31 Gennaio 2023

“L’anima ammutinata al corpo”. I sonetti spirituali di Gabrielle de Coignard

Scopro l’esistenza di Gabrielle de Coignard leggendo The Translations of Seamus Heaney, testo straordinario curato da Marco Sonzogni per la Faber. Vi si raccolgono, appunto, le traduzioni di Heaney, che formano un libro a parte – di quasi settecento pagine –, un nuovo libro in versi, con il carisma dell’originalità. Heaney traduce, arso dall’estro, Virgilio e Giovanni della Croce, Dante e Giovanni Pascoli, Kavafis e Orazio, i bardi irlandesi, il Beowulf e Ana Blandiana… Tra questi testi, ne spicca, per isolamento, uno, finora ignoto: la traduzione di un sonetto di Gabrielle de Coignard, La crainte de la mort incessamment me trouble. Il sonetto, nella traduzione di Heaney, s’intitola Prayer, e attacca così:

“La paura della morte mi turba di continuo;
per chi è agli inferi non c’è redenzione
benché abbia peccato non provo contrizione;
più vado avanti, più avanza la mia agonia”.

Nella nota – articolata, e commossa (pp.532-534) – Sonzogni spiega come Heaney abbia capovolto questo memento mori, come questo cartiglio si sia conficcato nella vita del grande poeta irlandese, che culmina nel noli timere, inviato per messaggio alla moglie, poco prima di morire. In appendice a questo articolo, la poesia che ha catturato Heaney è tradotta secondo l’originale francese.

Benché per lignaggio poetico Gabrielle de Coignard possa essere avvicinata a Louise Labé, a Margherita d’Angoulême, a Anne de Marquets, la sua vita resta nell’oscurità, tra le grate di un inaccessibile pudore. Nata a Tolosa probabilmente nel 1550, di ottima educazione – il padre, Jean de Coignard, era notaio e consigliere del parlamento di Tolosa –, Gabrielle è data in moglie a Pierre de Mansencal, nel dicembre del 1570, avvocato di pregio e alta personalità politica del luogo. Il matrimonio pare sereno, offre a Gabrielle una posizione sociale privilegiata; dall’unione, nascono due figlie, Jeanne e Catherine de Mansencal.

Vedova nel 1573, Gabrielle non si risposerà, trovando ristoro in una devozione privata, che ha per testimone la poesia. Una poesia-inginocchiatoio, una poesia confessionale. La vita di Gabrielle pare tracciata tra le segrete ispirazioni di Marguerite Yourcenar: esistenza nei velami della consuetudine, consumata in una sorta di ispirata veglia, nascosta. Amava, Gabrielle, la poesia di Pierre de Ronsard. Così scrive di lei Alphonse Séché, inserendola in Les Muses françaises, “antologia delle poetesse francesi” allestita per Louis-Michaud nel 1908:

“Profondamente cristiana, profondeva il proprio talento poetico per la religione: l’oggetto principale della sua poesia la glorificazione di Dio nella natura di tutte le cose. Gabrielle de Coignard era modesta: “Non voglio sapere perché si sappia che non so nulla”, diceva. Non attribuiva alcun valore ai suoi versi, che sono stati raccolti e pubblicati dopo la sua morte, nel 1594, dai figli, con il titolo Œuvres chrétiennes de feue dame Gabrielle de Coignard. Lo stile di Gabrielle de Coignard è spesso intriso di autentica nobiltà, si armonizza perfettamente all’ordinaria gravità dei soggetti familiari”.

Le poesie di Gabrielle de Coignard sono passate, per secoli, sottotraccia, come una fonte secondaria della lirica francese. Vivono, forse, ispirate dalla sparizione: non fosse per i figli, nulla sapremmo dei versi di Gabrielle. L’edizione critica delle Œuvres chrétiennes, allestita nel 1995 a Ginevra da Colette H. Winn, ha risvegliato un profondo interesse verso la poesia di Gabrielle, costituita per lo più da sonetti, d’indole petrarchesca. Nel 2004, per la Chicago University Press, Melany E. Gregg ha pubblicato una traduzione degli Spiritual sonnets di questa poetessa devota, anzi tutto, alla propria solitudine. Nei versi – ancora inediti in Italia e di cui qui si propone un florilegio a mo’ di sortilegio – la devozione prende spesso le forme dello stillicidio di sé, di una raffinata sofferenza, dacché “l’anima è ammutinata al corpo/ e entrambi sono infelici”. La contrizione è a tratti prostrazione, la postura dell’orante è quella di chi implora un surplus di vita, la preghiera, a volte, diventa spunto, posa lirica, sopruso verbale. Il rapporto con la letteratura non è competitivo ma comprende la sua abiura, non si accede in essa per prodursi in una qualche oscena ascesa ma per sprofondare in sé. Una vita sulla soglia, quella di Gabrielle de Coignard – tra mondo e convento, corpo e incorporeo, abluzione e abiezione, apostolato e apostasia, culto e incolto – che scopre un sigillo risolutivo nella poesia. Naturalmente, da nascondere, come fosse un vizio. Al regno, d’altrove, ci si incammina spogli, negati.  

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Sonetti spirituali di Gabrielle de Coignard

Ciò che voglio sei tu a volerlo
vuoi la mia volontà, dolce luce.
Mi vuoi, vuoi proprio me che voglio
nascondere le mie afflizioni.

Il mio cuore si duole, il corpo è gelido,
privato della prima salvezza:
insegnami i segni più dolci
per sopportare questo travaglio.

Voglio la croce e che mi affatichi.
Voglio soffrire – dopo, è certo,
saprò recuperare la salute:

una guerra intestina mi spezza.
L’anima è ammutinata al corpo:
entrambi sono infelici.

*

La paura di morire mi inquieta di continuo:
all’inferno non c’è redenzione
e non mi pento dei miei peccati.
Più vado avanti, più la pena si moltiplica.

Ma Tu mi consumerai come stoppia
nel terribile giorno della tribolazione.
Lascia che mi penta dei miei peccati:
si accoppia all’anima dolore insopportabile.

Hai creato il mio corpo di carne, ossa, tendini,
di pelle, vene, sangue, milza, fegato e polmoni,
Ricordati, Signore, non sono che polvere e cenere:

come paglia sospinta dall’ardore del vento
puoi spazzarmi in ogni istante, annientarmi.
Non lasciare che precipiti nell’abisso.

*

I giorni sono dolci in campagna:
la falce affilata spezza il rigore dei campi
e il grano è giallo, puro, perfetto.
Lo rivedrai risorto, un giorno, e verde.

Mio Dio quanto è bella l’erba, i pascoli,
la pecora che accompagna l’agnello
l’ariete che marcia solitario
in testa al gregge, capo e padrone.

L’aria è paradisiaca, senza pioggia, priva
del chiasso del caldo: la brezza piega i fiori
e i boschi indossano una corona superba.

Non si sente il balbettio della gente
ma il gentile cinguettio degli uccelli:
di questa benedizione ringrazio l’Eterno.

*

Eterno figlio di Dio, gloria degli angeli,
lampada al peccatore, forza dell’oppresso.
Sei il più grande perché il più umile,
da solo hai mosso la pressa del crudele raccolto.

Tramuti la voce in grido possente:
Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?
Sul tuo capo, tutti i flutti del mare:
il Padre ti ha colpito per i nostri peccati.

Non ti sei lamentato per ciò che hai sofferto
supplizio mortale ai rami della croce.
Per me leggi, oggi, questo compianto:

per darmi credito ti sei fatto dimenticare,
per sanare la nostra colpa ti sei fatto incolpare
hai versato il sangue per lavare ogni peccato.

*

Tutto ha fatto Dio nei tempi adatti, con armonia
e misura. Egli è la livella, il regolo, il compasso.
Ogni cosa dispone per bene, e anche nella morte
ha adempiuto ogni passo della Scrittura.

La morte che insegue la sua umana natura
ha reso il corpo divino mortalmente stanco.
Questo eterno verbo che sostiene la lotta,
sussurra, disfatto: padre, ecco la mia ora.

Ho aperto i sette sigilli del libro imprigionato,
Satana è in rovina, il mio popolo è redento.
Ho scelto nel mio cuore la nuova sposa

al suo cospetto tremano le porte degli
inferi e finché dureranno i secoli,
lei sarà con me, io sarò in lei.

*

Notte oscura, getta il tuo nero manto
lo raccoglieranno le ancelle dell’alba.
Allontana da me la premura che divora
e i discorsi che inquietano la mente.

Giunge il giorno aggraziato, chiaro e bello
e il Sole che la terra decora:
non ho ancora chiuso gli occhi
e il cuscino è gonfio di pianto.

Ombrosa notte, pacifica, abulica,
conosci le lacrime dell’anima che soffre:
ho un dolore nascosto nel tuo petto,

non voglio che il mondo lo conosca,
ma ti prego senza tregua
consegnalo ai piedi del Sovrano.

*

Che i miei versi restino nell’oscurità
che non sia pubblico ciò che scrivo:
non bisogna volare troppo in alto
ma appostarsi nella bassa boscaglia.

Devi imparare a scrivere un sonetto perfetto,
devi leggere notte e giorno, studiare Omero
e impetrare il ricco pennello delle muse
perché la bellezza sia vera sulla tela nitida.

Restino i miei versi chiusi nel petto.
Ho creato ciò che offro
ai piedi dell’Eterno, che ispira

il canto a questa rauca lira:
interamente a lui mi sono data
non voglio che vadano ad altri le mie fatiche.

Gabrielle de Coignard

Gruppo MAGOG