Ha sempre voluto essere qualcos’altro – è questo, questa fuga perpetua da sé, a conferirgli ancora, più di altri, una patina di splendore.
Chi affibbia ad André Malraux la nomea di “mitomane” non sbaglia – ma erra dal vero. Malraux, in fondo, ha fatto di tutto per mistificare le tracce, per lasciare, di sé, un’ombra. Sempre ci sfugge. Nelle fotografie, ad esempio, il profilo del lupo si mescola a quello della faina – potremmo chiamarlo Chirone, figura, in fondo, anfibia al tempo, per metà bestia, dall’intelligenza selvaggia. Antimemorie, per dire – di recente riedite da Bompiani – non è il suo mausoleo bensì il gibetto, il patibolo, il cappio. Come a dire: mi ammazzo io, falsificando le trame, dando al fango carattere di marmo, prima che lo facciate voi. Che sia il più bel libro di storia del Novecento, proprio perché la memoria si intride di immaginario, la cronaca è ammutolita da Sfingi, Garamanti e Atlantidi, è perfino ovvio ribadirlo.
André Malraux, il ‘possidente’ della cultura francese, l’uomo che ha forgiato la “Grandeur” stipendiando artisti – da Picasso a Matisse – e a suon di eventi ‘spettacolari’, credeva nel drago, nelle falangi degli angeli e nel loro rogo, nell’Apocalisse dietro l’angolo. ‘Jackie’ Kennedy dichiarò che “è l’uomo più affascinante con cui mi sia mai intrattenuta”; una fotografia li ritrae al cospetto della ‘sua’ Gioconda: l’aveva scortata alla National Gallery of Art di Washington per dimostrare che poteva. Nella fotografia, rituale, la first lady sorride, il marito, il Presidente Kennedy, è sbigottito, lui, André, ha la faccia allucinata, da vampiro. Non so se essere sepolto al Pantheon, tra Victor Hugo, Rousseau, Voltaire e Zola sia davvero un premio per Malraux: il suo vero modello, Chateaubriand, inumato a Grand Bé, isola che afferisce a Saint-Malo, sfida, da solo, i mari. Un re – il re di se stesso – non condivide il tumolo con nessuno.
Ma, si sa, ci vuole coraggio per non sottostare a una corona di applausi.
Malraux, da ragazzo, voleva diventare D’Annunzio; il suo sogno era seguire le orme di “Lawrence d’Arabia” – a cui dedicò il libro più bello, l’incompiuto Le Démon de l’Absolu –, fu l’alfiere del gollismo, il plenipotenziario della cultura francese – che dominò, da super-Ministro, per un decennio, dal 1959 al ’69. Fu lo scrittore più potente – nel senso reale del termine – del suo tempo: il che, in fondo, per uno che amava il ‘bel gesto’ e teorizzò l’azzardo come forma di vita, risalta come un ripiego.
Anche la nota Wikipedia – in francese – di Malraux si inchina al rito del mitomane: lo dice “scrittore, avventuriero, uomo politico, intellettuale”. L’augusto André avrebbe apprezzato l’ordine gerarchico: idolatrava il dio assente, aveva in sprezzo gli intellettuali, usò la cultura, sempre, in foggia marziale. In nulla fu eccelso, in tutto eccessivo – per questo, infine, gli va la nostra predilezione, ira in alloro, direbbe il saggio. Lo scrittore, per dire, non giunge alle cime romanzesche di Aragon, alle vette squilibrate di Drieu, ai balbettii virulenti di Céline, all’aristocrazia della forma di Montherlant e di Jouhandeau. Eppure, La condizione umana – baciato, nel 1933, da un Goncourt – è un libro di oscura bellezza, per l’audacia, se non altro, con cui mescola Conrad ai precordi dell’esistenzialismo, la bruta cronaca agli abissi di Pascal.
Fu, tutto sommato, “avventuriero” imberbe: i ratti delle sacre pietre di Angkor Wat e dintorni si ridussero alla bravata di un “dandy pallido e seducente”, poco più che ventenne, arricchito da Freud e galvanizzato da Verne, che si era sposato una ricca, Clara Goldschmidt, per giocare al superuomo e adempiere la desiderata ascesa sociale. Le avventure militari furono, per lo più, picaresche: le imprese aeree durante la guerra civile spagnola non valgono quelle di D’Annunzio (ma gli offrirono il destro per scrivere “le roman de la révolution”, L’espoir, tradotto da Giovanni Pacchiano nel 2020 per Bompiani); l’impegno nella Resistenza non è pari a quello dei fratellastri, Claude – agente dei servizi francesi, affiliato alla SOE, è arrestato e ucciso dai tedeschi nel 1944 – e Roland. Di quest’ultimo – deportato dai tedeschi a Neuengamme, muore nel ’45, sulla nave “Cap Arcona”, bombardata dalla Raf – André sposa la moglie, rimasta vedova, Madeleine, affascinante pianista. La compagna di Malraux – Josette Clotis – era morta da poco, incidentalmente; nel frattempo, lui continuava a frequentare Louise de Vilmorin.
Affrontò le tragedie – e l’assenza di amore riservata a un uomo che non sapeva amare, che chiedeva gli onori che si tributano a una muta divinità – esasperando l’opera. I due figli, Gauthier e Vincent, morirono nel 1961 in un incidente stradale, neppure ventenni; in quegli anni, all’apice dell’onnipotenza politica, vagava per gli antichi possedimenti francesi in Africa dichiarando che “l’era coloniale è oggi finita”. Il Ministro degli esteri non gradì.
Uomo di insondabili oscurità, dal cuore taurino, Malraux agiva sempre presupponendo un pubblico – o meglio, un plotone di esecuzione. Per questo, i suoi discorsi sono parte consustanziale della sua opera – specie di alchemico Frankenstein che fonda vita & libri, lealtà & menzogna – oltre che uno sguardo, sfolgorante, sull’intero Novecento (secolo che continua a imperare pure in questo millennio). Pubblicati da Gallimar come La Politique, la Culture. Discours, articles, entretiens (1925-1975), i discorsi, finora inediti in Italia, escono per De Piante in una antologia curata da Maura Baldini e introdotta da Massimo Raffaeli, dal titolo caustico: Occidentali, quali valori difendete?
La furia di Malraux è qui quintessenziale: al giogo della morte, l’uomo consegna la propria gloria all’arte, unico istintivo istante in cui può connettersi alla divinità. Alcune frasi sono mirabili: “L’arte non è sottomissione, ma conquista”, ad esempio. La Storia irrompe nel dire di Malraux con cupa foga: lo scrittore cita, nella stessa frase, Stalin e Cézanne, Giovanna d’Arco e l’epoca gotica, l’Europa di oggi e l’uomo dei primordi. Nel fatale discorso “pronunciato al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura”, nel giugno del 1935, pone le basi del suo “museo immaginario”:
“Quando un artista del Medioevo intagliava un crocifisso, quando uno scultore egizio effigiava una maschera funeraria, essi plasmavano oggetti che oggi definiremmo feticci o figure sacre, ma non pensavano a quelle figure come a opere d’arte. Non sarebbe stato concepibile. Un crocifisso era intagliato per Cristo, una maschera era effigiata per un morto; e l’idea che un giorno avrebbero potuto essere riuniti nello stesso museo, affinché ne fossero ponderati i volumi o le linee, sarebbe stata percepita come una profanazione. Al museo del Cairo, in un armadio chiuso, si trovano alcune statuette. Sono le prime rappresentazioni figurative dell’uomo. Sino ad allora avevamo conosciuto soltanto il doppio, nozione molto più chiara, il doppio che abbandona l’uomo nel sonno prima di lasciarlo definitivamente nella morte. Mentre passavo da quelle parti, davanti a me un visitatore soppesava le loro forme, e ho pensato alla vertigine che si sarebbe impossessata di chi le aveva scolpite, se avesse saputo di aver dato origine a un problema artistico nel momento in cui, da qualche parte nelle vicinanze del Nilo, nei dintorni del terzo millennio avanti Cristo, lui, scultore sconosciuto, aveva per la prima volta nella storia raffigurato l’anima umana”.
Malraux intuisce che l’arte è il primato dell’Europa, la sua eredità; che un tempo votato a un’idiota idea di “progresso” e di razionalità ha per esito la bomba atomica, lo sterminio planetario, l’assenza di eredi. Ha capito che soltanto l’anonimato dell’artista è garanzia di mediazione verso Dio, a cui è offerto, in restituzione e pasto, ogni nome. Ma l’io – cosa ben diversa dall’individuo – ha corrotto l’estro:
“L’arte ha smarrito la pretesa di verità a beneficio della volontà di apparire dell’artista”.
Di qui, il destino di sparire per eccesso di visibilità, in Malraux, l’azzeramento dell’intelletto occupando ogni ambito dello scibile. Ormai destituito di ogni ruolo politico, nel 1971, Malraux sogna di guidare una falange armata, in Bangladesh, contro il Pakistan: Indira Gandhi gli consiglia di fare altro. Supporta pubblicamente il brigante e mercenario Jean Kay, che “ha dirottato un aereo per trasportare medicinali destinati ai Bengalesi”; appoggia la guerriglia di Régis Debray, arrestato dalla polizia boliviana. Nel 1975, un anno prima di morire, in stato di febbre perenne, Malraux torna uomo assoluto: omaggia “l’eccelsa figura” di Charles de Gaulle a cinque anni dalla morte – “pensava che la Francia fosse stata eletta anche per mezzo dell’imprevedibile”, disse, mettendo in bocca al Generale un pensiero di suo conio. A Chartres, era maggio, parlò alle donne reduci dalla deportazione, “per celebrare il trentesimo anniversario dalla liberazione dai campi”. L’oratore ha i tuoni del romanziere, il discorso reca leoni e pianto, attacca così:
“C’era il grande freddo che mordeva le prigioniere, come i cani poliziotto, il Baltico plumbeo in lontananza, e forse l’abisso della miseria umana. Sull’immensità della neve, c’erano tutte quelle macchie a righe in attesa. E ora non rimanete che voi, una manciata di quella polvere flagellata dai venti della morte.
Vorrei che coloro che sono qui, e coloro che saranno con noi stasera, immaginassero le resistenti impiccate, decapitate con la scure, o semplicemente annientate dalla vita condotta nei campi di sterminio. La vita, già! Ravensbrück, ottomila decessi politici. Tutti quegli occhi chiusi fino all’abisso della grande notte funesta. Mai tante donne hanno combattuto in Francia. E mai in simili condizioni. Riaprirò appena il libro dei supplizi. Non bisogna ricondurre, né limitare, la più terribile organizzazione di avvilimento che l’umanità abbia conosciuto all’orrore ordinario, ai lavori forzati. C’è molto altro. “Trattale come melma”, diceva la teoria, “e diventeranno melma”. Da cui il ghigno ferino delle guardie, che aveva sembianze al di là dell’umano. “Sapete suonare il piano?”, si chiedeva nel formulario che le detenute riempivano per scegliere fra il lavoro al servizio di cremazione e i lavori di scavo. E i medici che chiedevano ai torturati che sputavano sangue: “Ci sono tubercolotici nella vostra famiglia?”. E ancora il certificato di attitudine a ricevere percosse. La via del campo denominata “cammino della Libertà”. La lettura delle punizioni in cui sarebbero incorse quelle che scherzavano nelle fila, quando sul viso delle detenute sull’attenti le lacrime colavano in silenzio. Le evase ricatturate che portavano il cartello: “Eccomi di ritorno”. La costruzione dei secondi crematori. E, per trasformare le donne in bestie, l’inestricabile catena di demenza e orrore della punizione: “Otto giorni di reclusione nella cella dei pazzi”. E poi c’era il risveglio che, inesorabilmente, riportava alla luce lo schiavo. Ottanta per cento di decessi”.
Pareva un uomo fuori dal tempo, Malraux, avrebbe preferito la sciabola alla mitraglia. Credeva che l’artista, in fondo, non deve fare altro che replicare il gesto dell’uomo di Lascaux: tra l’Iddio di Michelangelo e il bisonte magdaleniano non vedeva più differenza. Nel suo romanzo più bello – perché il più ingenuo – La Via dei Re (edito in Italia da Adelphi), scrive della giungla d’Indocina infestata di insetti, blatte, mosche, cavallette, scarabei, “bestie senza nome la cui testa spuntava dai gusci affioranti fra i muschi”, masse di “grandi formicai biancastri”. Nell’infinito fiorire di quegli “animali furtivi e quasi sempre invisibili” che “venivano da un altro universo”, intuì la nuova epoca umana, la ferocia massiccia delle masse. In fondo, visse sempre come un ladro.