Pressoché nessuno ha potuto evitare il gemellaggio tra la poesia di Alessandro Ceni e quella di Dylan Thomas. Ne dissero ai primordi – era il 1980, era il ciclo, I fiumi di acqua viva, raccolto in “Poesia Uno”, Guanda, opera di Raboni-Cucchi –, ne disse Piero Bigongiari, primo maestro di Ceni – “Ciò mi ricorda in partenza un’operazione poetica basilare nei nostri anni quale è stata quella, in area inglese, di Dylan Thomas…” –, nell’Introduzione a un giovane poeta che sta a capo de Il pieno e il vuoto (Maros y Marcos, 1996). Al “modello di Dylan Thomas” accennano Stefano Guglielmin e Roberta Bertozzi (in: Alessandro Ceni, Parlare chiuso. Tuttelepoesie, puntoacapo, 2012); perfino Roberto Carifi, che pure centrava il suo pensare valicando Ceni (La natura, l’animale, il regno, nel già citato Il pieno e il vuoto) su Franz Kafka, su Georg Trakl e sugli “scenari degni di Ridley Scott, con la presenza straordinaria di creature replicanti e aliene”, non poteva non cadere nel magistero di DT (“Nell’umano trasformato in natura si realizza la possibilità della salvezza, di un regno in cui la morte, direbbe Dylan Thomas, ‘non avrà più dominio’”).
Pare quasi una trappola, un ghetto, la cospicua taglia sul ceffo di Ceni, questa assolutoria referenza di Dylan Thomas. Semplicemente, sfuggendo ai canonici ingorghi della poesia italiana recente – sperimentalismo; orfismo; mitomodernismo; anti-lirismo; anti-novecentismo; grigiore aggettivale; neolingua ammantata con qualche gittata d’aggettivi – si è trovato il modo di arginare l’opera di Ceni. Eccolo, è come Dylan Thomas. Come a dire: non abbiamo altri strumenti per comprendere, facciamo il gioco delle anodine analogie.
In realtà, già Daniele Piccini, il più fedele e acuto dei lettori di Ceni (in: Daniele Piccini, La poesia italiana dal 1960 a oggi, Bur, 2005), segnalava come il coriaceo legame con DT non fosse che embrionale, appena in bocciolo. Gli esiti lirici di Ceni, in effetti, sono del tutto diversi da quelli di DT, se non opposti. Così, facendo un collage, scriveva Piccini:
“In Dylan Thomas prevale una sorta di rabdomantica felicità dell’io poetante, che connette e riconnette all’infinito le immagini possibili del cosmo, in una vitalità superba e tuttavia tale da non oscurare il punto di irradiazione, che resta la mente immaginosa e visionaria del poeta; in Ceni si assiste piuttosto a un crudo e sordo rituale di scomparsa, a un’eclisse proprio, in cui l’io, come notava Pagnanelli, è fatto regredire al livello delle cose e dissolto nel loro ciclo indefinito, cangiante e inarrestabile… Il risultato è appunto una sacralità livida e lunare, sempre più lontana dall’iniziale sgorgo immaginifico alla Dylan Thomas”.
Forse per questa tirannica prossimità, Ceni, strepitoso traduttore dalla lingua inglese, ha preferito non intaccare DT, lasciandoselo lì, preda grave di gloria, a sforbiciare nella selva. Ceni, come si sa, ha voltato in italiano Coleridge e Poe, John Milton e Walt Whitman, Stevenson e Conrad e Melville e Dickens e Joyce… ma niente Dylan Thomas. D’altronde, come puoi tradurre ciò che hai conficcato nel sartiame delle viscere da sempre?
Incrociato in terra toscana, tra verbi fuggiaschi, cene interrotte, ininterrotta amicizia e un dio in tasca – diverso, il nostro; il suo, mi pare, ha la sagoma di Zanna bianca – Ceni mi mostra la sua edizione delle Poesie di Dylan Thomas. È l’Oscar Mondadori del 1970, René Magritte in copertina – La grande famille: colomba colosso, in silhouette di nubi, impennata sopra l’oceano – versioni di Ariodante Marianni, “quelle che preferisco”. La possiede da quando ha quindici anni, mi mostra la firma, senza incertezze. Per parentela lirica e fermento d’affetto, Ceni è legato alle rare traduzioni di Bigongiari.
Ora: dobbiamo impastare due notizie. La prima. La primavera prossima Crocetti pubblicherà l’opera intera – scarna, ridotta al petroglifo, a una lirica raffinata al fuoco fino a farsi purezza – di Ceni. Poi. Per Feltrinelli uscirà un Dylan Thomas secondo Alessandro Ceni. Se ne parla – a libro compiuto – tra un paio d’anni. A testimonianza del cantiere, Ceni mi concede la sua traduzione da Especially when the October wind. Siamo nella piena pena d’ebbrezza di DT: il poeta ha diciotto anni quando scrive Especially…, la poesia viene pubblicata prima su “The Listener”, il 24 ottobre del 1934, è poi accolta in 18 Poems (1934) e nei Collected Poems (1952). DT, Dioniso gallese, autunnale istrione, amava ottobre, il suo mese natale (era nato il 27): per i suoi trent’anni, nel 1944, scrive Poem in October, poi installato in Deaths and Entraces (1946).
Di Especially when the October wind esistono in Italia diverse versioni: tra le canoniche conto quella di Marianni, di Roberto Sanesi, di Alfredo Giuliani e di Bigongiari. Ceni opera da par suo, fin dal titolo (Soprattutto quando d’ottobre il vento, in vece del più comune Specialmente se il vento d’ottobre); fa fiammeggiare il già dardeggiante grido di Dylan Thomas (“udendo chiassare gli uccelli”; per Giuliani: “udendo vocìo d’uccelli”); e dove può inventa. The wordy shapes of women diventa così un formidabile “le parolanti sagome delle donne” (Bigongiari: “Parlanti figure di donne”; Sanesi: “Forme verbose di donne”), mentre star-gestured si sfa, ben impresso vasellame di detti, quasi calco, in “stellato gesticolìo” (“dai gesti stellari” fa Sanesi, un poco fantascientifico; “han gesti di stella” rende Bigongiari come quasi tutti gli altri).
Ma queste sono osservazioni superficiali – che prolungheranno altri, con più attenti binocoli. Più di tutto, affascina il ritmo imposto da Ceni alla poesia di DT. Versi di lava che recano nitidezze boreali; il tonante ritmo di una liturgia, di una kamlanie, l’ossessivo rito degli sciamani oltre l’Artico del cuore, tra bolidi betulle. Intendo, soprattutto, il rombo musicale impresso da quel “Un poco lascia che io ti faccia” – che è poi mero: Some let me make you… – tradotto da tutti con grezza grazia e scarsità d’effetto fonico (Marianni: “Fatevi farvene”; Giuliani: “Lasciami fare per te”; Sanesi: “Lasciate che io”). La poesia di DT nella versione di Ceni, così, non si legge perché è bella – a imbonire i lenti rigori d’ottobre – ma perché obbliga al moto; va letta a voce alta, a mo’ di invocazione, di boschivo salterio.
È qui che si coglie – nel ritmo, nello stare al patto del suono – il legame, coagulato lignaggio, tra Ceni e DT: in questo caso, però, a condurre la danza è Alessandro il Mago; Dylan adatta i garretti. Ballo di rapaci diremmo questo intreccio.
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Soprattutto quando d’ottobre il vento
Soprattutto quando d’ottobre il vento
Con agghiacciate dita castiga i miei capelli,
Acciuffato dalla rete aggranchiante del sole cammino sul fuoco
E getto un granchio d’ombra sul terreno,
Di fianco al mare, udendo chiassare gli uccelli,
Udendo il corvo tossire dentro stecchi invernali,
Il mio cuore ingorgato che freme quando lei discorre
Sparge sillabico sangue e prosciuga le sue parole.
Serrato, anche, in una torre di parole, io marco
Sull’orizzonte in cammino come alberi
Le parolanti sagome delle donne, e le file
Dello stellato gesticolìo dei bimbi nel parco.
Un poco lascia che io ti faccia di vocalici faggi,
Un poco di voci di quercia, dalle radici
Di più d’una spinosa contea dirti note,
Un poco lascia che io ti faccia di favellante acqua.
Dietro un boccale di felci scodinzolando la pendola
Mi dice la parola dell’ora, il neurale significato
Vola sul disco saettato, declama il mattino
E dice nella banderuola tempo ventoso.
Un poco lascia che io ti faccia di segni prativi:
La segnalata erba che mi dice tutto ciò che so
Irrompe col verminoso inverno attraverso l’occhio.
Un poco lascia che io ti dica i peccati del corvo.
Soprattutto quando d’ottobre il vento
(Un poco lascia che io ti faccia d’incanti autunnali,
Il linguacciuto ragno e il fragoroso colle del Galles)
Con pugni di rape castiga il terreno,
Un poco lascia che io ti faccia di parole senza cuore.
È prosciugato il cuore che, compitando nella folata
Di chimico sangue, ammonì dell’arrivo della furia.
Di fianco al mare s’ode il vocalico buio degli uccelli.
Dylan Thomas
Traduzione di Alessandro Ceni