20 Ottobre 2023

Breve invito alla fantascienza umanistica di Clifford D. Simak

Clifford Donald Simak (1904-1988), giornalista e scrittore, è stato uno degli autori che solitamente vengono considerati padri (o padrini) della fantascienza americana e mondiale; gli altri nomi che comunemente accompagnavano il suo erano quelli di Edmond Hamilton, John W. Campbell, Isaac Asimov, magari Jack Williamson, ma è proprio con Simak che la fantascienza americana incomincia già negli anni ’40 a presentare il suo volto meno ideologico, aggressivo e ingenuo; costruendo, senza la canonica infatuazione di scienza e tecnologia, le fondamenta di una riflessione non più imperniata solamente su ciò che attende l’uomo in un futuro più o meno lontano, ma bensì su quanto l’uomo si porta sulle spalle mentre postula un futuro possibile con lo sguardo proiettato in avanti ma attraverso il diaframma del presente. Quasi tutta la produzione di Simak, infatti, offre uno slittamento dell’ottica più marcatamente fantastica “verso moduli e toni più intimisti, tralasciando avventure e avvenimenti «troppo» meravigliosi e di facile effetto, e i motori fisici esterni per dedicarsi ai singoli individui e alle loro intime reazioni ad una proposta di alienità” (G. Montanari); nonché al loro interrogarsi su temi di carattere filosofico-esistenziale, che al di là delle circostanze e delle ambientazioni più o meno avveniristiche, restano topoi universali, e, solo a ragione del loro contesto “dislocato” rispetto alle limitate possibilità del contemporaneo, offrono caleidoscopiche angolazioni di sguardi che interpellano dal futuro un presente passato e un passato presente.

Se Simak ha sempre eluso le trattazioni narrative a carattere strettamente scientifico tipiche della hard SF,questo non significa comunque che l’autore abbia sempre voluto schivare in assoluto tutti i paradigmi della fantascienza etichettata Modello Anni ’40 e ’50; basterebbe ricordare che a lui dobbiamo una sapida, spesso malinconica, serie di racconti dedicati all’esplorazione di pianeti sconosciuti (con immancabile capovolgimento finale), e romanzi come “L’anello intorno al sole” (1952), una geniale variazione sul detto tema, che prende le pieghe di un’avventura rifinitamente eclettica, visionaria e concitata, ricca di snodi inattesi e dove l’autore delinea tematiche già apparse nel suo splendido “City” del 1952 (geniale romanzo in cui la vicenda umana diviene leggenda ed è tramandata oralmente, in chiave mitologica, da una evoluta specie canina), offrendone però altri esiti e sviluppi.

Nel libro i mutanti, una sorta di salto nell’evoluzione dell’homo sapiens, sono in grado di passare in “altre” Terre, che distano dall’originale soltanto pochi “secondi” e dal quale differiscono solo per l’assenza della civiltà umana. Questi soggetti intendono portare al collasso la società terrestre come la si conosce, inserendo sul mercato prodotti avanzatissimi, inconsumabili, massimamente efficienti e senza necessità di essere sostituiti, a bassissimi prezzi, in modo da far crollare l’equilibrio e gli assetti dell’intero pianeta, e cominciando a trasferire i più poveri, i disadattati di questo mondo nelle nuove terre. Non aggiungiamo altro per non guastare il gusto di leggerlo.

Nella produzione di Simak non mancano poi gli alieni, come si evince in diversi racconti inclusi in “Sette ombre azzurre” (1977): Scaramuccia, Le bambinaie (qui ciò che sembra più che desiderabile e apparentemente perfetto assume il volto della più inquietante delle minacce), Buona notte, signor James (dal finale memorabile e forse il migliore di tutta la raccolta),e La cosa nella pietra; e non mancano  i robot (Tutte le trappole della Terra)… Ma proprio in questi casi, che sembrano costituire un solido punto di contatto con la produzione coerente al mercato di allora, Simak abbandona completamente l’uso stereotipo degli spunti per inaugurare un filone davvero distintivo e unico: queste creature (in tempi di produzione letteraria pregressi ad altri autori che raccoglieranno poi il testimone di questo seminale autore) sono l’occasione nodale per riflettere sul tema dell’identità e sui prolegomeni del suo porsi come problema e interrogativo inerente, su scala universale, il rapporto tra soggetti eterogenei su metri etici non scontati e “autisticamente” autocentrati (in termini relativisti, per intenderci). Cosa avviene, per esempio, se delle creature artificiali, ma omologhe della fisionomia fisica e di pensiero degli uomini stessi, da meri oggetti divengono soggetti con criterio, contezza di sé, e una loro peculiare forma di sentimento e progettualità? Hanno essi statuto di individui o non sono piuttosto il prodotto “deciduo” di un’umanità che trascende costantemente i propri limiti di operatività e consumo, di sfruttamento dell’esistente in termini di mezzo per ottenere fini, sì, leciti e auspicabili, ma facendo leva su protocolli, comportamenti e luoghi comuni che annientano la possibilità stessa di un confronto empatico e eticamente omotetico con costoro?

Il tema stesso del progresso non viene affrontato secondo un’ottica “scientista” e celebrativa di esso a prescindere dagli interrogativi etici e pratico-esistenziali che dovrebbe sempre porre, e soprattutto senza il vessillo di un antropocentrismo spesso folle e autodistruttivo proprio quando lanciato verso ciò che è concepito come avanzamento.

Ora, se un certo tipo di fantascienza abituava a distopie che erano la caricatura negativa di un presente che ha in germe soluzioni tecniche, sociali e politiche appena sbozzate ma tali da lasciar presagire un cammino involutivo anziché di reale progresso, Simak rivela un’impronta più squisitamente umanistica che lo conduce a traslare interrogativi annosi della storia del pensiero umano, in contesti in cui non possono avere il loro statuto e profilo classico, e in cui pongono domande inedite nell’assetto di schemi evolutivi eterocliti almeno quanto capziosi. Già negli anni in cui l’autore produceva il suo meglio, si andava delineando una pratica (autofaga?) di sfruttamento della natura e delle sue risorse, un’evoluzione del concetto di coscienza in relazione all’ambito etico-pratico, che lo portavano a diffidare di ciò che sembrava ruggente, nuovo e vantaggioso (o inteso razionale in quanto desiderabile e conveniente). In questo quadro i dettagli tecnici non sono omocentrici di un discorso squisitamente scientifico, ma il pretesto per mettere in gioco altro che ha per baricentro la natura dell’uomo e le sue risorse, la sua peculiare risposta a ambiti esperienziali avversi o problematici, di natura incognita e controversa.

Lo stesso “pensiero magico”, acquista in Simak l’aspetto di qualcosa che, nel tracciato evolutivo dell’animale uomo, è stato soppiantato dalla scienza e dal pensiero positivo, ma avrebbe potuto benissimo avere, se conservato e sviluppato, e alimentato dal genio umano, un suo legittimo posto come tipologia di risposta a questioni pratico-evolutive di primissimo ordine: non è, insomma, mera superstizione come sembrerebbe dettare, appunto, il discorso scientifico.

Da ricordare è anche il perno tematico di “Infinito” (1967), che verte sul tema della sovrappopolazione e di una salvaguardia della vita oltre i suoi naturali confini: sorta di futuro eden terreno che alimenta un’operosità generalizzata, la conformità a leggi di salvaguardia della vita, la diminuzione drastica degli omicidi (puniti decretando per ogni reo la mortalità definitiva), il tutto secondo l’osservanza di una sorta di religione secolarizzata che fa dell’esistenza “prima” un ponte per qualcosa di massimamente desiderabile e di là dal venire.

Se la storia ha avuto il corso conosciuto, sembra suggerire Simak, esso non è il solo o il migliore possibile, ma semplicemente quello che ha dominato anche per ragioni evenemenziali, storiche e antropologiche. Se sopravvivere è l’impulso vitale più atavico e le declinazioni etiche e fattuali di questo impulso primario sono diverse per ogni epoca, l’opera di Simak diviene un laboratorio in cui questo nocciolo dell’identità umana è problematico e soggetto trasformazioni plastiche su una scala che esorbita il possibile così come concepito dalla nostra società e dal nostro pensiero ancora prima che da condizioni future o futuribili. Il relativismo culturale e antropologico e gli interrogativi, come detto, di stampo filosofico sono sempre presenti in questo autore straordinario e dallo stile segnatamente evocativo, sempre garbato, e non “delirante” come in altri contesti, o legato alla preponderanza, da banda opposta, del discorso tecnico-scientifico.

La fantascienza di Simak è popolata di personaggi che si trovano drammaticamente, ma anche romanticamente, al limite delle proprie facoltà di comprensione e azione sul terreno sdrucciolo di ambiti inediti, che chiamano a un cambio secco di visuale e di strumenti su cui far leva per interpretarli e dar forma a soluzioni presso i problemi, gli ostacoli, e i profondi interrogativi che innescano: ambiti, insomma, necessitanti di una nuova ermeneutica e di una postura conoscitiva fuori dagli standard dominanti.

Quasi mai, poi, gli alieni si presentano nelle sue pagine come semplicistiche e malvagie controparti dell’uomo; e mai gli automi, i robot, sono visti come un pericolo per l’esistenza dei loro creatori. Essi rappresentano, invece, come lo stesso Simak dichiara più volte, una specie di versione più equilibrata dell’uomo, i simboli e i paradigmi di una indefessa ricerca di coesistenza pacifica che raramente l’animale uomo è in grado di porre in atto sul suo mondo. In proposito, Simak esprime spesso a chiare note la sua spiccata avversione per ogni genere di violenza e manifesta ancor più chiaramente la sua delusione per la continua follia antropocentrica, egoista, machiavellica, di tanti suoi simili; anche in un racconto apparentemente crudele come Buona notte, signor James è facile notare come la violenza che trasuda il protagonista (duplicato e non) finisca con il rivolgersi contro se stesso, trasformandolo da carnefice in vittima di un gioco delle parti che non perdona.

Fra le altre sfumature costanti nella sua produzione spiccano poi il profondo amore, questo neoromantico, per la natura incontaminata che spesso circonda i suoi personaggi e ne diviene specchio, trovando essi stessi, in grembo suo, una sintonia ineffabilmente epifanica del loro Sé; questo, assieme alla ferma convinzione che i perdenti meritino più attenzione dei vincitori. Ma Simak ama gli sconfitti di una certa tipologia: persone introverse, sensibili, volutamente o meno a margine, e quasi antiche, che sovente rinunciano alla lotta ferina per il successo preferendo uno spontaneo esilio in un contesto rurale e meno inquinato da quelli che sono visti come mali intrinsecamente moderni. Nelle sue opere si ritrova poi la frequente eco giovanile del suo stato natale, quel Wisconsin del sud-ovest cosparso alla rinfusa di strane colline e gole profonde. E questo assieme al vagheggiamento di riti, miti e forme di pensiero forse ormai dimenticate ma che in un passato meno frenetico e “suicida” (qui l’evoluzione è involuzione e la coscienza, spesso, uno strumento spuntato che deve essere integrato o sostituito da nuove percezioni, sfere sensive ora “anchilosate”, o da un “magico” atavico e divenuto larvale, ma anche dalla futuribile, auspicabile reviviscenza) erano ancora modelli di una vita sana, non così rapace, dissociata e al fondo reificata; una vita, infine, in cui la conflittualità, se esisteva, non subiva una curvatura temibile, maltorta, verso i soggetti stessi che la esprimevano e intensificavano.

Scrive ancora Gianni Montanari:

“Ci si accorge allora che Simak, sia pure con i crismi di una fantascienza ortodossa, è anche e soprattutto un cantore di ombre, di ricordi e sensazioni che oltre il velo biografico affondano dietro le spalle dei suoi personaggi in un’infanzia trascorsa a stretto contatto con una natura libera e con fantasie non ancora avvelenate dalle esigenze di un’età adulta e ricca di compromessi nauseanti, e il tema del rimpianto sembra auspicare il ritorno di una mitica terra di frontiera non già intesa come una meta di conquiste, ma bensì come un traguardo ideale con il quale convivere pacificamente”.

Per tornare, dopo questo quadro generale, alle sette storie raccolte in “Sette ombre azzurre”, esse sono un buon campione, entro la forma-racconto, del miglior Simak, e invitiamo tutti voi a scoprirle e apprezzarle. Furono selezionate dall’autore stesso e rimangono delle vere perle che splendono e per stile e per temi e andamento drammatico. La prosa di Simak è ricca ma misurata, si determina plasticamente attorno alle diverse esigenze narrative e conduce il lettore nella dimensione crepuscolare e limbica del dubbio, sia sull’identità, sulle priorità e sugli orizzonti dei suoi personaggi, sia su questi stessi elementi in seno alla vita di ognuno di noi.

Massimo Triolo

Gruppo MAGOG