I poeti, penso, come i monaci, quelli veri, ringiovaniscono invecchiando. I monaci stanno nel ventre della cella e la liturgia dora il loro volto; i poeti, quelli veri, fanno del mondo il loro chiostro e i versi scoscendono incredibilmente esatti, appropriati, atemporali. Giampiero Neri compie oggi, 7 aprile, 92 anni, e sarebbe facile dire del ‘grande vecchio’ della poesia italiana. Di fatto, è il grande giovane: lo si capisce da queste prose liriche – dove ‘lirico’ va inteso come disadorno, nudo, privo di funzione romanzesca – scritte con nitidezza da primo giorno del mondo, pensate, forse, per gli uomini dell’ultimo giorno. “Il suo percorso… si può dire singolarmente estraneo, autonomo, nobilmente sfasato rispetto alla vicenda poetica della sua generazione”, scriveva Maurizio Cucchi, era il 1996, cercando di centrare questo anomalo tra i Poeti italiani del secondo Novecento. Proprio così. Sfasato e nobile sono aggettivi che si addicono a Neri – e mai pseudonimo fu più luminoso. Esordio tardivo – a quasi cinquant’anni, con L’aspetto occidentale del vestito – per una scrittura via via sempre più concreta e costante – l’ultimo libro, Via provinciale, è edito da Garzanti nel 2017 – Neri si distingue per letture anticonformiste (ama gli avventurieri e gli avventati, Fenoglio e Milarepa, Lao Tzu e Melville…) e per una visione epica dell’esistere (“In Italia, la poesia è piegata su se stessa. Si indaga l’io… Beh, io non condivido questa tendenza. La poesia comincia con l’Iliade, con la narrazione di una guerra, di un avvenimento. Il poeta non deve guardare dentro di sé, ma oltre se stesso, in avanti, diceva Boris Pasternak, un autore che amo molto”, mi disse, in una intervista pubblicata su questo foglio digitale). In un pensiero partecipe pubblicato su Doppiozero Umberto Fiori ravvisò nella modestia, nella spiazzante ironia uno dei caratteri della maestria di Neri: “Schivo e appartato, Giampiero Neri ha lavorato per anni senza mai far nulla per mettersi in vista, ma la sua opera ha influenzato quella di molti autori della generazione successiva, e si è guadagnata un solido credito presso i lettori più avvertiti. Qualcuno lo ha definito ‘un maestro in ombra’. La sua modestia è davvero cosa rara nell’ambiente letterario. ‘Sai, uno mi dà dieci, e un altro mi dà zero’: così, con divertito disincanto, reagì una volta – durante le nostre passeggiate – alle mie smodate parole di ammirazione”. Un profilo importante su questo poeta decisivo nonostante le sue ritrosie è nel volume di Alessandro Rivali, Giampiero Neri. Un maestro in ombra (Jaca Book, 2013). Nelle prose di Neri, illuminazioni lucide come scaglie d’acqua, è il nuovo scatto di un’opera che dilaga. Il frammento che ricama sulla solitudine di Gesù ragazzo è esemplare come una rivelazione in neve. Il poeta, d’altronde, è questo vento pieno di fili elettrici che si posa sulle cose, passa, con la sapienza di chi contiene fatto e rimpianto. (d.b.)
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Nel preistorico mondo degli insetti le forme sono a volte sorprendenti per la loro apparente bizzarria, come una decorativa sopravvivenza del passato.
Ma se ne studiamo i comportamenti ci rendiamo conto che ogni particolare del loro aspetto corrisponde a una necessità e che niente è inutile.
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Tra i vari coleotteri che vivono nei nostri boschi, il più grande e singolare è il cervo volante, così chiamato per le potenti mandibole fuori dall’ordinario, che richiamano le corna di un cervo.
Non è facile incontrarlo, e le sue abitudini sono notturne.
Quella volta era appunto di sera, sul finire dell’estate.
La nostra era una piccola compagnia, tre o quattro ragazzi e ragazze e uno, di maggiore età.
Nella radura del bosco abbiamo visto qualcosa volare in modo goffo, pesante.
L’abbiamo rincorso gridando, sembrava possibile abbatterlo.
Era il cervo volante.
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Lavoravo allora alla Banca Commerciale, quando mi era stato assegnato un aiuto. Un giovane poco più che ventenne, piuttosto piccolo di statura, ma vivacissimo di intelligenza e d’eloquenza.
Il sodalizio non era durato molto, nel frattempo avevo cambiato banca.
Con tutto il tempo passato, molti anni, non mi ero dimenticato di lui e un giorno sono ritornato nella stessa banca e ho chiesto di vederlo.
Mi hanno fatto accomodare in parlatorio e finalmente il mio amico è arrivato. Era diventato pingue e mi aveva salutato appena. Sembrava parlare con fatica, immerso nelle cose sue.
“Ma allora” gli ho detto “quella fiamma che si vedeva nei tuoi occhi si è spenta?”
“Si è spenta” mi ha risposto.
Era finito così il nostro colloquio.
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Il quadro, forse proveniente dalla collezione Monti, è in una stanza con altri due o tre, nei meandri dell’arcivescovado.
È un quadro antico e rappresenta Gesù ragazzo, a tavola, che ha davanti un calice di vino.
Il padre lo indica al figlio con un gesto impetuoso della mano.
Bere vino è abitudine di uomini e Gesù dovrà andare fra gli uomini.
La sua espressione, nel viso soave, è seria, consapevole del rito di iniziazione.
Questa è la sua prima cena.
La madre è sola e osserva, attenta. Anche Gesù è solo.
Tutto il quadro è pervaso dal sentimento di quello che verrà.
Giampiero Neri
*In copertina: Giampiero Neri in un ritratto fotografico di Dino Ignani