Enigma e labirinto. Sul Villa di Tagliaferri
Letterature
Tommaso Scarponi
La poesia occidentale nasce nel momento in cui Orfeo, colto da un tentennamento, dal bagliore del desiderio, da un’apprensione, forse, si volta a vedere lei. “Una follia improvvisa”, la dice Virgilio nelle Georgiche, “certo, da perdonare: se sapessero perdonare, gli dèi”. L’editto, il diktat divino è inflessibile: appena lui si volta, a un passo dalla luce, dalla resurrezione, lei, “ormai fredda”, dimentica, ritorna tra le nebbie dell’Ade, nell’incavo dove vagano i morti. Se la poesia, un attimo prima, era puro incanto, incantesimo, capace di piegare le fiere e rabbonire la volontà del re degli inferi, ora è raffinato pianto, lamento, nostalgia di ciò che è perso. Orfeo, da sciamano – colui che con la formula verbale scuote i fiumi, parla con gli alberi, esegue – diventa, appunto, poeta.
Se il romanzo nasce per dire la vita, è la cronaca di un’avventura agita in questo mondo, l’indagine di un uomo vero – da qui, i titoli nominali: Le avventure di Robinson Crusoe, Madame Bovary, Anna Karenina, Jane Eyre, Lolita, Il dottor Zivago… – la poesia canta la perdita, cupo precipizio tra le latebre dei morti. Non sempre l’ostinazione del poeta collima con la speranza, scollina nell’obbedienza: eppure, egli dice la morte per vincerla, s’incunea tra i morti per riportarli in vita. Boris Pasternak, l’autore del Dottor Zivago – un personaggio, Zivago, che sa amare soltanto nella lacerazione e nella distanza – canta al contempo “mia sorella la vita” – che “anche oggi nella piena/ s’è frantumata in pioggia primaverile contro tutti” – e La morte di un poeta, Vladimir Majakovskij – “Tu dormivi… inserendoti ancora una volta/ nella schiera delle leggende giovani”. Nel 1931, per altro, Pasternak scrive una lunga lettera al suo maestro, Rainer Maria Rilke, morto cinque anni prima: “DirVi chi eravate per me era il compito più facile del mondo. Ma se mi fossi messo a parlare anche di me, cioè del nostro tempo, non sarei stato in grado di dominare un tema ancora non maturo”. Sul tema, lo aveva preceduto, come sempre, in tutto, Marina Cvetaeva, autentica Persefone, che nella celebre lettera a Rilke, morto da giorni, scrive “Rainer, ti sento immancabilmente dietro la mia spalla destra”, istituendo ciò che da sempre, con reflui glaciali, sappiamo: che un legame comincia con la morte di uno dei due, che la morte non divide ma salda, non scinde ma glorifica, che bisogna scrivere lettere ai morti, bisogna scrivere poesie, non perché essi ci ascoltino ma perché noi ci prepariamo a riconoscerli, nell’altrove.
“Io e te non abbiamo mai creduto nel nostro incontro qui sulla terra – come non abbiamo mai creduto in questa vita, non è vero? Tu mi hai preceduto (è stato più bello!) e, per accogliermi bene, mi hai prenotato non una stanza, non una casa, ma un intero paesaggio”.
Marina Cvetaeva a Rilke, morto
I greci insegnano che l’uomo è tutto nella vita, in questa passeggera orda di luce, è vero; eppure, è soltanto tra le ombre che si precisa il viso della madre di Ulisse, la fragile statura di Achille, ed è lì, tra le trame dell’Erebo, che il rapporto futile tra Didone ed Enea ha il suo sigillo, espresso in colpa, sdegno, impietosa pietà. Ungaretti ha seminato versi nel cupo silenzio di Didone – “Nella tenebra, muta/ Cammini in campi vuoti d’ogni grano:/ Altero al lato tuo più niuno aspetti” scrive nei Cori descrittivi di stati d’animo di Didone – e ha concesso rasoiate d’oro al grido, dicendo la morte del figlio, Antonietto, a nove anni, a San Paolo: che altro nome dare al dolore se non Il dolore, e alla quotidiana perdita quell’accenno, Giorno per giorno? Già perché non si muore una volta soltanto, il morto continua a morire, ogni singolo giorno, e gli anni della morte, dalla morte di, pur non privi di muschi e di bisce, seguono una cronologia diversa, come acqua che si versa da un bicchiere all’altro, e tutto, a tratti, è sempre ora, abbeverato, all’istante, per sempre giovane.
“Mi porteranno gli anni
Chissà quali altri orrori,
Ma ti sentivo accanto,
M’avresti consolato…”Giuseppe Ungaretti
Così, il biblico re Davide, guerriero, capo banda e traditore, implora Dio di salvare il figlio avuto da Betsabea, sotto l’orma dell’adulterio. Ne reca trama il salmo 51:
“Graziami Dio mio…
feto colpevole sono
mia madre mi ha fatto nel peccatonell’abisso è la verità…
sgrossami nell’issopo
sarò purolucidami
lampeggio più della neve…annulla le mie colpe”
Dio, in cambio della diserzione dai suoi dettami, si prende il primogenito nato da Davide e Betsabea. Il re, consapevole di non potere più nulla – “Potrei forse farlo ritornare? Andrò io da lui, ma lui non tornerà da me!”, 2 Sam 12, 23 – smette il pianto, consola la nuova moglie, carambola di corpi che si uniscono per dare vita a un nuovo figlio, Salomone, l’eletto. La Bibbia ebraica canta il primato della vita; il poeta fa veglia sulla soglia della morte, si accinge al sepolcro, mette una candela ai piedi del Messia crocefisso.
Così, Dante trova nuova vita attraversando i mondi al di là, dialogando con i morti, e il Canzoniere di Petrarca – che per altro ha inaugurato, vezzo colto prima che affettivo, l’arte di scrivere lettere ai defunti – più che un frammentario poema d’amore, è un’immane riflessione sulla morte della persona amata, “che se ’l vo’ riveder, conven ch’io mora” (CCXCI). E se Friedrich Rückert dedica quattrocento poesie – per lo più postume – ai figlioletti morti di scarlattina, Ted Hughes raffina una serie di Lettere di compleanno dedicate alla prima moglie, Sylvia Plath, morta suicida nel 1963, dote di doglie. Le poesie, spesso molto belle – “Ricordi come raccoglievamo i narcisi?/ Nessun altro lo ricorda, ma io sì, lo ricordo” – sono pubbliche, con empito di fama, nel 1998: ma gli dèi hanno falchi negli occhi e proprio quell’anno Ted Hughes muore, forse giustificato, forse ricongiungendosi alla moglie (o a una delle tante). A volte la poesia è un anello nuziale, altre volte un anatema; a volte unisce, altre incenerisce. Ad ogni modo, è gesto supremo – giusto, in ogni sotterfugio esegetico – scrivere poesie ai morti, dedicarsi ai morti. “Cos’altro tenta il poeta… se non la salvezza di ciò che si perde? Di cosa va in cerca se non della seconda possibilità per figure e storie amate di venire alla luce, di rinascere, di tornare a essere?”, scrive Daniele Piccini in un breviario lirico, Come dirsi addio, che antologizza “versi oltre la fine dell’amore” (Bur, 2008; e non è un caso che proprio Piccini sia poeta della perdita, di canzonieri scritti per amore dei morti).
Nel 1910 Henry Scott Holland, teologo inglese, canonico presso la St. Paul Cathedral, pronunciò un lungo sermone per la morte di re Enrico VII, The King of Terrors. Ispirato dall’evento e dalla lettera in cui Sant’Agostino ricorda a Sapida, “figliuola consacrata in Cristo”, lacerata dalla morte del fratello, che “Non v’è alcuna ragione d’affliggersi a lungo, ma piuttosto di rallegrarsi senza fine, dal momento che non perderai nemmeno la parte mortale di tuo fratello, che ora giace sotterra”, il pastore ideò una poesia, divenuta celebre:
“La morte non è nulla, non conta.
Mi sono semplicemente spostato nella stanza accanto:
nulla è accaduto,
tutto resta esattamente come era.
Io sono io, tu sei tu, e la vita che abbiamo vissuto insieme, con tale intensità, è immutata, intoccabile, intatta.
Quello che siamo stati, uno per l’altra, è ancora.
Chiamami con quel vecchio nome familiare, allora,
parlami con lo stesso modo affettuoso che usavi sempre.
Non cambiare il tono della voce,
non assumere un’aria solenne o triste.
Ridi di ciò che ci faceva ridere, delle piccole cose che ci piacevano tanto.
Sorridi, pensami, prega per me.
Il mio nome sia sempre familiare, come lo era prima.
Pronuncialo senza traccia d’ombra o di dolore.
La vita conserva il suo significato:
è la stessa che è stata.
C’è una continuità nell’assoluto che non si flette.
Cos’è questa morte se non un trascurabile accidente?
Perché dovrei svanire dalla tua mente solo perché non sono davanti ai tuoi occhi?
Non sono lontano, ma dall’altra parte, vicinissimo, in fondo, appena dietro l’angolo.
Tutto è nel bene, nulla è perduto.
Un breve istante e tutto sarà come prima:
quanto rideremo di questa separazione quando ci ritroveremo, ancora”.
Io preferisco questa, del grande poeta rumeno Nichita Stănescu:
“Lei era divenuta pian piano parola,
fili di anima nel vento,
delfino negli artigli delle mie ciglia,
pietra che disegna anelli nell’acqua,
stella dentro il mio ginocchio,
cielo dentro la mia spalla,
io dentro il mio io”.
I morti non vanno scoraggiati con tiepide memorie né imbavagliati in un album; i morti non vogliono i fiori e le lapidi sono più flebili di un foglio di carta. Ai morti bisogna scrivere, devono essere meravigliati. La poesia fiorisce dalla fanghiglia della morte; sui cadaveri s’innalzano stendardi d’erba, in cui flirtano ghepardi e bruca il cervo. Tutto è all’ombra ed esiste soltanto ciò che risorge.