24 Febbraio 2024

“My wornout heart”. David Gascoyne traduce Giacomo Leopardi

Tra i lari, i rari idoli di David Gascoyne, poeta che dialogava con i dissennati, tra Rimbaud e Hölderlin, s’installa Giacomo Leopardi. Delle amate ombre, è la più fragile: sussurro che emana una luce cupa, da chiodo di ghiaccio. Il legame tra Gascoyne e Leopardi è sancito da due plaquette: la prima, stampata da Charles Seluzicki Fine Books (Portland, Oregon) nel 1983, è il calco di Imitazione (titolo: An Imitation of Leopardi’s Imitation Canti, XXXV); l’altra, stampata da Tragara Press nel novembre del 1985, è una libera versione di A se stesso (ergo: To Himself, after Canto XXVIII). Si tratta di testi privati, fuori mercato, stabiliti in pochi esemplari (200 copie per Imitation e 120 per To Himself).

Gascoyne, ormai libero dai ricoveri che ne hanno incarcerato la mente, si è ritrovato poeta; nel giugno del 1979 è a Castelporziano, al First International Festival of the Poets, in un’ammucchiata dove, tra gli altri, spiccavano in cartellone William Burroughs e Allen Ginsberg, Osvaldo Soriano, Dario Bellezza, Amelia Rosselli, Sebastiano Vassalli; nel 1982, a Genova, è onorato con il Premio Biella-Poesia europea per La mano del poeta (San Marco dei Giustiniani; con traduzioni di Attilio Bertolucci, Franco Buffoni, Roberto Sanesi).

Dal clima delle traduzioni leopardiane ci accorgiamo che il poeta è diverso dal ragazzo prodigio che cinquant’anni prima vagabondava a Parigi, attratto dall’orda surrealista: più cauto, calibrato, casto. Leopardi è appena anglicizzato – i versi più lunghi, la pretesa lanugine narrativa –; per lo più Gascoyne intende il gesto lirico come un omaggio, per altro riuscito. Manca, piuttosto, la libertà estrosa degli esordi, l’estremismo, la presunzione di entrare nell’opera di un poeta per scassinarla, la scaltrezza del bimbo con la cerbottana. Si entra in sacrario lirico, qui, certi che il malmenato gesto potrà sfumare la liturgia, dissacrare l’opera che agisce. Di Leopardi, in sintesi, Gascoyne ricalca la sindone: non più istrione caravaggesco, poeta-ecce homo, ma maestro di icone, pintore di devote veroniche – e se ciò che diciamo arretrare fosse in realtà ascesa?

In Leopardi, il congeniale fratello di una vita inabissata nella lotta interiore.

Quando traduce Hölderlin, in quel libro dal magnetismo anomalo, oscuro, Hölderlin’s Madness (1938), Gascoyne è un ragazzo animato da nevrosi, frequenta la poesia per bordeggiare il nulla; qui, al cospetto di Leopardi, è un poeta, riconosciuto e risolto – la consapevolezza raffina, addomestica il selvaggio, attribuisce una norma all’arcano, sfuma nel bel verso. Le ‘placche’ – reperite presso il Centro Manoscritti dell’Università di Pavia – recano dediche al poeta e anglista Roberto Sanesi “In gratitude and admiration” e “In friendship”. Gascoyne, tra l’altro, aveva firmato una lunga prefazione alle Poesie di Thomas S. Eliot tradotte da Sanesi per l’edizione Bompiani del 1983.

La calligrafia di Gascoyne è incerta, infantile, quasi un balbettio: s’intuisce la traccia di una vita piena di vuoti e di esclamazioni.

*In copertina: una immagine dalla “International Surrealist Exhibition” organizzata da David Gascoyne presso le New Burlington Galleries di Londra, dal 12 giugno al 4 luglio 1936; si riconoscono, Paul Eluard e Salvador Dalí 

***

Imitation

Far from your bough
Poor fragile leaf,
Whither away? – From the beech
Which gave me birth the wind had wrested me;
Since when, in ever-whirling flight
From the woods towards the plain
It sweeps me off, and from the dale up to the hills.
Along with it, wayfarer
I pass on without rest, knowing nought else.
I go whither all things hie,
Whither nature decress
The rose-leaf must go,
And the laurel likewise.

*

Lontana dal ramo
Povera foglia fragile,
Dove vai? – Dal faggio
materno mi ha strappato il vento;
Da allora, volo vorticoso
Dal bosco alla pianura
Vacillo, dalla valle alle colline.
Con lui, viandante
Vago senza sosta, ignara di tutto.
Vado dove tutto va,
Nel decreto della natura
Dove va la foglia di rosa
E perfino l’alloro.

*

Imitazione    

 — Lungi dal proprio ramo,
povera foglia frale,
dove vai tu? — Dal faggio
lá dov’io nacqui, mi divise il vento.
Esso, tornando, a volo5
dal bosco alla campagna,
dalla valle mi porta alla montagna.
Seco perpetuamente
vo pellegrina, e tutto l’altro ignoro.
Vo dove ogni altra cosa,10
dove naturalmente
va la foglia di rosa,
e la foglia d’alloro. —

***

To Himself

Now may you lie still foresver,
My wornout heart. The utmost illusion
I once deemed eternal has perished. Decased. Well I know
That of all those one cherished illusions
Not only hope but desire is now quenched.
Lie still forever. You have been throbbing
Long enough. Nothing merits your ardour, this earth
Is not worth sobbing for. Bitterness, tedium:
Nought else is our life; the world is a mire.
From henceforward be mute. Give up hope
The last time. Fate grants to our kind
The right only to die. Henceforth hold in contempt
Not yourself only, but Nature, the arrogant power
That consigns us in secret to ruin,
And the everlasting emptiness of All.

*

Ora poserai per sempre
Mio cuore scorticato. L’estrema illusione
Di essere eterno è morta. Decapitata. Sento
Che di tutte quelle amate illusioni
Non c’è che la speranza, il desiderio è disfatto.
Posa per sempre. Il fremito è durato
A lungo. Nulla merita il tuo ardore, nessun sospiro
Decori questa terra. Amarezza e tedio:
Nient’altro è la nostra vita; melma il mondo.
Da adesso sarai muto. Smonta la speranza
Un’ultima volta. Il fato garantisce alla nostra specie
Il solo diritto di morire. D’ora in poi disprezza
Non solo te stesso, ma la Natura, il potere arrogante
Che ci consegna in segreto alla rovina,
E il Tutto, infinito Vuoto.

*

A se stesso

     Or poserai per sempre,
stanco mio cor. Perí l’inganno estremo,
ch’eterno io mi credei. Perí. Ben sento,
in noi di cari inganni,
5non che la speme, il desiderio è spento.
Posa per sempre. Assai
palpitasti. Non val cosa nessuna
i moti tuoi, né di sospiri è degna
la terra. Amaro e noia
la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo.
T’acqueta omai. Dispera
l’ultima volta. Al gener nostro il fato
non donò che il morire. Omai disprezza
te, la natura, il brutto
poter che, ascoso, a comun danno impera,
e l’infinita vanità del tutto.

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