29 Settembre 2019

“Semino e innaffio per poi far marcire tutto”. “Il mulino”, un racconto di Nicolò Locatelli

Tra me ed S. tira un’aria senza ossigeno.

Hai preso tutto? – mi chiede.

Secondo te?

S. alza gli occhi al soffitto poi esce dalla stanza.

Muoviti – dice.

In realtà ero pronto da parecchio, ma non sa più vedere nulla di ciò che faccio oppure sono. Allora esito.

Ce la fai? – grida dal pianerottolo.

Arrivo.

Prendiamo l’ascensore – in realtà non c’è fretta ed S. lo sa bene.

Vieni qui – ordino. Non si muove ma le bacio comunque la guancia.

Fa caldo.

(Quanto è importante per te la provocazione? – mi avrebbe chiesto l’analista dieci mesi dopo. Ancora non potevo sapere che sarei finito qui).

È la mia presenza a farti bollire.

Non ricominciare – dice S.

Ma non dal punto di vista sessuale – proseguo.

Silenzio.

Nel senso che io sono Dio. Decido chi sei e cosa sarai.

Silenzio.

Ti amo.

S. sbuffa in risposta e mi accarezza il braccio anche se dovrei dire tocca. Restiamo così fino a uscire dall’ascensore e poi dal condominio, poi nell’attesa nel parcheggio dall’asfalto sale talmente tanto sole che le nostre fronti si trasformano in delle pozzanghere. Per un po’ mi guardo le scarpe mentre S. scorre il dito sul telefono.

Scusate il ritardo – dice loro madre.

Scusate un cazzo – grida A. – Non sei mai arrivata puntuale nella tua vita.

Allora perché non sei scesa tu intanto? – chiede S.

Mi stavo lavando i denti sciocchina.

S. ride. Quando si trovano sul punto di litigare sua sorella riesce sempre a farla ridere all’ultimo.

Pensate che per fare in fretta io nemmeno li ho lavati.

S. mi guarda schifata. – Davvero? – chiede.

S. ride.

Certo – rispondo. E il bello è che mi hai visto farlo.

Quanto sei sustoso – risponde lei nel suo dialetto.

Sei tu così S. Vuoi che non se li sia lavati? Ha un sorriso… – s’intromette sua madre. E non è vero ma sorrido per ringraziarla. Che altro posso fare.

Entriamo in macchina. Fuori è una Volkswagen ma dentro un forno poi un frigorifero con quattro sedili, cambio automatico e volante.

Quanto ci vuole per arrivare? – chiedo in tono da gita.

Un’oretta – dice A, che si è seduta davanti.

S. sta attenta ad evitare ogni contatto. Anche i più involontari.

E davvero non ci sei mai stato a XXX? – mi chiede loro madre.

No, per noi sarebbe scomodo, abbiamo già…

È troppo simile a dove abita lui perché ci vadano in vacanza. Anzi c’è meno roba a XXX – taglia corto S.

Come mi manca l’estate, non vedo l’ora di andare al mare – dice A.

Siamo nel pieno del viaggio in macchina. Dire viaggio è un’esagerazione ma non saprei come altro definirlo, poi il posto in cui vive S. ha le strade più larghe e tendenzialmente più pulite della Romagna: niente di che ma tutto qui sembra nuovo e da scoprire. Ogni cosa che vedo fa pensare ad una maggiore efficienza – come gli italiani che vivono al confine e per questo si sentono svizzeri o austriaci, cose così. Eppure ai miei occhi l’impressione è che manchi qualcosa. Non so spiegare cosa. Sento solo che è importante. E vado avanti a pensarci finché Cristina non parcheggia, quarantacinque minuti e nove semafori dopo. L’esatta distanza tra casa loro e il posto che devo chiamare XXX.

*

Una volta arrivati facciamo una passeggiata sulla riva ma tira un vento freddo e fino a questo momento insospettabile. In giro non c’è nessuno e della casa che si sono comprate Cristina ha dimenticato le chiavi. Volevano farmela vedere. Era il motivo della gita a XXX.

Dopo varie imprecazioni e qualche Si può sapere dove hai la testa? ci stringiamo attorno al tavolino di un bar a guardarla mangiare un gelato che non dovrebbe. E non dico così perché la trovo in carne. È che cinque o sei giorni fa l’hanno ricoverata per un problema cardiaco. Io stavo dormendo, mi ha svegliato il telefono: era S. ad un orario insolito – lei lavora – quindi doveva essere una questione seria. L’avevo capito subito.

Mia madre ha avuto un infarto.

Piangeva. Si capiva che era preoccupata. E ricordo di aver pensato che allora le voleva bene anche se la trattava in modi orrendi. Ma non mi va di spiegare come, di farlo vedere o altre menate da scuola di scrittura, perché S. ne uscirebbe male e non ne è mia intenzione restituirne una cattiva immagine. Potrei provarci, certo, mentire, nascondere, insabbiare i dettagli e rendere le scene che ho in mente più opinabili, ma se lo facessi finirei per perdermi a caccia di briciole in una foresta per un discorso nemmeno così importante. Non per quello che voglio dire.

Io ed S. non ci parliamo da quando siamo tornati in macchina. Stiamo tornando a casa tutti insieme appassionatamente – dico per dire. Ho provato a fare qualche battuta ma S. si è sempre difesa facendo no con il mento o con altri gesti. Tiene la testa nel telefono e scorre di pollice come partecipasse ad una gara per chi macina più chilometri dentro lo schermo.

Ci fermiamo? – chiede A.

S. alza lo sguardo verso di me, poi lo lancia fuori dal finestrino. Fingo di averlo incrociato per puro caso. Oltre il vetro c’è lo stesso mulino dell’andata. Finché non l’ho visto per la seconda volta, al ritorno, l’avevo completamente dimenticato.

Ma ci fermiamo davvero? Tuo moroso aveva fame – dice loro madre.

Aspetterà – dice S.

Puoi aspettare un attimo? – chiede A.

Certo – rispondo. Ovviamente avevo mentito. Lo scopo era quello di bruciare i tempi per ritrovarmi il prima possibile da solo con S.

Cristina parcheggia sull’erba e scendiamo.

Tra la strada statale e il fiume sorge un mulino rosso e scrostato. È lì da tanto tempo, si capisce, ed è talmente intonato a quel rigagnolo d’acqua da chiedersi chi dei due sia arrivato prima. La soluzione sembra essere il Vecchio: varcata la soglia lo troviamo dietro il banco coperto di verdure. Il banco, non il Vecchio. Lui ha uno scafandro da astronauta o palombaro anche se in realtà fa il contadino. Non so a cosa possa servirgli, ma se avesse indossato anche il casco ci saremmo spaventati.

Arrivo – dice.

Così passano cinque o sei minuti in cui guardiamo la frutta e le verdure esposte. Calamite naturali per lo sguardo. Cristina non fa che ripetere quanto sarebbero piaciute al suo ex marito, A. le osserva distratta ed S. mette in moto la fotocamera del telefono. Poi il Vecchio torna senza divisa da apicoltore e si mette a parlarci nel tono rude di chi appartiene ad altri tempi e ha lavorato con le ginocchia e la schiena piegate per tutta la vita.

Suona un telefono.

Scusate – dico.

È mio padre. Non gli rispondo da mesi. Tocco lo schermo dal lato verde e inizio a parlarci. Intanto cammino.

*

Il posto è struggente e bellissimo. Un tramonto tinge il fiume di rosa dove confina nel cielo, giallo, dietro a banchi di insetti e rami d’albero simili a frustate ferme a mezz’aria. Da un lato c’è solamente campagna, dall’altro scorre la statale battuta da automobili e camion industriali. Mi avvicino all’argine attraversando a mezz’aria la festa di compleanno del capo dei moscerini. Forse uno ce l’ho ancora in bocca. Chiudo la telefonata. Se prima mi sentivo solo adesso sono veramente depresso. Depresso da fare schifo. Torno dentro.

*

Cristina ed A. mi fanno un cenno come a chiedere – Tutto bene?, – ma credo mi si legga in faccia che non è così. Qualcosa si è rotto da tempo e a volte non riesco a fingere che sia diverso. Penso a due anni fa, alla prima volta in cui sono uscito con S. Me lo ricordo bene, aveva un nastro nero attorno al collo – una specie di collana elastica molto stretta – e dato che ormai la conosco e saprei collocarla in quella situazione immagino abbia titubato per parecchio sull’indossarla oppure no. E ora non valgo più il tempo speso per quel nastro. Fa male, certo, ma pensarci è strano perché da quando sono rientrato tutto sa di morte: le carote, le melanzane, le zucchine, le pere, le arance, ogni singola pesca o cetriolo e anche il resto di roba che non so riconoscere. È tutto marcio e invendibile.

*

È il Vecchio a parlarci della morte. Dice che ci pensa ogni giorno e che presto arriverà anche per lui, ma che la sua è stata una bella vita. E che è giusto morire lo ripete due volte, alla fine, poi cambia discorso raccontandoci lo stare nei campi: l’improvvisa soddisfazione di aver reso un terreno fertile, il cercarsi tra le spighe di domenica mattina da bambini e altre cose che erano e non sono più. E più sembrano belle più sembrano perdute. Allora il sapore di morte si moltiplica e frusta, come rami d’albero liberi di assecondare il vento. Quando sono i ricordi felici, a farti stare male, allora sei fregato. Quelli sì che sanno di morte. Come gli occhi di S. e il cuore di sua madre, e poi come A. che vorrebbe fregarsene di ogni cosa come atto di difesa e non ci è mai riuscita. Mai. Nemmeno un giorno della sua vita. E anche questo lo sappiamo tutti ma tutti le lasciano fare. E da quando siamo ripartiti ogni cosa ha lo stesso sapore. Lo stesso cazzo di sapore. Sfrecciamo veloci per sfuggirgli ma ce la portiamo dentro. Penso al cuore di Cristina pronto a esplodere mentre guida e magari, chissà, a trascinarci con lui. E senza baciarli sanno di morte anche gli zigomi di S. racchiusi in quelle sue guance magre, la sua fronte, il culo coperto dai jeans e il buco lì in mezzo – il buco del culo intendo. Di lei amo anche quello e quando ci saremo schiantati contro il guardrail e tra mille anni saremo fossili gli alieni che ci troveranno non saranno in grado di distinguerlo dalla sua bocca. Dovranno studiarci per bene per capirlo. Come noi con gli organismi unicellulari. Ci pensavo da mettermi a piangere lì sul sedile ed S. non mi aveva ancora lasciato, ma sapevo già di averla persa. Perché il Vecchio sono io. Semino e innaffio per poi far marcire tutto.

Nicolò Locatelli

*In copertina: William S. Burroughs (1914-1997)

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