Cosa mi spinge ‒ oggi come ora, nell’istante ‒ a imbastire un discorso a favore, non solo di uno dei più grandi poeti italiani del Novecento (almeno secondo il mio giudizio), ma bensì a sostegno di tutte quegli esseri umani (uomini e donne) che hanno dovuto patire o patiscono psicosi, nevrosi, oppure, se pur detto volgarmente e senza scienza, sbalzi d’umore.
Di sicuro, mi spinge il fatto d’essermi addentrato, finora e per anni, per lavoro e per destino, nell’ambito del sociale, quel cantuccio troppo spesso mal esposto o mal disposto ai diritti e alle cure umane, oltre che chimiche, che ogni fratello (e non utente, si badi!) avrebbe appunto bisogno di ricevere.
Il poeta in questione è il poeta di Marradi, ma attendiamo ancora un poco, prima che lo omaggi. Poiché occorre denunciare come troppo spesso ‒ in prima persona e / o per sentito dire ‒ i disservizi a favore (ma purtroppo a discapito) del malato psichico siano oramai all’ordine del giorno. E, avendo il dente avvelenato, farò di tutta l’erba un fascio. Il problema, dopo tutto, è uno solo: costruire bene una sedia con la stessa attenzione che si dedicava alla costruzione di una cattedrale, come svolgere altrettanto bene il proprio lavoro, è ormai antica gloria e lustro del passato. Vige più che mai, nella nostra epoca vile e codarda, il far passare il tempo, seduti su una sedia unicamente da occupare con il solo dovere di occuparla. L’importante è che arrivi lo stipendio, il lato umano della questione è e sarà un sovrappiù che stanca già prima di doverlo tenere in considerazione.
Quante volte vengono tutt’oggi date risposte approssimative a domande di aiuto concrete. Medici e psichiatri fanno finta di aiutare e risolvere problemi impellenti. Non si può dire a un malato che sta male, che il suo sbalzo d’umore è dovuto al cambio di stagione, e chiuderla subito lì la partita. Qui si tratta di un insulto all’intelligenza del malato. E gli esempi potrebbero moltiplicarsi a dismisura, per la banalizzazione di una professione che forse sarebbe meglio ripensare, soprattutto in ambito pubblico. Chi, oggi, non può permettersi una visita psichiatrica privata, molto spesso è lasciato a se stesso, ai suoi problemi, che forse, innescheranno la miccia definitiva.
Oggi come allora le cose non cambiano. Che me ne faccio di un’esclamazione del tipo: Ah, che bello, lei scrive poesie, io suono il violino!
A descrivere un servizio sociale che fa acqua da tutte le parti, mi è venuto in ricordo e in soccorso il povero grande Dino Campana. Ma come anche, del resto, Emanuel Carnevali o Antonin Artaud, e quant’altri. Cosa avrebbero potuto donarci questi grandi poeti di un tempo, se solo avessero ricevuto la cura e l’attenzione che semplicemente spettava loro? Se si fossero sentiti abbracciati per davvero da un’umanità condivisa, che avrebbe fatto la differenza, rispetto alla finzione che hanno dovuto incontrare e quindi combattere, oltre le loro forze?
Carnevali è morto strozzato da un pezzo di pane, dimenticato dal mondo, passando da un ospedale psichiatrico all’altro. Campana, come Van Gogh, se n’è andato pure lui. Eppure, quanto avrebbero potuto donarci ancora della loro tremenda e potente bellezza:
Voi adorabile creola dagli occhi neri e scintillanti come metallo
in fusione, voi figlia generosa della prateria nutrita di aria vergine
voi tornate ad apparirmi col ricordo lontano: anima dell’oasi dove
la mia vita ritrovò un istante il contatto con le forze del cosmo.
Io vi rivedo Manuelita, il piccolo viso armato dell’ala battagliera
del vostro cappello, la piuma di struzzo avvolta e ondulante
eroicamente, i vostri piccoli passi pieni di slancio contenuto sopra
il terreno delle promesse eroiche! Tutta mi siete presente esile e
nervosa…Dino Campana