Testimoniare il dolore. In dialogo con l’imponderabile di Luciano Cecchinel
Poesia
Marilena Garis
Proverbiale è la lentezza – condizione della fermezza, o meglio: di un’altitudine – con cui Alessandro Ceni scrive le sue poesie. Meglio: forgia. Nella forgia, voglio dire, è segnata – d’incanto – la duplice natura della poesia di Ceni. La forma che ne viene fuori, dopo la lavorazione, è statuaria, metallica, dura – senza flessioni né spiragli. Eppure, il materiale che ora ci appare solido – meglio: tagliente – era liquefatto, un tempo, codice dell’informe. In ogni caso: si tratta di opera con il fuoco.
Che le poesie di Ceni appaiano petroglifi o fibbie su fiume è conseguenza della loro ignea natura.
L’ultima poesia inedita di Ceni pubblicata su questo foglio digitale risale a oltre un anno fa. Ai primi di ottobre del ’23 il poeta mi fa, “sono quasi al traguardo con la prossima: se ti piace, puoi pubblicarla”. Sono passati altri tre mesi. Al fuoco non si comanda – ad ogni richiesta di spiegazioni, Ceni, con la sola brutale giustizia possibile, risponde: e che ne so, le chiedi a me?
Di questa, Passo all’Orso – titolo che indica ma non comanda: gerarchia o didascalia non imperano nel mondo di Ceni, dedito alla pazienza, all’obbedienza – ne dico un paio, a mo’ di torce che sviano. Intanto: il distico che inaugura il tema. L’unico dio – il vostro – cade come l’unico cielo si sbriciola in neve. Si immilla – neve-polline. Dalla concia dell’unico dio, escono gli innumerevoli. Verificare l’impronta della neve – mai vergine: viene, semmai, dopo lo sverginamento celeste – nella poesia di Ceni è gioco da speleologi del verso. È ovunque. Dai titoli noti – I cacciatori nella neve – a rilievi diversi, sul torso – Autocombustione, Bianco, la neve ne La natura delle cose e quella, iniziale, di Mattoni per l’altare del fuoco. Diciamole: tracce. Va detto che nel libro dell’“unico dio” la neve appare di rado, a mo’ di miraggio nel deserto, luce sublimata per combustione. Il lebbroso è “bianco come la neve” (Es 4, 6); “candidi… come neve” sono i capelli del “Figlio d’uomo” profetizzato nell’Apocalisse; l’angelo del Signore, a dire di Matteo, indossa un “vestito bianco come neve” (28, 3). Il bianco ha sempre valore sdoppiato: la purezza è esito del terrore, il candore si teme (si legga il capitolo 42 di Moby Dick, dedicato alla “bianchezza” della balena, specie di oceanica nevicata, novello dio, nella versione di Alessandro Ceni – Feltrinelli, 2007).
Ma questo è bla bla. Ceni procede, sempre, per figure cristallizzate nell’emblema: la neve e gli uccelli, il lupo e lo scudo, il predatore e il bimbo, la casa e le ragazze. La cultura è annientata dal maniscalco rito: nessuna convergenza in forma di citazione ‘rimanda’ a quello o a quell’altro libro – o mito. Ceni riedifica dalle rovine – oppure: dalla carcassa dell’angelo – un nuovo mondo: che sia detto di diecimila anni fa o iscrizione riesumata tra diecimila è lo stesso. A noi, coreuti corvi, è chiesto di ripetere.
Il nuovo mondo, va da sé, si forgia con un linguaggio nuovo: da qui, il vocabolario di Ceni, inerpicato tra arcaismi e neologismi, che stana motti dal ladino, immagini appropriate a un libro d’ore ossificato nel bosco, utile a educare le nottole; il sostantivo dantesco collima con il refrain sciamanico. Anche qui, Ceni è solitario trapper nell’italica poesia attuale stretta tra lirica esibizione del cuore e banale abbecedario d’abisso.
La coltre nevosa, pari a criniera, scortica le abitudini, obbliga il tutto ad abiura. I nuovi abiti saranno leggeri. Distillata in ciotole, la neve serve a benedire vittime e valligiani – a sbendare gli antichi lari. C’è sempre qualcuno che muore e qualcosa alla corda, nelle poesie di Alessandro Ceni.
Leggere, allora, vuol dire scatenare – accordarsi a scordare.
***
Passo all’Orso
Questo vostro unico dio cadrà,
torneranno innumerevoli gli dèi.
Io sono la neve che carola lieve
io sono la neve che glittera e imprata
io sono la neve che nevica neve.
In questa fissità l’impronta
l’inflessione della voce
la magnitudine pagana dell’imperativo
con l’usata immagine:
la coltre, il manto.
La neve è così fitta che si rinuncia:
le pietre arrotondate indicano un focolare,
presumono persone accerchiantesi in un rito
per scrutare il volo circoscritto degli uccelli
entro uno spazio obliquo e, annerendolo,
attrarlo nel proprio orizzonte,
nel templum dell’angoscia dell’immagine.
All’assassinio del capo o del principe
nella foresta la neve divincola un suo coro,
innalza sulle conifere l’anima di cuoio,
i bracciali dello scudo:
allora l’immagine è stretta fra muro e siepe
come un testamento di bimbo:
non correre con le forbici in mano,
ti abbiamo allevato per ucciderti.
I predatori hanno una comprensione efficace della fine:
la porta ruotava su cardini di neve,
la maniglia mutava, imitava, si muoveva inosservata
per altri che assistono o si spostano sullo sfondo
strofinandone il bronzo e l’alluminio della scodella:
quando non abiti la casa, chi l’abita?
Passarono lupi, passarono groppe,
passarono ragazze di neve,
passarono a comando
curve sulla traccia
come per approssimazioni,
fanno solecchio con la mano,
chiuse le reti sulla vittima lusingata dai richiami.
La neve era ora fina,
polvere in sospensione
sul grande capo delle muse selvagge
che vennero, vedo, senza mandante
tenendo cianes tla corda.
Alessandro Ceni