28 Maggio 2020

Da Omero a Milarepa, da Machiavelli a Moby Dick e Dino Campana: benvenuti nel “Canone Neri”!

L’epoca priva di maestri è sradicata. Lo sradicamento, all’inizio, culmina con l’ebbrezza: liberi del suolo pensiamo di poterci librare. Ma l’albero non diventa falco; senza sostegno, crolla, muta in covo d’insetti, oblio in volpi. Lo sradicamento, ora, è sdoppiato. Conosco – conosciamo – poeti che sanno a memoria i propri versi (non memorabili) e leggono con accanimento proprio all’invidia i contemporanei, i pari, ma non sanno nulla degli impareggiabili, non leggono Eschilo, non si sono fatti torchiare da Agostino. Non è – è ovvio – questione di cultura, non lo è mai, in poesia; ma di lacerazione. D’altronde, non riconosciamo chi ci è superiore, dimentichi dell’arte di inginocchiarsi – è sempre un altro che ti solleva da terra, però, dando impulso al tuo talento, coagulando in promesso quello sputo di polvere.

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“Quando i cantori sono uccisi, e le canzoni trascinate al museo e attaccate con uno spillo al passato, ancora più deserta, derelitta e desolata diventa questa generazione, nullatenente nel più autentico senso della parola”: così Roman Jakobson scrive in Una generazione che ha dissipato i suoi poeti. Era il 1930; con Vladimir Majakovskij era morta un’epoca – ma c’erano, ancora, Boris Pasternak e Anna Achmatova; doveva nascere Iosif Brodskij. Il cantore intona il ritmo dell’epoca – noi non abbiamo iconoclasti perché è assente l’icona, non abbiamo assassini perché il sangue si è annacquato in ignavia.

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Nel 2013 Alessandro Rivali, in una biografia uscita per Jaca Book, dichiarava Giampiero Neri un maestro in ombra. Che immagine riuscita. Piuttosto, immagino Giampiero Neri, nell’antro milanese in piazzale Libia, che gioca con le ombre – i poeti, si sa, fanno un falò con briciole di luce. Sulla parete, crea le ombre di aquile immense, di cigni, di famelici lupi, di fatidici capodogli. La parola ombra, però, porta alle “ombre” di Dante, gli spettri che appaiono dalla nidiata del passato. Neri, classe 1927, esordio assai consapevole alla poesia, nato adulto, si direbbe – quindi: perennemente bimbo –, con L’aspetto occidentale del vestito, nel 1976, lotta – o gioca – con le ombre del suo passato (a partire da quella del fratello, Giuseppe Pontiggia, e di tante, umili, emblematiche figure che tralucono dalla sua poesia, che valicano mappe di tenebra). Mi piace il carattere aforistico di Neri, i suoi apoftegmi: un autore totalmente del Nord scrive, a volte, come un avventato taoista, un discepolo di Milarepa. D’altronde, non ho avuto particolare affinità con i suoi versi – affari formali miei, ognuno ha il vino che predilige. Mi è sempre parso che i versi fossero il dito mignolo del maestro – anche per il loro moto cautamente sapienziale. È Neri in sé – creatura centrata da una stralunata umiltà – a piacermi, come uomo. Come maestro.

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Alessandro Rivali è poeta di talento – ora ne è convinto anche lui. Nella “conversazione con Giampiero Neri” edita da Ares, dal titolo Ritorno ai classici, ci racconta che “da bambino detestavo i libri”, che ha amato Eugenio Corti, e che “incontrai Neri a 21 anni per caso in una notte d’inverno a Milano”. Si appresta, Rivali, a diventare classico – o santo – pure lui; ha il coraggio di riconoscere i suoi maestri; una delle prime volte che abbiamo pranzato insieme, un’orda di anni fa, abbiamo parlato di Tacito e di Isaia, cosa puoi volere di più da una creatura senziente? Penso che questo libro – con utile Indice dei nomi – sia bello non tanto per le definizioni (il classico? “Un testo che non ha tempo, un testo che può essere letto in ogni tempo”), quanto per la freschezza, l’aria, la falange d’ombre. I libri, in effetti, sono avventure che complicano la vita, ci portano su alture e dentro una ricerca inesauribile, in grado di mutarci radicalmente – non sradicano, eventualmente ci collocano, per innesto, in altre radici. C’è poi il gioco – le sentenze di Neri rimbombano ina una specie di botte di Diogene – e dal libro si spreme una specie di “Canone Neri”, che cerco di dettagliare, per frammenti, facendo ciò che so, esegesi delle ombre, uno che passa olio nei confessionali.

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Iliade: “È giusto che la figura di Omero sia fantastica, perché la letteratura è un mistero”

Sofocle: “Nell’Edipo a Colono c’è qualcosa di divino che non si è più ripetuto. Avevo cercato di tradurlo con mio figlio, ma mi sono arreso perché mi rendevo conto che non riuscivo a dargli un significato nuovo”

Cesare: “Il De Bello Gallico è un capolavoro… resta un’opera fondamentale che fa pensare al mistero della letteratura. Verrà apprezzata in ogni secolo. Mi piace la determinazione di Cesare, anche se quando lui è vincente diventa meno interessante. C’è però qualcosa che va al di là della sua volontà”

Tacito: “La sua grandezza è più nello stile del discorso, nella sua qualità, sempre alto, sempre severo. Eppure, non ci si stanza della sua narrazione e quando ci stacchiamo, lo facciamo sempre a malincuore”

Plutarco: “C’è una qualità di scrittura che ne fa un narratore di grande spessore. Ho grande curiosità nei suoi confronti e ho sempre desiderio di rileggerlo, di scoprire quello che non ho rilevato la prima volta, il rammarico di non averlo meditato a sufficienza. Plutarco è uno dei grandi ispiratori di Shakespeare”

Virgilio: “Il più grande di tutti, anche se bisognerebbe ricordare quanto diceva Milan Kundera a proposito dei ‘testamenti negati’. Aveva chiesto che l’Eneide fosse bruciata e gli fu negato… La figura di Virgilio è gigantesca e il mio libro preferito sono le Georgiche

Agostino: “Ogni volta che riprendo in mano le Confessioni provo gioia e sorpresa”

Vangeli: “Una lettura infinita, non si finisce mai di leggere i Vangeli perché sono sempre nuovi, sempre attuali, presenti, eppure obliati dalla quotidianità, poi all’improvviso una citazione, un’immagine ce li riporta vivi davanti agli occhi”

Vita di Milarepa: “Questo testo è una grande eredità culturale dell’Oriente. Tra i personaggi dell’Oriente, mi sono interessato a Buddha, figura nobile, attraente, che viene colpito dalla miseria dell’uomo e per questo si converte a una vita ascetica. Una storia bellissima. Ma la nostra figura di Cristo va più in profondità, la sento più vicina. Mi affligge e mi consola”

Dante: “Una figura enigmatica… Dante è uno scultore, non è un pittore, le sue parole sono scolpite”

Machiavelli: “Un genio romano, che conosce gli uomini veri non quelli di plastica. È un autore grande e per questo bistrattato e in fondo mal conosciuto… è stato l’autore più grande dopo Dante, forse più grande di Manzoni”

Alessandro Manzoni: “Sono un poema moderno, l’unico che conosca in questo senso. Tutta la nostra letteratura contemporanea vi è debitrice… sono il grande poema della liberazione, della Risurrezione”

Herman Melville: Moby Dick è un poema sacro… esercita un’attrazione straordinaria a rileggerlo”

Lev Tolstoj: “C’è davvero qualcosa di grande in lui e ho sempre voglia di rileggerlo. Sento come un richiamo irresistibile a rileggerlo, una vera coazione, ha una forza attrattiva unica perché racconta lo spettacolo della vita, c’è tutto, la sua miseria, la sua grandezza, la perfidia, tutti i nostri difetti, ma anche le nostre virtù”

Boris Pasternak: “In lui trovo comprensione, tenerezza, pietà. Questi tre sentimenti sono molto accentuati, sono vivi, ci parlano continuamente”

Pinocchio: “Più che un libro da rileggere, è un’opera che pervade il nostro immaginario. Tutti i giovani sono stati Pinocchio. È il nostro destino. Collodi è un grande perché ha saputo cogliere questo aspetto che caratterizza tutti”

Dino Campana: “Mi ha conquistato per la sua follia. E per l’incomprensione da cui fu circondato. E la sua solitudine”

Curzio Malaparte: “È un artista, un grande del ’900, il suo capolavoro resta La pelle, in particolare l’allocuzione del comandante Malaparte ai soldati alleati dell’America. tutto l’episodio è un capolavoro”

*In copertina: una immagine di “Moby Dick” di Ferenc Pinter

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