito Lounge and Other Poems, 1982
Vespro
Gli asciugamani marciscono e mi fanno schifo su questa umida
penisola dove hanno inventato la nebbia
e l’abuso di droga e insegnano che la luce svanisce,
dove il mio cuore profondo e di prima qualità
ha pianto perché non potrò baciare
le tue famose ginocchia di nuovo in una stanza resa
soffusa da una sciarpa gettata sulla lampada.
Le cose sono radicali nell’oscurità:
le barche partono dal golfo;
le province dell’attualità
gattonano sul mare; il crepuscolo ora teneramente
domina sopra i parcheggi incustoditi –
il tramonto è istantaneo sui parafanghi,
memoria e pace… il morso del caos…
da The Throne of the Third Heaven of the Nations Millennium General Assembly, 1995