Per poche opere prodotte dal genio umano ci si è arrovellati tanto come per La Tempesta di Giorgione, in uno sforzo plurisecolare di decifrarne il significato, di svelarne il mistero. Si è scatenata attorno a quel capolavoro una ridda di ipotesi estremamente variegata, talora parto di pura fantasia e talora storicamente motivate e plausibili, dalle letture strettamente politiche e ancorate al contingente dell’età che fu di Giorgione sino alla lettura del quadro data da Edgar Wind come di un’allegoria della Forza e della Carità, dall’addensarsi di teorie neoplatoniche sino all’ipotesi della raffigurazione dello sbarco di Antenore, da chi vede il quadro come una rivisitazione della leggenda di San Giovanni Crisostomo a chi vi ha invece letto una rappresentazione allegorica della Redenzione.
Ipotesi talora affascinanti ma che dimenticano il fatto essenziale, che l’incanto del dipinto deriva proprio dalla sua indecifrabilità.
La Tempesta è una porta di cui si è perduta da secoli la chiave, uno scrigno inabissato in profondità da cui mai potremo trarlo a galla. Se anche, sempre per ipotesi, essa potesse essere decrittata nel suo preciso significato nessuno Champollion di turno aggiungerebbe nulla al suo valore estetico, resistente a ogni interpretazione a posteriori.
Ovviamente le letture storiche e iconologiche del dipinto sono preziose e talora magistrali, ma, lo ribadiamo, devono fare un passo indietro ritraendosi dinanzi alla malia del dipinto, sottrattosi a ogni tipo di determinazione più precisa. Credere di esaurire il suo significato nella ricerca documentale è una pia illusione che nasce, appunto, dal feticismo del documento in quanto tale.
È quasi apodittico che il documento resta fondamentale e imprescindibile per qualsiasi ricerca, che sia storica o letteraria o artistica e che volerne prescindere è indizio di dilettantismo o di impressionismo estetico. Ma è altrettanto vero che il documento non esaurisce né esaurirà mai la ricognizione dell’opera d’arte e che il suo culto sviscerato equivale al ritorno ad un rozzo positivismo, ad un’epoca in cui davvero si credeva di poter cogliere il senso estetico di un libro o di un quadro dalla ricostruzione del suo milieu, da dati grezzamente biografici o, persino, da informazioni di natura medica, scientifica o fisiologica.
Altri capolavori artistici hanno catalizzato su di loro nei secoli interpretazioni e querelles pari a quelle della Tempesta, dal quadro più riprodotto, inflazionato e parodiato di tutti i tempi, la Gioconda, sino all’enigmatica Flagellazione di Piero della Francesca. Di qui i conati nell’intravedere nella Monna Lisa l’autoritratto leonardesco in veste muliebre o nel cercare di identificare storicamente e fisionomicamente la reale Lisa del Giocondo o nel localizzare l’esatto paesaggio che fa da sfondo al ritratto, come se lo sfumato leonardesco non fosse per definizione, nella sua atmosfera corpuscolare, una rappresentazione dell’indefinito o, almeno, dell’indeterminabile.
Per la Flagellazione si è insistito sulla lettura teologico-allegorica come raffigurazione dell’Età dell’Oro o la si è considerata, come fece Roberto Longhi, alla stregua di una celebrazione della casata dei Montefeltro. Kenneth Clark poi calò più precisamente il dipinto nella sua realtà storica vedendolo come un criptato invito a Federico da Montefeltro a partecipare alla crociata antiturca del Bessarione, lettura poi proseguita con straordinaria ricchezza di documenti e addentellati da Carlo Ginzburg e da Silvia Ronchey.
Monografie benemerite e di eccezionale pregio, ma che, anche in questo caso, non spostano di un millimetro la valutazione squisitamente formale del quadro in quanto il documento è semplicemente il prerequisito del giudizio estetico.
Mentre la storiografia è per sua natura avalutativa e il suo oggetto e la sua analisi sono inscindibilmente inchiavardate nel documento, la critica d’arte è, all’opposto, “valutativa” e, se non si riduce a un mero catasto di nomi e di date, esiste perché dispone i prodotti della libera inventiva umana in ordini e gerarchie di valore.
Venendo all’ambito letterario, da settecento anni ci si è sguinzagliati nell’interpretare la “sapienza riposta” che informa le terzine della Divina Commedia, in querelles tanto rissose quanto sterili sul Veltro o sul Cinquecento, Diece e Cinque o sull’ultimo verso della cantica del Conte Ugolino con la duplice ipotesi della morte per inedia o di un raccapricciante caso di antropofagia, come se la tragicità disperata e pietrificata di quel “Poscia più che il dolor poté il digiuno” non fosse amplificata poeticamente proprio dalla sua ambiguità, dalla sua voluta indeterminazione.
L’esegesi esoterica e simbolico-allegorica della Commedia è pienamente legittima ed ha dato frutti cospicui e ammalianti dalle prime opere in merito del Rossetti e dell’Aroux fino a quelle poderose del Pascoli, del suo allievo Pietrobono e di quanti si sono addentrati in quel filone minerario dopo di loro, a volte con ammirevole acribia, a volte con superficialità quasi New Age. Ben vengano queste letture, che provvedono a ripristinare la molteplicità di significati e la natura polisemica del testo di Dante, ma non pretendano davvero di rimuovere la polvere che i secoli hanno accumulato su quei molteplici significati e, soprattutto, cedano il passo al criterio sovrano per il godimento (mi rifiuto di usare il termine fruizione: si fruisce una pratica burocratica, non una poesia!) della Commedia, il criterio squisitamente estetico, che ingloba in sé qualsiasi considerazione allegorico-esoterica e ogni sorta di lettura “allotria”, come avrebbe detto Croce in quel suo saggio spartiacque su La Poesia di Dante che fa giudicato da solo più pertinente di tutta la secolare ermeneutica.
Se la ricostruzione del milieu storico e geografico dell’opera d’arte bastasse a dar conto del come essa è germinata dovremmo chiederci come mai da sostrati culturali e ambientali simili scaturirono sia il prodotto sovrano del genio dantesco che la sua mediocre imitazione, il Quadriregio del Frezzi, o come mai attorno al Petrarca fiorirono stuoli di verseggiatori mediocri.
Il singolo e l’imponderabilità del precipitato del genio individuale soverchiano sempre i fattori collettivi e le coordinate esteriori della spazialità e della temporalità, coordinate nel cui terreno crescono ma che allo stesso tempo trascendono e trasformano.
I nuovi pedanti ribatteranno che l’arte non è un fungo che nasce dal nulla, avulso da quelle strutture storiche e, appunto, spaziotemporali. Bella scoperta! Una volta appurato ciò, essi, pur avendo magari disseppellito cataste di documenti dagli archivi e moli smisurate di dati e informazioni con tali dati e informazioni non sapranno dirci un emerito nulla sulla consistenza estetica dell’opera in esame.
Già al tempo del pur glorioso metodo storico i grandissimi storici della letteratura che sviscerarono in lungo e i largo la letteratura italiana e le lettere romanze in genere, da Pio Rajna ad Alessandro D’Ancona, da Rodolfo Renier a Guido Mazzoni, per citare solo i primi nomi che mi vengono in mente, compilarono opere di sconfinata erudizione e di solidissime fondamenta, tuttora indispensabili agli studiosi, senza tuttavia quasi mai esprimere un solo giudizio di valore sui libri e le poesie in questione.
Peggio ancora fu fatto dal metodo rigidamente deterministico di un Hippolyte Taine che, come considerò chimicamente il vizio e la virtù alla stregua dello zucchero e del vetriolo, così discorse dell’opera d’arte come se fosse né più e né meno che il diretto prodotto di un ambiente sociale. L’individuo moriva, annegato nell’illusione samsarica di una diretta derivazione del fatto artistico da una congiuntura sociale ed economica, non diversamente dall’appiattimento mortificante che dell’arte faranno poi le dottrine marxiste. C’è il rischio oggi di tornare al miraggio positvista del metodo storico senza avere la preparazione e l’onestà dei suoi grandi esponenti, accarezzando feticisticamente il documento in funzione prettamente antiestetica. Che cosa significa questo, che si deve tornare nel giudizio alla questione elementare, di sconcertante ovvietà, del determinare che cosa è il bello e che cosa è il brutto? La risposta è di banalità disarmante ma il nucleo essenziale del giudizio critico, ridotto al suo nucleo, è solo quello.
Il Bello è il Bello, il Brutto è il Brutto (e nessuno nega che possa esistere anche una Estetica del Brutto, come suonava il titolo del vecchio libro di Karl Rosenkranz!) e questa ovvietà da sillabario scolastico non è rimpiazzabile da nessun lavoro sugli scartafacci. A forza di scrutare in profondità e analiticamente ci si dimentica a volte dell’ovvio, di ciò che è semplice e immediatamente sotto il nostro sguardo. Le ricerche d’archivio e le ruspe dell’erudizione possono darci un nuovo affresco dell’ambiente storico in cui si è mosso l’artista ed a modificarsi sono la prospettiva storica e la sensibilità di noi come contemporanei nell’avvicinarci alle opere, ma il giudizio propriamente di valore non si modifica davvero in quanto quei valori e quelle gerarchie, dopo infinite scosse di assestamento, si sono appunto assestati e di lì non si muovono.
Nessun nuovo documento su Dante può minimamente incrinare il giudizio sull’immensità della sua arte e nessuna ipotesi sulla realtà o irrealtà storica di Shakespeare può scuotere dai loro piedistalli l’Amleto o il Macbeth. Ancora oggi tuttavia ci si sbizzarrisce in tomi uno più inutile dell’altro a determinare se Shakespeare fosse italiano o se fosse in realtà Roger Manners o se il suo nome adombrasse Marlowe o Bacone o chissà quanti altri personaggi, dimenticando che la questione shakespeariana fu risolta da Mark Twain con una sola battuta: Le opere di Shakespeare non sono state scritte da Shakespeare ma da un tale che si chiamava esattamente come lui.
Battuta liberatoria, che equivale al taglio del nodo gordiano da parte di Alessandro Magno.
La smania dell’individuazione fisica, della determinazione a tutti i costi anche dell’indefinito si è esteso a macchia d’olio anche alla geografia dei luoghi letterari, cercando di localizzare i paesaggi interminati della fantasia con atlante e carte alla mano. Con commovente dedizione un Victor Berard percorse in lungo e in largo il Mediterraneo a bordo della propria barca per individuare ogni singolo luogo descritto nell’ Odissea senza avvedersi che le localizzazioni erano impossibili perché il primo grande poema e romanzo fantastico delle lettere occidentali ubbidisce solo alle leggi della fantasia, che trasfigurano qualsiasi luogo fisico.
In anni più recenti un simile spirito ha sorretto Felice Vinci nella sua singolare ricognizione su Omero nel Baltico ma, anche cambiando di latitudini e longitudini e spostandosi dal Mediterraneo ai brumosi paesaggi scandinavi la pedanteria e l’inintelligenza circa le ragioni profonde della poesia permangono, così come la confusione tra archetipi e mitologemi comuni a culture fra loro geograficamente lontanissime e dati di fatto propriamente detti.
I geografi e topografi della letteratura hanno anche più volte percorso i luoghi dei Promessi Sposi, certo fisicamente più “reali” e definiti, dimenticando però, come fu detto da Contini, che il grande romanzo si corona “in Himmel”, non già in una terricciola del Lecchese. I nuovi pedanti assomigliano come gocce d’acqua ai pedanti antichi e alcune diatribe sono per loro eterne, come la questione omerica, querelle risolta nel Settecento da Vico che, dopo uno stuolo di poveracci giunti alla mirabolante scoperta che Omero come persona fisica non è mai esistito, ricondusse quelle logomachie sul corretto binario dell’interpretazione poetica, di una poesia che affondava nei tempi barbarici dell’umanità.
“Cui poi, tolto a la Terra, Argo ed Atene,
E Rodi a Smirna cittadin contende:
E patria ei non conosce altra che il Cielo”
cantava Manzoni a proposito di Omero nel carme In morte di Carlo Imbonati.
Parole al vento. Gli Azzeccagarbugli delle umane lettere non si curano né mai si cureranno di certe cose e seguiteranno imperturbabili nei secoli ad andare in cerca dell’Ogigia di Ulisse e della patria di Omero con l’Atlante del Touring Club a portata di mano.
Alessio Magaddino
*In copertina: Giorgio, La tempesta, 1506 ca.