10 Settembre 2022

“Per generazioni non conosceremo così tanta maestà”. Tutti i poeti della Regina

Eletto “Poet Laureate” il 9 maggio del 1930 da re Giorgio V, fu John Masefield, nel 1952, a scrivere l’inno per l’incoronazione di Elisabetta II, A Prayer for a beginning reign. Benché il regno di Masefield come poeta laureato sia tra i più longevi della storia – l’incarico durò 37 anni, fino alla morte, nel 1967, secondo soltanto all’immortale Lord Alfred Tennyson, in carica per 42 anni –, in Italia la sua opera poetica è pressoché sconosciuta. Noto per i libri per ragazzi (editi da noi da Mondadori), non gli mancava l’estro epico; ecco come comincia l’ode a Elisabetta II:  

“Colui che è Ordine, Bellezza, Potere e Gloria,
Egli, l’Onnisciente, che ha forgiato l’eterno abisso,
Lo Splendore, privo di Presenza, al di là della Storia,
Creatore e Arbitro di ciò che è,
Egli ha posto nella mente dell’Uomo
Pensieri e immagini di foggia reale;
Di modo che servendo la Regalità terrena,
siamo servi Suoi…

Dimentichiamo le divisioni, questa
È la stagione della rapidità primaverile
Di tutto un Popolo un unico impeto
Per eleggere la nostra Sovrana Regina
Sopra un regno appropriato, meraviglia del Mondo”.

Inaugurata un po’ per caso da Ben Johnson – che Giacomo I Stuart dotò di pensione annua – la carica di “Poet Laureate” prende canone dall’elezione di John Dryden, nel 1668. Di norma, è carica onorifica, simbolica – per questo, tanto più sottile e importante di qualsiasi altro incarico stipendiato. Il “Poet Laureate” è eletto dal monarca del Regno Unito, su suggerimento del primo ministro; non ha alcun obbligo diretto, ma ci si attende che i suoi versi scandiscano i momenti capitali del regno e le ricorrenze auree. La pensione annua è quasi ridicola – 5mila sterline –; ad essa è sommato, in puro stile inglese, un barile di sherry. Al di là di Tennyson, che esercitò l’incarico con ispirazione cristallina, il poeta laureato più noto è William Wordsworth, eletto dalla Regina Vittoria nel 1843.

Il primo poeta eletto da Elisabetta II è stato Cecil Day-Lewis: in Italia è noto per lo più come scrittore di gialli, pubblicati con lo pseudonimo di Nicholas Blake da Mondadori (di recente li ha ripresi Giunti). Discepolo di Wystan H. Auden, papà dell’attore pluri-Oscar Daniel Day Lewis, fu elegante traduttore di Virgilio e di Paul Valéry. Passata la sbornia comunista degli anni Trenta, si dimostrò fedele alla causa monarchica: negli archivi della Royal Collection Trust risalta una sua Birthday Song for a Royal child, per la nascita, nel 1960, di Andrew, duca di York.

Tra i vari record stabiliti da Elisabetta II, c’è anche quello del maggior numero di “Poet Laureate” eletti: sei. Tra questi, va menzionata la prima donna a ricoprire il regale compito, Carol Ann Duffy, in carica nel decennio 2009-2019. Il poeta più noto alla corte di Elisabetta II è stato senza dubbio Ted Hughes: lirico straordinario e inquieto, già unito a Sylvia Plath, fu eletto il 28 dicembre del 1984; ha raccolto le poesie scritte come Poet Laureate in un libro edito nel 1992, Rain-Charm for the Duchy and Other Laureate Poems. Per il “Ruby Jubilee” della Regina, nel 1992, ad esempio, ha scritto The Unicorn; soprattutto, è stato amico di Carlo, a cui lo legava la passione per gli spazi aperti, la caccia, l’astrologia, il rapporto concreto con la natura, un sano ecologismo.

“Nelle poesie ‘da laureato’ di Hughes, scritte soprattutto in occasione di nascite, battesimi e compleanni, la corona viene celebrata come simbolo dell’unità spirituale della tribù… Si tratta di una concezione mitica e sciamanica della monarchia e del ruolo del sovrano che rimanda al passato leggendario delle isole britanniche. Come Poet Laureate, Hughes ha frequenti contatti con i reali e prova una forte simpatia, ricambiata, per la Regina Madre, le cui ‘fattezze leonine’ gli ricordano quelle di sua madre”.

Anna Ravano (in: Ted Hughes, “Poesie”, Mondadori, 2008)

La poesia per il “Royal Wedding” tra Carlo e Diana, il 29 luglio del 1981, è stata composta da John Betjeman, poeta poliedrico, eletto “laureato” nel 1972, ovviamente ignorato in Italia. La poesia – in sintonia con il sinistro futuro matrimoniale – è bruttina:

“I merli tra i cimiteri della città salutano il sole,
Carlo e Diana all’alba del loro matrimonio.
Accorrete, ragazzi, scatenate la potenza vocale
concentrata nella torre campanaria
fino al tuono dei frangenti che agguantano la riva:
la terra affoga in un melodioso ruggito.

Una dozzina di anni fa ho scritto:
“Si è inginocchiato un ragazzo, è sorto un uomo
in questo modo inizia la tua vita solitaria”.

La scena è mutata, chiarita la prospettiva,
la solitudine, scomparsa.
Chi è qui assembrato gioisce
oggi dell’amore che distribuisci”.

Ogni poeta porta il suo stile, il suo ‘tono’ negli antri regali: a volte il peso della tradizione ne soffoca l’intuito, ma non è raro che le poesie ‘d’occasione’ siano dotate di una bellezza corrusca, ambigua, altra. “Poet Laureate” tra il 1999 e il 2009, Andrew Motion – ennesimo poeta colpevolmente dimenticato dalla nostra editoria – ha scritto un luminoso ricordo sul “TLS”, The Queen and I, che attacca così:

“La prima volta che ho visto la Regina, non l’ho vista davvero. L’ho evocata, tra le ombre e la speranza. Avevo sette anni, mia madre mi ha portato in mezzo a un gruppo di gente, sulla soglia di un pub, il Four Ashes, a Takeley, Essex. Aveva sentito di una visita reale nelle vicinanze: voleva porre il suo fedele saluto. Ricordo di aver atteso sotto la luce del sole, pia e debole, guardando il traffico, ordinario. Ero eccitato e annoiato allo stesso tempo. Poi un veicolo dall’aspetto stravagante planò davanti ai miei occhi. Rigido, antiquato, estremamente lucido, con la bandiera che sventolava da un piccolo dente sopra la griglia del radiatore. Qualcosa tra un carro funebre e il carro armato. La folla applaudiva. Mia madre mi sollevò. Sbirciai e da un finestrino, sul retro, e mi parve di scorgere la Regina. Era un cappello o una pallida mano guantata? Non potevo esserne sicuro, era tardi per una seconda occhiata, il carro funebre stava veleggiando in lontananza. Ho accennato alla Regina di questo ‘non incontro’ la prima volta che l’ho incontrata per davvero, a Buckingham Palace, quarant’anni dopo, nel 1999, subito dopo essere stato nominato Poet Laureate. Era un modo conciso per significarle cosa fossero per me le questioni regali. I miei genitori non erano monarchici, ma rispettavano la Regina e la tradizione che erano certi incarnasse… Anche io le rispettavo. L’incoronazione della Regina era accaduto un anno dopo la mia nascita: è sempre stata , nella mia vita. Per ciò che mi ricordo, pregavo per lei ogni domenica in chiesa, a scuola, a casa”.

Tra tutti, Motion ha interpretato il ruolo con più rigore: è una specie di cardinale della poesia anglofona.

Il Poet Laureate in carica – dal 10 maggio 2019 –, Simon Armitage, è certamente tra i poeti più importanti del regno: di lui in Italia leggete In cerca di vite già perse (Guanda, 2015, traduzione di Massimo Bocchiola); l’antologia delle Poesie, edita da Mondadori nel 2001, a cura di Luca Guernieri – un evento, per chi lo ricorda – è finita (ovvio, in un paese liricamente arretrato) fuori catalogo.

Armitage, estroso figlio della tradizione, ha preso sul serio l’incarico, scrivendo diverse poesie ‘cortigiane’, spesso molto belle. L’ultimo lavoro ‘reale’ è un poemetto, Queenhood, scritto for the Queen’s Platinum Jubilee 2022, stampato dalla Faber. Il testo è una variazione sul tema “costanza e cambiamento”, alterna toni solenni e frugali, il comodino e la volta celeste, l’oggi, in divenire, e il sempre, di cui è latore il monarca:

“Così gli emblemi e lo stigma della regalità sono dedotti:
gli speroni dorati; la spada in acciaio blu – scheggia
dello spazio profondo, tratta dal fodero della notte –
punire e proteggere; bracciali a ogni polso,
sincerità e saggezza – corazza e vincolo.
L’amore resta amore è ancora amore, e la guerra guerra”.

L’ultima stanza ha la potenza di un congedo:

“Carico insopportabile per la giovane donna
eppure, tra drappi e devoti, il monarca avanza
nel tempo obliquo degli anni a venire.
Il cargo enorme della chiesa e dello stato
chiari ad ogni passo, leccornia di oro arcaico
trasmutato in platino, alchimia ridefinita.
Queenhood: legge e leggenda, vita nel sogno
e documento, veritiera fantasia.
Per generazioni non conosceremo così tanta maestà”.

Il poeta resta profeta, sempre; e la morte non è che una nascita.

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