14 Gennaio 2024

“Mi hai ingabbiato nella salsedine della tua lingua”. Alda Merini e Giorgio Manganelli

“Aveva la pelle di un certo colore di pesca, come se fosse stato estremamente giovane: il mio solo, virtuale ragazzo di tutta la vita. Manganelli veniva a vedermi sul Naviglio. Mi vedeva nascere di lontano, come un puntino piccolo piccolo che trasvolava diritto nelle sue braccia capaci. Era una grande madre, una grande sorella”, scrive Alda Merini nel brano in prosa che apre la raccolta La palude di Manganelli (1992), all’indomani della scomparsa dello scrittore Giorgio Manganelli, nel 1990.

Alda e Giorgio si incontrarono alla fine degli anni Quaranta nel salotto di Giacinto Spagnoletti in via del Torchio a Milano dove si riunivano, tra gli altri, David Maria Turoldo, Luciano Erba, Maria Corti. Fu proprio in quel periodo, nel 1947, che Alda incontrò “le prime ombre della sua mente” e dovette essere internata per un mese nell’ospedale psichiatrico di Villa Turro, con la diagnosi di disturbo bipolare. Manganelli le fu molto vicino, la accompagnò dai migliori psichiatri e la guidò nella scrittura. “Ogni sabato pomeriggio” scrive la Corti nella sua introduzione a Vuoto d’amore (1991) “lei e Manganelli salivano le lunghe scale senza ascensore del mio pied-à-terre in via Sardegna e io li guardavo dalla tromba della scala: solo Dio poteva sapere cosa sarebbe stato di loro. Manganelli più di ogni altro la aiutava a raggiungere coscienza di sé, a giocarsi bene il destino della scrittura al di là delle ombre di Turro”.

Alda ha sedici anni, Giorgio venticinque ed è sposato con una figlia. I loro incontri clandestini si dipanano tra le parole del loro mondo interiore: condividono le loro paure e rivoluzioni, felicità e tormenti, infinite pagine di letteratura e poesia. Tentano di lottare contro un amore impetuoso, imprevisto e inevitabile, di farne sola parola, ma ne sono travolti

“Oh, lui parlava fitto e innamorato
come una rondine stellata,
pieno di germi d’addio.
Era un linguaggio provenzale
con una cadenza andalusa
e con le mani sfiorava i miei libri,
invece del volto, e diceva:
“Che strano frumento
ti cresce nei capelli”.
Allora, con la falce del viso,
tentava di mietermi il sorriso
finché finimmo
nel gergo della passione”.

(La palude di Manganelli)

Quelli furono anni intensi per Alda Merini: il 1950 segnò il suo ingresso in letteratura, con l’inserimento delle sue prime poesie nell’Antologia della poesia italiana contemporanea di Spagnoletti. Nel 1951 venne inclusa, su spinta di Eugenio Montale e Maria Luisa Spaziani, nell’antologia di Scheiwiller, Poetesse del Novecento. Arrivò quindi la pubblicazione della sua prima raccolta poetica La presenza di Orfeo (1953), dedicata a Manganelli. Nel poema omonimo, di straordinaria intensità, Alda si rivolge in poesia ad un “novello Orfeo”, anch’egli poeta, per rivendicare la propria “presenza” – in contrapposizione all’“assenza” che Orfeo va cercando – e ribaltare così il mito, come spiegherà più avanti in Reato di vita (1994):

“E la figura di Orfeo che simbolo è? Orfeo sono io. E io sono Euridice. Sono l’ambivalenza, l’androgino”.

Tra mistico e carnale, nel componimento si respira tutto il battito irrespingibile della passione, come preme nell’età giovanile, per giungere alla “garanzia dell’immanenza”, una definitiva fusione di anima e corpo, espressa dalla Merini con prodigiosa precocità, come ebbe a dire Pier Paolo Pasolini.

Oltreché in poesia, per una volta vorremmo un lieto fine anche nel reale, ma il “benessere assoluto” dell’amore immanente, con cui si chiude l’Orfeo, presto scomparve dalle loro vite. Manganelli chiese il divorzio dalla moglie ma non riuscì ad ottenerlo. La foresta dei gineprai tra lui e Alda si fece sempre più fitta, finché si arrivò ad un punto di non ritorno nel 1953. E lui, esausto, decise di “autodeportarsi a Roma”.

Alda stava ancora elaborando dentro di sé la voragine di quella cocente separazione quando conobbe Ettore Carniti, proprietario di alcune panetterie milanesi. Quasi a contenere la tracimazione esistenziale e poetica che la divorava, decise di sposarsi l’anno successivo, nel 1954, e si trasferì con Ettore in un piccolo appartamento in Ripa di Porta Ticinese dove rimase poi per tutta la vita.

Da lì in poi i fatti paiono ramificazioni di un destino già scritto:

“La battaglia di Manganelli
fu spericolata:
ingaggiò mille gendarmi
e un dicitore di fole.
Vedendomi bambina
cominciò a dirmi
che forse avrei conosciuto
il metallo di una vita
più vera, migliore.
Mi risvegliai fiorita,
di colpo in manicomio”.

(La palude di Manganelli)

L’internamento della Merini segnò quasi un ventennio di silenzio poetico che si interruppe con la composizione del suo capolavoro, La Terra Santa (1984), cui si affiancò L’altra verità. Diario di una diversa, con un’introduzione sbalorditiva di Manganelli, nel 1983. Bastano poche righe per sentire la forza inaudita del verbo che si fa quasi carne per risollevare di peso le sorti del suo antico, mai sopito, amore:

“Questo libro, nato da una esperienza da cui non pare lecito salvarsi, ha in sé una elastica, fantastica, selvatica irruenza […] Incredibilmente, lo scatto, la lattile consistenza verbale, offrono una sorta di sconvolgente letizia, quale è possibile solo nel luogo retto e posseduto dalle parole. Credo che di rado sia stata più fermamente sperimentata la qualità empirea della parola impegnata nella ricognizione dell’inferno […] Grazie alla parola, chi ha scritto queste pagine non è mai stata sopraffatta, ed anzi non è mai stata esclusa dal colloquio con ciò che apparentemente è muto e sordo e cieco; la vocazione salvifica della parola fa sì che il deforme sia, insieme, se stesso e la più mite, indifesa e inattaccabile perfezione della forma. Solo angeli e dèmoni parlano lo stesso linguaggio, da sempre”.

Dentro le parole vissero dunque Alda e Giorgio; malgrado tremende raffiche di vento, la loro candela rimase accesa per quasi mezzo secolo: “A te, Giorgio,/ noto istrione della parola,/mio oscuro disegno,/ mio invincibile amore,/ sono sfuggita, tuo malgrado,/ eppure mi hai ingabbiato/ nella salsedine/ della tua lingua […]”. E ancora: “Molta gente mi ha/domandato di te,/come se fosse possibile/domandare a un morto/che cos’era in vita. […] Giorgio, non sono un valzer,/e se l’opera d’arte casualmente lo è,/ è semmai come il valzer triste di Sibelius,/ una cosa amara e dolcissima/ che traligna verso la morte./ Sai, una donna decomposta,/ come sono io,/ un uomo decomposto,/com’eri tu,/ non potevano che trasmigrare/ in due figure di sogno […]” (La palude di Manganelli).

Due figure di sogno reciprocamente inghiottite: è così che ancora oggi li vediamo correre sui Navigli, con le scarpe slegate, tra le pagine del loro Reato di vita, “due ragazzi liberi da ogni impegno, pieni di foglie di mirto e di corallo”.

Marilena Garis

Gruppo MAGOG