12 Novembre 2018

“Sono contro il pensiero unico globalista, un vero e proprio impazzimento generale”: Adriano Scianca parla con Matteo Fais de “La nazione fatidica”

È noto che, di questi tempi, dichiarare il proprio amore per la Patria comporta l’essere condotti immediatamente di fronte al tribunale della Santa Inquisizione Radical. Per bene che ti possa andare, sei costretto a portare addosso l’etichetta di “fascista” a vita – certo non sarà come finire al rogo, se non in senso figurato e sociale, ma non è comunque piacevole. Non che la cosa turbi più di tanto Adriano Scianca. Come Direttore di “Il Primato Nazionale” è già abbastanza rotto a insulti e contumelie varie.

Qui a Pangea, delle facili categorizzazioni e delle scempiaggini stile fascistometro, non ce ne frega niente. Piuttosto, ci ha deliziati la sfrontatezza di questa sua virilissima dichiarazione d’amore e quello spirito così politicamente scorretto che anima La nazione fatidica. Elogio politico e metafisico dell’Italia, Altaforte Edizioni 2018. Il testo spazia, come si intuisce facilmente dal sottotitolo, secondo un percorso che non disdegna neppure il rovesciamento di ogni accademica assunzione già data rispetto alla nostra letteratura, riportando però sempre tutto alla dimensione politica – e come potrebbe essere altrimenti, visto che tutto è politico. Scianca si adopera per costruire una contronarrazione della realtà nazionale antitetica a quella dominante, sfidando tutti i luoghi comuni, e lo fa con una prosa epica e bellicosa, trascinante. Tra i vari testi dei soliti Murgia e Saviano, sempre così contro da non costituire mai un reale pericolo per il potere, La nazione fatidica spicca come la sola arma veramente affilata, abbandonata in un angolo nell’attesa di trovare il guerriero più adatto a raccoglierla.

SciancaAndriano, tu hai scritto niente meno che La nazione fatidica. Insomma, di questi tempi, come ti viene in mente di esprimere amore per il tuo Paese?

Proprio di questi tempi, in realtà, vi sarebbe un gran bisogno di dimostrarlo. Invece, anche la ricorrenza del centenario della vittoria nella Grande Guerra, che in tutti gli altri paesi hanno salutato come un momento di unità nazionale, qui da noi è stata vista quasi con fastidio. Celebrarla come si deve avrebbe voluto dire magnificare la Nazione, l’unità, il sacrificio, la guerra, la morte, tutte cose che oramai abbiamo rimosso dal nostro orizzonte culturale.

Perché bisogna amare la propria Nazione?

Nel libro, a un certo punto, dico che bisogna amarla ma con distanza, cioè senza essere accondiscendenti nei suoi confronti. La questione quindi è ben più complessa di come potrebbe sembrare di primo acchito: non si tratta semplicemente di identificarsi con essa. Dopodiché ognuno è libero di odiarla, se lo ritiene. Non c’è un imperativo categorico a riguardo. Ciò non di meno, ne risultiamo segnati e da essa non ci possiamo astrarre totalmente. L’utopia del cittadino del mondo non funziona, è irrealistica. Tutti noi siamo caratterizzati da una storia che è anche nazionale. Possiamo poi decidere se strutturare a partire da questa eredità una serie di complessi e rimozioni, come viene fatto attualmente, oppure valorizzare ciò che in essa merita.

Scusa, da Direttore di “Il Primato Nazionale”, hai fatto il test propugnato da Michela Murgia, il noto fascistometro? Che risultato hai ottenuto? Il sito di “L’Espresso” è andato in tilt per caso?

 Credo di essere uno dei pochi italiani a non averlo neppure preso in considerazione, anche perché sinceramente pensavo si trattasse di una boutade. Ero certo che la gente ne avesse, per così dire, frainteso il senso sarcastico. Leggendo poi la Murgia, su Facebook, è risultato chiaro che ero il solo a non aver compreso la serietà attribuita alla faccenda. La cosa simpatica è che, anche ottenendo zero nel test, si risulta comunque fascisti in potenza. Insomma, tutti saremmo fascisti in qualche modo. Curioso come la scrittrice non si renda conto che, se tutti sono tali, nessuno lo è in realtà. Stanno creando una sorta di saturazione, gridando continuamente “al lupo, al lupo”, danneggiando in primis sé stessi e la loro battaglia. Non so se ti ricordi la copertina di “L’Espresso” di qualche tempo fa, con un’Italia fatta a forma di svastica e il titolo Nazitalia. Ora, io mi domando: se, per ipotesi, domani il governo impazzisse e decidesse di riproporre veramente – che so – le leggi naziste di Norimberga, “L’Espresso” che copertina farebbe? Che titolo userebbe: “Questa volta il fascismo arriva per davvero”?

Nella prefazione, Giordano sottolinea come uno dei passi salienti del tuo testo sia quello in cui si dice che “al populismo, per paradosso, oggi manca il popolo”. Ci potresti chiarire questo concetto?

In questo caso è facile cadere nell’equivoco. Non intendo dire che manchi il consenso popolare, che chiaramente l’attuale Governo possiede. Il punto è che il populismo tende a fare affidamento sulla gente, un concetto molto diverso da quello di popolo. Quest’ultimo è una comunità con un’origine, una storia, un destino. Il populismo dovrebbe insomma capire che non basta intercettare il disagio – che è reale e che fa bene a interpretare –, quello di chi non arriva alla fine del mese, di chi ha la microcriminalità sotto casa, di chi è oberato dalle tasse. Per arrivare al popolo è, invece, necessario volare un po’ più alto. Per esempio, a me sarebbe piaciuto che questo Governo, per essere davvero del cambiamento, avesse dato un segnale simbolico di sentita adesione all’anniversario della Grande Guerra, cosa che non ha fatto. Evidentemente, c’è ancora da lavorare su questo versante. Bisogna portare il popolo, nel senso forte del termine, culturale direi, dentro il populismo.

Una provocazione, partendo dall’introduzione al tuo testo: gli italiani non esistono, come sostiene qualcuno, oppure non devono esistere?

Che non esistano viene spacciato come un fatto. In verità, a mio avviso, chi dice questo pensa che gli italiani non debbano esistere e, anziché un dato, esprime un programma, il proprio programma metapolitico, quello di farci scomparire. Pensiamo solo a Mimmo Lucano che in un’intervista ha dichiarato “sogno un’Italia senza più autoctoni”, aderendo di fatto al sogno del fronte globalista, ovvero fare tabula rasa degli italiani.

La Nazione, mi pare di capire, tu auspichi, dovrebbe essere fatidica eppure, come sottolinei, ogni volta che ha provato a dimostrare il suo valore, qualcuno l’ha per così dire rimessa al suo posto. Perché? È davvero tutto dovuto a quella che chiami “l’innata inclinazione al tradimento della nostra classe dirigente”?

No. Esiste certamente un’inclinazione al tradimento della nostra classe dirigente, ma questa necessita di un concorso esterno – lì dove esiste la corruzione c’è sempre, oltre a chi è corrotto, chi corrompe. L’Italia è fatidica non solo per la sua storia, ma anche più prosaicamente per la sua posizione geopolitica nel Mediterraneo, fungendo da cerniera tra il mondo arabo e il mondo europeo, ed è sempre stata vista come tale da tutte le potenze che si sono affacciate sul Mare Nostrum per dettare legge. È evidente che serva prona, assoggettata. Vi è la volontà di mantenerla al rango di nazione di secondo ordine e c’è chi accoglie questi imput esterni per tutta una serie di ragioni…

Uno dei passi che mi ha maggiormente colpito, del tuo libro, è questo: “Bisogna altresì riconoscere che una certa ipocrisia cattolica, se pure può ripugnare a chi abbia il senso di una vigorosa franchezza pagana, rappresenta pur sempre un tentativo di instaurare un ordine etico che concili la Bibbia con il mondo e con la realtà in senso nettamente diverso da quanto proposto dal puritanesimo protestante”. E proseguendo scrivi: “Non stupisce, al contrario, che l’opinione pubblica antitaliana di ogni epoca abbia deplorato la mancata protestantizzazione dell’Italia”. Non posso che concordare: c’è qualcosa di profondamente inquietante nell’impostazione tetragona dei popoli del nord. Ma non stiamo diventando anche noi, per una stolta pulsione esterofila, dei puritani all’americana, o nello stile dei paesi settentrionali?

Il momento di maggiore pressione di questo tipo di cultura protestante, non in senso religioso, ma a livello di mentalità, lo abbiamo avuto qualche anno fa con il Governo Monti. Non parlo unicamente del suo presentarsi con i caratteri del leader nordeuropeo, ma del discorso ideologico, l’idea che ci sia un difetto nella storia italiana che risiede nella mancata riforma protestante. Io sarei più orientato spiritualmente e culturalmente verso quella che definisco la vigorosa franchezza pagana, mentre non sono particolarmente entusiasta dell’ipocrisia cattolica, però trovo che sia un modo per fare spazio alla realtà, un compromesso dignitoso. Infine, la trasgressione, coperta da una patina di rispettabilità, è comunque meglio del mondo a cui ci stiamo avviando attualmente, a questa trasparenza moralistica a tutti i costi. Per esempio, non ha senso accusare un Presidente del Consiglio di doppiezza, perché è un puttaniere e difende la famiglia tradizionale. Lui si batte per un certo ordine sociale e non per un ordine morale. I protestanti vogliono invece quest’ultimo, perché nella loro visione non c’è distinzione tra pubblico e privato.

Ma veniamo ai personaggi letterari che, nel libro, costituiscono dei fari disseminati sul cammino da te tracciato. Prendiamo Leopardi. Tu dici che la scuola l’ha da sempre neutralizzato e depoliticizzato, restituendocene un’immagine distorta. Spiegaci come si è arrivati a questo?

Distorta nel senso che il Leopardi scolastico risulta unicamente uno sfigato gobbo, innamorato e rifiutato, che scrive versi struggenti. Si dipinge così quello che forse è stato il maggiore genio della storia della letteratura italiana ed europea, dopo Dante. In lui c’è molto di più: uno sguardo sulla civiltà e sulla storia che è originalissimo e che quasi mai viene spiegato. Ciò anche perché la scuola italiana è una fabbrica di semicolti, persone che si lamentano degli analfabeti funzionali e poi si limitano a replicare sempre le stesse letture, gli stessi concetti. Se gli parli di Leopardi, il massimo che possono fare è associarlo a Schopenhauer. Il paragone, intendiamoci, sussiste, ma loro credono che la questione sia particolarmente pregnante, quando invece si tratta di una semplice banalità.

Perché, per l’autore dei Canti, “la patria è quindi l’unica illusione virtuosa, una finzione che eleva l’uomo anziché abbrutirlo”?

Cominciamo col dire che lo sfondo filosofico da cui muove Leopardi è molto simile a quello di Nietzsche, una sorta di nichilismo profondo per cui tutto è illusione. Il suo pensiero vorrebbe appunto fare strage delle illusioni, come Nietzsche con la teoria della morte di Dio vorrebbe indurre in noi la presa di coscienza che tutto ciò in cui crediamo è finzione. Nonostante ciò, per il pensatore italiano non si tratta di raggiungere una situazione in cui ci si lascia alle spalle le illusioni per arrivare infine a una visione più realistica. Benché riconosca come fallaci questi inganni, sa bene che sono necessari alla vita umana: esiste un tipo di illusione che è fautrice di virtù ed è quella della Patria. Lui in qualche modo sente che, a partire da essa, noi possiamo accedere alla grandezza, per cui questa si profila come un’illusione benedetta.

Cosa succederebbe, a tuo avviso, se gli studenti di sinistra dovessero scoprire che Leopardi non è un cosmopolita, ma anzi sostiene che “la tendenza dello spirito moderno è di ridurre tutto il mondo a una nazione, e tutte le nazioni a una sola persona”?

Fino al ’45, in realtà, tutti i pensatori, i poeti, i filosofi hanno un elemento irriducibile a quello che oggi chiamiamo “politicamente corretto”. Questo peraltro si è evoluto sino al punto che certe cose che erano corrette vent’anni fa ora non lo sono più. Basti pensare ai Simpson. Non si finisce mai di censurare, insomma. Ma ciò è tanto più vero se vediamo i grandi nomi della letteratura e della filosofia, tutti così distanti da una simile visione (pensiamo anche solo a Platone e Aristotele), tutti orientati in modo così radicalmente diverso rispetto alla follia ideologica della contemporaneità. Ci sarebbe grande stupore quindi se dovessero conoscere il vero Leopardi. Qualche giorno fa è uscita la notizia che, in un libro di testo, si usava Manzoni per propagandare l’euro, dicendo che la folla impazzita descritta dall’autore di I Promessi Sposi sarebbe la stessa che oggi anima i populisti e i sovranisti antieuro. Parliamo della stessa persona per cui l’Italia è “una d’arme, di lingua, d’altare, / di memorie, di sangue e di cor”. Era chiarissimo per Manzoni, così come per Mazzini, che esiste anche una dimensione biologica, che non è razziale nel senso in cui la intendiamo noi oggi dopo il Nazionalsocialismo.

Infatti, anche Manzoni e altri, non sono mica l’ideale per un progressista medio. Gente che parla di vincoli biologici. Ma, insomma, la letteratura italiana, prima dei nostri giorni, è costituzionalmente antiprogressista?

Sì, o meglio, anche il progressismo era qualcosa di diverso a suo tempo. Nel nostro Risorgimento ci sono delle correnti illuministe e liberali, quindi meglio non parlarne come se fosse stato una scuola di mistica fascista. Però, quel tipo di progressismo teneva in debita considerazione tutta una serie di fattori che oggi vengono contestati e processati come la cultura nazionale, la tradizione, il legame che c’è all’interno di un popolo, che venivano dati per scontati.

Adriano, lascia un messaggio al lettore di sinistra – per quanto temo che, al momento, ci abbia già abbandonati. Spiegagli perché dovrebbe leggere il tuo La Nazione Fatidica?

Da autore, dire che qualcuno dovrebbe leggere il tuo libro è sempre un esercizio di narcisismo che non mi piace. Ciascuno legga quello che preferisce. Io posso solo far presente che non ho niente contro la Sinistra. Leggo costantemente autori ascrivibili a quella parte politica – che, peraltro, ha una tradizione assolutamente rispettabile. Vi sono anche una serie di pensatori come Proudhon, per esempio, che possono essere non dico riabilitati, perché nessuno li ha squalificati, ma assunti in un pantheon sovranista. Ho tutto invece contro il pensiero unico globalista e politicamente corretto, che io considero alla stregua di una malattia mentale, un impazzimento generale. Costoro non credo possano trarre giovamento dalla lettura del mio libro, perché sono costituzionalmente incapaci di rivedere le loro posizioni. Le persone di sinistra, se ancora ne esistono al di fuori di questa follia generalizzata, sono i benvenuti. Anzi mi farebbe piacere se leggessero e mi facessero sapere cosa vi hanno scorto.

Matteo Fais

Gruppo MAGOG