“L’arte insegna una libertà pericolosa, antisociale”. Per Philippe Sollers
Politica culturale
La pittura di Marcovinicio si può definire in molti modi, ma certamente non come uno stanco ritorno sulle proprie origini. Senza dubbio, si possono rintracciare dei fili conduttori, un’impronta precisa che, tuttavia, non si cristallizza mai in uno “stile”, nell’accezione più artificiosa del lemma. Le auto-citazioni, ove siano presenti, si caratterizzano anch’esse non tanto come un ritorno sui propri passi, quanto come un approfondimento e un continuo lavorio di ricerca, teso a sviscerare in modo costitutivo determinati aspetti della realtà e, soprattutto, determinate modalità di trascendimento della stessa, qualora venga intesa come immediata ed empirica.
In questo senso, sia il rapporto con “altri mondi” – dimensioni parallele o “escursioni” sciamaniche – che quello con la morte sono da anni al centro della sofferta meditazione estetica del pittore che, tuttavia, lungi dall’abbandonarsi a stanche derive concettualiste, si rivela di fatto coincidente con la propria opera, nella quale si immette totalmente e spesso prepotentemente. L’opera di Marcovinicio, pertanto, assume un carattere mai dubitativo, nonostante la complessità e, spesso, persino l’ambiguità dei temi trattati, ma si configura come fortemente assertiva, con lo stesso utilizzo dell’indefinito che assume una valenza di moltiplicazione – e mai di facile elusione – dei significati.
Le due tematiche al centro di questa mostra torinese dell’artista sono, potremmo dire, perfettamente in linea con i rilievi appena fatti, nel senso che confermano e approfondiscono un percorso pittorico di estrema densità espressiva, senza per questo appiattirlo sulla riproposizione di passati stilemi.
Il tema tradizionale della Vanitas trova, nella pittura di Marcovinicio, una ripresa, da un lato, e una ricreazione dall’altro. Per quanto riguarda il primo aspetto, è il tema della meditatio mortis, da sempre al centro di alcuni filoni – più o meno “sommersi” – della pittura (e della filosofia) occidentale, a risaltare nella sua valenza di cristallizzazione definitiva di un oggetto, di un momento, di una struttura della realtà che della realtà stessa venga contraddire il dinamismo, pietrificandolo nella staticità della realizzazione. In questa serie di dipinti di Marcovinicio, tuttavia, non è solo il riferimento generale a questa tematica classica ad essere pregno di significato espressivo. Diversamente, sono gli stessi mezzi utilizzati a connotare in nuove dinamiche la riflessione sulla morte della tradizione occidentale. Se volessimo fornire un primo riferimento “cromatico”, ci collegheremmo senza dubbio ai “gialli e neri” di una delle fasi più celebri della produzione del pittore, in quanto questa serie amplissima e ripetitiva di tavole sembra a prima vista caratterizzata da tale bivalenza. Se, tuttavia, – stante il carattere non propriamente “cromatico” del nero in generale – i dipinti della precedente fase di Marcovinicio erano caratterizzati da un utilizzo classico del nero, il modo in cui egli se ne avvale in questa nuova fase tende ad andare oltre il concetto predefinito di “colore”. Il nero che egli utilizza qui, infatti, ha una consistenza smaltata che fornisce – a proposito delle due anime di questa mostra e del ponte che l’artista istituisce tra di esse – un effetto quasi di specchio, dando all’osservatore l’impressione di immergersi in un totale vuoto, o di sprofondare in un abisso senza fondo. Per la precisione (senza con questo voler banalizzare un messaggio pittorico che procede al di là di un semplice riferimento allegorico), ci si immerge di fronte a questi dipinti nella morte stessa, intesa come cessazione di ogni riferimento oggettuale, come trascendimento della dimensione empirica, come mistero che si situa in modo totalmente altro rispetto alla realtà “di tutti i giorni”. Il passaggio da una dimensione quotidiana e “innocua” ad una dimensione “altra” è una costante di questa fase complessiva del lavoro del pittore, che è alla continua ricerca di soluzioni inedite di sperimentazione.
Il concetto di “specchio” veicolato dalla Vanitas e quello veicolato dai “dipinti a specchio” propriamente detti è, in ogni caso, molto differente. Se nella prima circostanza il riflesso che l’ipotetico spettatore attinge, anziché trasportarlo all’interno del dipinto, ne fa in un certo senso cessare il collegamento con ogni riferimento oggettuale, nel caso dei dipinti a specchio lo spettatore perde bensì ogni riferimento, ma in quanto costretto a “slittare” su di un piano di realtà ulteriore e difficilmente governabile, nel quale sembra regnare una “logica non logica”, ovvero una logica alternativa rispetto al funzionamento ordinario delle strutture portanti del reale. Non che, nel caso di questa seconda tipologia di dipinti, Marcovinicio non si sia avvalso di spunti di partenza o di riferimenti originari “tradizionali”. Al contrario, in molti di questi “pezzi unici” è ravvisabile un riferimento di partenza volutamente selezionato, e attinto dai più disparati orizzonti (un simbolo esoterico; la rielaborazione di un dipinto del passato; la totale trasfigurazione di una vicenda naturalistica; l’ebbrezza sciamanica, in una ulteriore ripresa delle kamlanie tanto care all’artista). Ad accomunare tali (non) riferimenti, tuttavia, è proprio il carattere non determinante di essi, nel senso che lo spunto empirico è di importanza del tutto episodica, venendo esso comunque assoggettato al filtro dell’operazione di straniamento e di trasposizione nell’orizzonte “altro”. Alterità che, nel caso dei dipinti a specchio, è allusivamente suggerita anche dal tema del contrasto.
Il pittore, infatti, si avvale spesso e volutamente, in questa tipologia di lavori, di espedienti materici, stilistici e supporti “fisici” attinti dalla tradizione: polittici, pseudo-pale d’altare, dipinti di sofferenza religiosa, cornici decorative e barocche a contornare rappresentazioni in cui i punti di riferimento sono del tutto ribaltati rispetto alla pittura “canonica”. Lo stridio che Marcovinicio provoca mediante tali accostamenti è paradigmatico di un modo di interagire con il passato che lo caratterizza appieno: interagirvi non per riproporre, ma per spostare e ridefinire riferimenti classici e significati.
Un altro punto importante di discrimine tra la sezione della mostra dedicata alle Vanitas e quella dedicata agli Specchi consiste per la precisione nel carattere ossessivamente ripetitivo della prima, ove la seconda è invece caratterizzata dalla vorticosa presentazione di contenuti sempre nuovi di cui si scriveva appena sopra. La scelta di esporre su una parete unica i duecento dipinti – pressoché ma non del tutto identici – che compongono la serie della Vanitas non si deve ritenere casuale. Diversamente, essa è dettata dall’esigenza di porre l’ipotetico spettatore di fronte ad una condizione di totale ineludibilità, in cui il tema della morte e dell’impossibilità di sottrarsi completamente alla sua dimensione viene suggestivamente accostato a quello della ripetizione e della perpetuazione come ancoraggio terreno di un essere umano la cui reale consistenza non si rivela che polvere.
Impossibile sarebbe non ravvisare l’enorme contrasto istituito dall’artista tra l’ossessività quasi frenetica nel suo ritmo compulsivo e pulsante della parete ricoperta da innumerevoli, ripetitivi “gialli e neri” e la staticità quasi mistica dei soggetti presi singolarmente, un soggetto di natura morta scelto tra molti altri possibili, rimando ad alcuni esperimenti delle prime fasi del pittore e, al tempo stessi, pervasi da un’atmosfera sospesa già riscontrata in “Silenziosa disciplina”. Sospensione che, però, viene qui declinata in modo del tutto differente dalle solitudini montane e dagli immensi silenzi di spazio e di tempo che avevano caratterizzato quella fase di Marcovinicio. Se, in quel caso, alla frenesia allucinata di alcuni soggetti paradigmatici (le teste mozzate, frequente autoritratto del pittore, tra gli altri) veniva intervallata un’atmosfera meditativa e quasi metafisica, la Vanitas di questa fase non si risolve mai in sfumature meramente contemplative, ma si caratterizza – per la sua stessa stilizzazione, le sue linee dure, il motivo indefinitamente ripetuto – in maniera netta eppure inquietante, assertiva eppure problematica.
Necessario ripetere, infatti, come la pittura di questo periodo di Marcovinicio, ancora più che negli anni precedenti, si caratterizzi per un’assertività e una forza affermativa difficilmente riscontrabili nel panorama contemporaneo. Prerogative che in quest’artista sono senza dubbio – come dovrebbe essere ed è stato per ogni artista grande – riflesso delle inquietudini e delle istanze di un determinato tempo storico, senza per questo che la sua opera renda queste ultime esplicite in una dichiarazione di contenuti da “arte impegnata” o “sociale”, che sarebbe del tutto inadeguata rispetto alla profondità semantica ed estetica del suo percorso. Marcovinicio – come questa mostra palesa una volta di più – non descrive il proprio tempo, ma lo mostra nelle sue problematicità e nelle sue inquietudini attraverso il filtro di una poetica schiva eppure chiarissima nei suoi fili conduttori e nelle sue declinazioni principali. Una modificazione che non è mai dimenticanza, ma tradizione ripresa, interrotta, sprofondata nell’abisso e poi di nuovo portata avanti in un grido disperato ma fermo.
Jonathan Salina