“Ti cerco dietro il buio degli occhi”. Il mistero del padre: una lettera a Silvio Perrella
Poesia
Vincenzo Gambardella
In principio fu il verbo. Anzi. In principio fu un verso. Me lo dettaglia. “Cosa è stato di quei piccoli segni, neri, immagine e somiglianza di un impegno continuo?”. Questo è un verso. Lunghissimo. Eccessivamente. In effetti, il tizio che stiamo intervistando è eccessivo. Attacca con il secondo verso. “In una stretta compagnia dimorano, a forma di malinconici simboli, privi di vita”. Bello. Enigmatico. Plumbeo. Epigrafico. I versi – le stringhe liriche, meglio – provengono da L’Albergo degli angeli. “Feci leggere quei versi a un mio amico, un certo Andrea Morbioli. Mi disse, ‘formidabile’. Devo dire che quel giudizio mi si è marchiato a fuoco, è stato un incitamento, la conferma che quello che scrivevo aveva un senso. Sa, mia mamma mi ricordava sempre i miei insuccessi scolastici, per lei non potevo essere un poeta, uno scrittore. A scuola non ero bravo, ero un mediocre”. Vita magica e marginale, scolpita nel dolore quella di Giampietro Pontiggia. Padre funzionario di banca e bibliofilo, podestà di un borgo prossimo a Erba, Como, che dopo l’Otto settembre viene freddato da due partigiani. Giampietro, che non pare avere la stoffa del letterato, segue le vie paterne. Lavora in banca per una vita. Non gli piace. Eppure l’ambiente della banca – dove gli uomini confessano le proprie ambizioni e le proprie debolezze – è una specie di liceo platonico. Lì impara a conoscere – da occhi, mani, gesti – la statura e la miseria dell’uomo. Il successo letterario sorride, prepotentemente, al fratello, Giuseppe, il ‘Peppo’. Più giovane di sei anni di Giampietro, Giuseppe Pontiggia – anche lui impiegato di banca – conosce Elio Vittorini, diventa consulente editoriale per Adelphi e Mondadori, pubblica alcuni romanzi (L’arte della fuga, La grande sera, Vite di uomini non illustri, Nati due volte) che lo incoronano, con stuolo di premi – dal Campiello allo Strega – tra i massimi narratori degli ultimi quarant’anni. Dietro il suo successo pare ci siano i consigli di scrittura del fratello più grande, Giampietro, severo. “Sa, mio fratello prima di pubblicare romanzi, scriveva poesie. Sono stato molto critico con lui. Il ‘Peppo’ era lirico, io narrativo. Devo dire che una certa sintonia l’ho avuta con Giancarlo Majorino, un ottimo poeta”. Ad ogni modo, per anni Giampietro Pontiggia preferisce l’ombra. Pubblica qualcosa su Il Corpo, la rivista diretta, appunto, da Majorino e poco altro. Voleva diventare chitarrista, Giampietro. “Finché il maestro non mi ha detto, ‘lasci perdere, non farà mai il chitarrista di professione’. Allora ho mollato tutto. Ho venduto la chitarra. Sono rimasto solo con la poesia”. La sterzata nel 1976. Giampietro ha quasi 50 anni. “Un giorno mi telefona Giovanni Raboni. Mi invita a cena. Accetto. Mi propone di pubblicare per Guanda. Non avevo un lavoro finito, a mio giudizio. Ma lui insisteva. Sa, io sono uno che crede nella Provvidenza. Non avevo intenzione di pubblicare nulla, ma a quel punto…”. Nel 1976, con L’aspetto occidentale del vestito, muore Giampietro Pontiggia e nasce Giampiero Neri (nella fotografia di Dino Ignani), poeta anomalo, inafferrabile e forse inafferrato, che è arrivato ai 90 anni. Milano lo festeggia, specie di decano e di totem della poesia italiana, in due momenti. Il primo accade martedì 24 ottobre, ore 21, al Centro Culturale di Milano: Alessandro Rivali e Laura Piazza hanno ‘teatralizzato’ il libro esegetico dedicato a Neri, Un maestro in ombra (Jaca Book, 2013). Il secondo è una “giornata di studi” presso l’Università Cattolica di Milano, mercoledì 25 ottobre, dalle 9.30: intorno a Neri, “autore di prima grandezza nel panorama nazionale” è allestito un convegno con tutti i crismi dove parleranno, tra gli altri, Paolo Zublena, Roberto Cicala, Giuseppe Langella, Davide Savio, Roberto Deidier. Il protagonista, Neri, che a me fa l’effetto di un sano stoico che ha voglia di indagare le muraglie della Gerusalemme celeste, un uomo senza tempo, senza nulla da perdere, risolto, sorride di fronte a tanta attenzione verso la sua opera (oltre a Teatro naturale, Armi e mestieri, Il Professor Fumagalli e altre figure, ricordiamo l’Oscar Mondadori che ne raduna le Poesie, pubblicato nel 2007; una antologia di suoi testi è tradotta nel 2010 a New York), “sono un uomo fortunato”. Per i 90 anni si è regalato un nuovo libro, Via provinciale (Garzanti, 2017). E ne sta scrivendo un altro. “Continuo a costeggiare avvenimenti che ho vissuto. Il libro si chiamerà Piano d’erba, come il mio paese, Piano d’Erba, ma senza la maiuscola”. La vecchiaia corrobora la creatività di un uomo dalle letture molteplici, atipiche, che “nella scrittura cerco sempre l’uomo, credo che ci sia una coincidenza tra l’opera e chi la ha scritta”. Ora, da “cattivo praticante, pieno di peccati” Neri torna nell’alveo dei Vangeli: “il primo miracolo, secondo me, è proprio la scrittura, quella brezza leggera che soffia nei Vangeli”. Senta, dall’Everest dei suoi 90 anni, come vede la poesia italiana oggi? “In Italia, la poesia è piegata su se stessa. Si indaga l’io… Beh, io non condivido questa tendenza. La poesia comincia con l’Iliade, con la narrazione di una guerra, di un avvenimento. Il poeta non deve guardare dentro di sé, ma oltre se stesso, in avanti, diceva Boris Pasternak, un autore che amo molto”. Già. Ma come si fa a tradurre i meri avvenimenti quotidiani in carne poetica? Neri ha un segreto. Purissimo. Cristallino. “Penso… vede… io ho un carattere portato all’entusiasmo. Sono sempre stato così. Sono un entusiasta”. Si è poeti solo se si è predati dall’entusiasmo. Tanti auguri, poeta. “A 90 anni… ho di gran lunga più difetti che pregi. Ma potrei anche correggermi…”. Micidiale. Epico.
Federico Scardanelli