09 Luglio 2018

“Il mondo dei soldi pensa di potersene fregare della letteratura”: dialogo su guerra, critica e poesia con Andrea Cortellessa

Comincio con un gioco. “Trincee scoppianti di brame strozzate”; “ululati di cannoni sciare di obici pluriformi”; “ilarità bulinante di fucileria”; “promiscuità terrigene di destini”; “sfoiare anelante di granate uggiolío d’echi di voluttà”. Con questa mitragliata retorica, dal titolo Innesti, Armando Mazza descrive – specie di deliranti didascalie – la Prima guerra, che fu evento letterario – e preparato, verbo in canna, dalle patrie lettere – oltre che bellico. Armando Mazza… chi è? Visto che ne so una mazza, vado al fondo del tomo, al Foglio matricolare, che allinea le bibliografie ragionate. Palermitano, “nomen omen, Mazza era la voce ma anche i pugni del futurismo: la sua prestanza fisica lo rendeva un componente obbligato dei ‘servizi d’ordine’ di Marinetti, tanto nelle ‘serate’ che nelle ‘spedizioni punitive’”. cortellessa libroEccoci qui: uno dei modi per afferrare l’“Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale”, 788 pagine (per 22 euro, stampa Bompiani), curata da Andrea Cortellessa con il titolo magnetico – montalianoLe notti chiare erano tutte un’alba, è giocarlo. Giocarlo, già. Il lavoro di Cortellessa – edito la prima volta da Bruno Mondadori, vent’anni fa, tornato oggi, a un secolo dalla fine della Grande Guerra, accresciuto e con gli apparati bibliografici doc – piamente storico (evviva), allinea una stagione di lirici alla guerra, non soltanto i soliti noti (chessò, Marinetti, Jahier, Govoni, Ungaretti, Sbarbaro, Soffici…), ma un’ammucchiata di altri (Giulio Barni, ad esempio, “‘L’ultimo poeta del nostro Risorgimento’, come lo definì Biagio Marin”, o Bino Binazzi, “amicissimo di Palazzeschi”, Fausto Maria Martini, Francesco Meriano, “sindaco di Cesena a 27 anni, deputato a 28, diplomatico a 31; la morte lo trova ambasciatore a Kabul: di anni ne ha 38”). Il che, ripeto, rende il tomo una testimonianza di biografie abbaglianti come granate nella notte. Viva. Il libro, appunto, va ‘giocato’. Poi c’è il resto. Un lavoro analitico, senza elmetto ideologico, dentro il conflitto che cambia, per sempre, mode, toni, abitudini, Europa, ridotta a waste land. La guerra viene studiata in tutti i suoi aspetti – dalla “Guerra attesa” alla “Guerra-comunione” alla “Guerra-lutto” e la “Guerra postuma” – mostrando che la poesia, di volta in volta, ha il valore del grido (del claim che incita alla lotta), dell’elegia, del turbinio patetico, dell’evoluzione esistenziale (quanto ai valori estetici in battaglia: primeggia Clemente Rebora, con fragori lirici più alti del declamato Ungaretti; ma è curioso, pure, sostare sui versi di Curzio Malaparte e di Carlo Emilio Gadda). Varcata la solita solfa – la poesia nasce come canto della guerra, dall’Iliade in qua – la cosa interessante, qui, è studiare come muti la poesia in concomitanza al mutare della guerra (che ora, ad esempio, “impone una condotta dei combattimenti a distanza, cioè senza che l’avversario sia visibile”), come si affili il verbo lirico dietro il mutare delle armi. La parola, d’altronde, è arma, è bellica: si parla imprimendo una idea, imponendo. Sarebbe interessante capire cosa cambia dalla poesia nell’effimera eccitazione della Grande guerra a quella, nello shock, della Seconda. A mo’ di logo, da questa raccolta composta dal più riconosciuto dei critici letterari italiani – un panda, Cortellessa, che ha scritto di vivi e di morti, per tutti, da Adelphi a Einaudi, curando collane che cullano l’opera degli andati e dei contemporanei, e non pubblica neanche un libro in versi, un romanzo almeno – estraggo un aforisma di Sbarbaro, “Natura coi poeti è spietata. Ma per cantare anch’io sono pronto a perdermi”. Come a dire, il poeta è perduto, per questo chi lo legge ritrova la via.

Parto dal fondo. “Se una cosa insegna, la letteratura di guerra, è che quella storia, invece, non ci ha insegnato proprio nulla”. Dunque: a cosa serve la letteratura, a che pro la poesia?

Ecco, cominciamo subito coi massimi sistemi. Gli anglosassoni chiamano le nostre «humanities»; in italiano siamo stati capaci di ri-mutuare, della radice latina fatta propria dalla lingua egemone, solo un’espressione respingente come «scienze umane». Ma se si chiamano «humanities» è perché servono, dovrebbero servire, a renderci umani. Dopo di che, per dirla appunto con una citazione squisitamente umanistica, «nihil a me alienum puto». E allora, tanto per capirci, oggi nel Mediterraneo sono esseri umani, biologicamente parlando, tanto quelli che per una vita vera rischiano la vita avuta in sorte che quelli che la loro vita spendono per soccorrerli in mare; ma sono uomini pure quelli che non se la sentono di fare questo, come me per esempio, e addirittura quelli che per impedirlo farneticano di blocchi navali. In senso propriamente umanistico, invece, come nei versi di Primo Levi che stanno in testa a Se questo è un uomo, «uomo» non è quello ridotto a larva, ma nemmeno quello che a larva lo riduce (o resta indifferente alla prospettiva che tale venga ridotto). Se l’essere umano, da Aristotele in avanti, si definisce per il suo uso del linguaggio, allora quelle discipline che prendono in carico il linguaggio, che esercitano il «governo della lingua» come diceva Seamus Heaney, sono, dovrebbero essere, il nostro core business. Il mondo dei numeri e dei soldi pensa di potersene fregare – lo pensa oggi, non è sempre stato così – e noi, da tempo ormai, abbiamo abdicato a questo privilegio, a questa responsabilità. Nel libro di cui stiamo parlando si dice un’altra cosa, però. Rifletto su un’altra massima umanistica, «historia magistra vitæ», e constato che la storia del Novecento non è servita a nulla, invece, agli uomini del Novecento. Come ha scritto Brecht: «La guerra che verrà/ non è la prima. Prima/ ci sono state altre guerre./ Alla fine dell’ultima/ c’erano vincitori e vinti./ Fra i vinti la povera gente/ faceva la fame. Fra i vincitori/ faceva la fame la povera gente/ egualmente».

cortellessa
Andrea Cortellessa è tra i critici letterari più riconosciuti in Italia. La prima edizione dell’antologia sui poeti della Prima guerra è edita nel 1998 da Bruno Mondadori

Nello stesso tempo, studi i diversi aspetti della guerra – dalla “Guerra-festa” alla “Guerra ricordata” – e dai spazio ad autori meno ‘canonici’ (Armando Mazza, Sem Benelli, Giulio Barni, Mario Carli, Primo Conti, Luciano Nicastro, Fausto Maria Martini…), costruendo, forse, un canone alternativo. Oppure, sei preso dall’esigenza, da storico, di rompere con l’idea stessa di canone. Si legge, ad ogni modo, un impeto etico e non solo analitico. Dunque: come è nata e si è sviluppata l’idea di questa immane antologia della Prima guerra, e per qualche scopo?

Non c’è un’idea di canone, no. Almeno nel senso specificamente letterario di questa espressione. Schematizzando al massimo, si danno due tipi di poesia. Lo diceva Paul Celan: c’è una poesia astratta, che vive essenzialmente del suo confronto con le proprie strutture, appunto col proprio linguaggio. E poi c’è una poesia calata nella storia, che materialmente reca iscritte le proprie date (lui diceva «il suo 20 gennaio»: che è la data del 1942 in cui convenzionalmente ricordiamo la «soluzione finale» decisa dai nazisti alla conferenza di Wannsee). In generale, «sono tutt’altro che convinto che nel mondo ci sia spazio solo per una di queste due forme di poesia». Ma questo è un libro che, in ogni sua parte, vuol essere tanto un libro di letteratura che un libro di storia. (Per questo, nel riproporlo con molte modifiche, la principale è stata l’aggiunta del «Foglio matricolare» che lo conclude, e che ha due funzioni: da un lato consente di rintracciare i componimenti, nel libro, utilizzando la funzione-autore; dall’altro, sui medesimi 67 autori antologizzati, fornisce le informazioni bibliografiche e biografiche indispensabili: a partire dai dati della rispettiva esperienza militare.) Non è un equilibrio facile. La rappresentatività storica fa spesso a pugni con la qualità letteraria. In un testo può prevalere la prima, in un altro più la seconda. Ma il tentativo è stato quello di garantire entrambe le funzioni.

In Inghilterra ci sono i ‘war poets’, in Francia Charles Péguy, in Germania Trakl, da noi Ungaretti. Insomma, una vaga retorica che glassa l’opera del poeta ‘in trincea’ (trincea fisica o metaforica che sia). In effetti, la guerra è davvero un ‘esplosivo’ per il poeta, appicca l’opera? E che opera, sinceramente, produce, fatta salva l’incommensurabile identità dei singoli poeti?

Specialmente durante il fascismo si è prodotta una glassatura retorica della memoria, in particolare, di chi in guerra ci aveva lasciato la pelle. In un caso specifico, per esempio, il monumento postumo al «martire» anche a me aveva fatto ombra al poeta, che sono stato in grado di recuperare solo in questa nuova edizione. Si tratta di Annunzio Cervi, poeta sardo estetizzante e forse omosessuale formatosi a Napoli, volontario in guerra, due medaglie d’argento al valor militare, freddato da un cecchino sull’Altopiano di Asiago pochi giorni prima del 4 novembre. Aveva ventisei anni. La sua è una biografia esemplare, ma la sua figura non si riduce alla sola biografia. Ha lasciato scritte anche delle belle poesie. In termini generali, la poesia di guerra è un segno inconfondibile sul «secolo di fuoco», come è stato definito. Come ho detto, è difficile se non impossibile trarre davvero una lezione da quell’insegnamento; non di meno, quel segno è stato lasciato.

Quale poeta ti pare più rappresentativo nella tua vasta cernita, perché?

Senza dubbio Clemente Rebora. È un parallelo ormai topico, quello fra lui «sommerso» e il «salvato» Ungaretti. Se quest’ultimo in trincea va coll’obiettivo di patentarsi italiano, ed ha in sorte di laurearsi poeta, il primo ci va poeta – con uno dei due più bei libri del primo quindicennio del secolo, i Frammenti lirici – ma il «festino di Moloch» che in guerra vede e subisce (alla vigilia di Natale del 1915 l’esplosione di un obice gli semidistrugge l’udito e, insieme, l’equilibrio mentale) lo annienta, appunto, in quanto poeta. La violenza e la spregiudicatezza delle poesie e delle prose che scrive Rebora, subito prima e subito dopo quel trauma, sono tanto un documento storico che un monumento letterario di livello europeo – al livello di un Trakl o di un Céline. Ma lui stesso poi decide di censurarle, evitando di farne un libro e trarne così un «salvataggio» umanistico. Solo nel 2009 sono state raccolte, in ben tre edizioni diverse, e ora Adele Dei, la curatrice del Meridiano che finalmente è stato dedicato a Rebora tre anni fa, le giudica la parte più potente dell’opera di quello che, personalmente, ritengo il maggior scrittore italiano della sua generazione (Montale è di undici anni più giovane ma, in tutti i sensi, viene dopo).

Vorrei che mi dicessi sui rapporti tra poeta e potere. Allora la liaison era potente: taluni (D’Annunzio, Marinetti…) tentano la sortita politica. Oggi, che ruolo dovrebbe avere il poeta nella storia, nella gola del tempo presente?

Il prestigio, e di conseguenza il ruolo, che un poeta può avere nella società è variato nel tempo e tuttora è molto diverso da noi rispetto a quello che può avere, non dico nel Sud del mondo, ma anche nell’Europa dell’Est. Oggi da noi i media generalisti fingono talmente bene di ignorare i veri rapporti di forza fra i diversi scrittori, forza letteraria intendo, che sono giunti al punto di ignorarli davvero. I loro format si sono talmente irrigiditi – il che è un paradosso, in epoca digitale – da privilegiare le contraffazioni di scrittori che sanno contenere i loro pensierini nelle trenta righe, o nei trenta secondi, dati a loro disposizione. Ma non è solo questo. Uno scrittore vero è tale per l’irriducibilità del suo pensiero alla doxa, e i mediacrati non hanno oggi il minimo interesse a quanto ecceda la doxa da loro stessi prodotta. L’ultimo vero poeta che abbia potuto davvero fare politica in Italia, Pasolini, non a caso faceva sue le parole di Mandel’štam quando diceva che col potere si possono avere solo rapporti puerili. Ma già al suo tempo le cose erano cambiate, rispetto a quando un Mandel’štam poteva fare talmente paura da essere materialmente combattuto, e infine messo a morte, dal potere al quale si contrapponeva. (C’è da dire che Stalin, che si spacciava per un linguista, la letteratura la capiva. E, dal suo punto di vista, si comportava di conseguenza.)

Ti occupi, con sguardo vigile e militante, del contemporaneo. Dunque. Oggi in che stato è la poesia, la letteratura italiana? Che senso ha, oggi, la pratica del critico ‘sui giornali’? Che senso ha, in fondo, la critica medesima?

La parola «militante» non mi è mai piaciuta. Penso a me stesso come a un pacifista, e se a questa parola si congiunge la qualifica di militante, si produce un ossimoro. Si vede che il nostro destino è quello degli ossimori. Comunque capisco cosa vuoi dire. Penso che la critica, etimologicamente, debba separare il raro grano dal troppo loglio che viene prodotto. Un esercizio che presume molto di sé, certo, e che oggi sempre in meno ci ostiniamo a praticare. Tocca leggere libri intelligenti che definiscono questo tipo di critica «poliziesca, normativa e paralizzante». Una volta, con separazione brutalmente classista, tutti sapevano in quale girone giocava uno come Francesco Pecoraro, per dire, e in quale era relegato, sempre per dire, Gianrico Carofiglio. Oggi il sistema mediacratico, embedded nell’industria culturale che ha messo i carofigli a lavorare in batteria, ha pressoché annullato questa distinzione. Che resta una distinzione fondamentale. Lavorare come critico sui giornali è dunque un altro ossimoro, probabilmente. Si ha un bel segnalare Davide Orecchio o Michele Mari, Francesco Permunian o Helena Janeczek, in taglio basso a pagina pari, quando lo strillo in prima pagina è dedicato ogni settimana all’ultimo giallista. Non parliamo poi della poesia. Scriverne sui giornali è diventato praticamente impossibile. Continuiamo così, facciamoci del male.

…e ora di che ti occupi? 

C’è un mio caro amico poeta che, come critico, ha un temperamento opposto al mio. Lui dice che «mi sfavo» troppo in fretta delle cose di cui mi occupo. Riscrivere il mio primo libro forse un po’ mi ha curato, almeno spero, da quest’attitudine tuttologica, patologicamente divagante. Se ci riesco vorrei dedicare il prossimo anno e mezzo a due progetti paralleli, l’uno prova sul campo dell’altro diciamo. Una storia e una tipologia dell’iconotesto fotografico italiano, cui dedicherò il corso che quest’autunno sono stato invitato a tenere alla cattedra De Sanctis del Politecnico di Zurigo, e una riflessione su alcuni esempi non solo italiani di questo genere (se di genere si può parlare) che sarà però l’alibi di una ricerca, un po’ più personale, su alcune mie ossessioni. Ho appena compiuto cinquant’anni, e sempre umanisticamente è il caso di ricordarsi che «ars longa, vita brevis». Considerando il tempo che ci resta, e dovendo scegliere, forse è il caso di tornare alle proprie ossessioni. Cioè alle cose che ci hanno reso quello che siamo.

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