18 Luglio 2023

“Tra le lingue selvagge, per le menzogne dei padri”. Rudyard Kipling, il poeta

Qualcuno ha detto che Rudyard Kipling è stato una specie di Balzac delle giungle; secondo Henry James era una “rauca sirena”: si riferiva, forse, al canto imbevuto di sangue, che ipnotizza terrorizzando, alla sirena che si svolge in vampiro. Supremo Kipling: lo scrittore – secondo la velenosa vulgata – del sole indiano è, in realtà, un enciclopedista di ombre; il cantore dell’impero britannico ne ha denunciato, infine, la fine, l’empireo di sabbie, la feroce stanchezza, la necessità delle ceneri. Per leggere Kipling bisogna entrare nel fango, camminare a piedi nudi, abbandonare il salotto.

Più che altro, per tutta la vita, Kipling è stato uno scrittore di fiabe, secondo i crismi dettati da Cristina Campo: “Pesa su ogni fiaba – pesa su ogni vita – l’enigma impenetrabile e centrale: la sorte, l’elezione, la colpa”. Kipling è scrittore malsopportato, oggi, non tanto per la sua visione ‘politica’ – ormai soprassata, benché lo spirito inglese sia ‘kiplinghiano’ nel profondo – quanto per l’insopprimibile potenza con cui ci pone al cospetto degli impenetrabili: la chiamata, la vendetta, l’odio, la lealtà, il coraggio, la capacità di dare la vita per un altro, per un’idea. Kipling è stato l’ultimo mitografo, capace di definire i suoi eroi in una paradigmatica icasticità. Paragonate – per dire – Mowgli a Lord Jim. La creatura di Conrad è indimenticabile, ha l’inquieto fascino di un uomo moderno, assillato dalle proprie personali Moire, ma resta pur sempre un personaggio, come, chessò, Raskol’nikov, Leopold Bloom, Madame Bovary. Mowgli non appartiene alla storia del romanzo, alla storia della letteratura: egli, piccolo Dioniso, fanciullo-re, idolo della foresta – “poteva veramente sembrare una divinità selvaggia di una leggenda della Giungla” – è l’emblema della nostra infanzia, quando da ogni ombra scaturiva un giaguaro e con le lenzuola costruivamo una selva e una tigre. Mowgli ci corre nel sangue, è una figura emblematica come Ulisse, Don Chisciotte, Peter Pan.

Di recente ho riletto alcuni racconti del Secondo libro della giungla, che raccoglie i testi più belli del ciclo – L’ankus del re e Il cane rosso, ad esempio. Sono racconti per sempre giovani, scritti con una voracità e una sapienza eccezionali, che sfuggono alle norme del testo ‘per ragazzi’. Il tono di Kipling è biblico – i Jungle Book sono analoghi alla Bibbia, puro ‘libro’, sacrario di miti – e assertivo, leggiadro e spietato assieme: capisco perché la sua maestria abbia sedotto Jorge Luis Borges e Horacio Quiroga, narratori dell’aldilà fisico (di amazzonie e luoghi favolistici) e metafisico. La storia di Mowgli si sottrae ai paradigmi dei critici di regime: il bambino selvaggio non obbedisce alla legge, ma la riformula per eccesso; riesce a sopravvivere nella giungla per un sovrappiù di creatività, di curiosità che la legislazione animalesca non ammette; Mowgli dà credito all’insolito, dialoga con le bestie straniere, su cui grava la maldicenza, alterna umiltà e scaltrezza.

Con fervore sciamanico, Rudyard Kipling ha costellato i suoi libri di poesie, di epigrafi liriche, di motti poetici; ha scritto poesie dal ritmo, spesso, indimenticabile. Sono certo che Robert Graves avesse in mente Kipling quando parlava del poeta-druido, in grado di forgiare l’identità di una nazione e al contempo di sfuggire a ogni identità. Le poesie di Kipling continuano a risonare in chi le legge con la stentorea pervicacia di una chiamata: il poeta unisce la perizia del bardo all’urlo del salmista. Leggetele, le poesie di Mr. Kipling, più simili a una formula magica che a una filastrocca, ne resterete atterriti, per la grazia, certo, ma soprattutto per la bellezza livida, che non dà pace. Verità indicibile, ora, finché continueremo a ritenere Kipling a jingo imperialist, come lo sfotteva George Orwell (era il 1942 e ne fu discepolo) e a praticare una poesia rasoterra, senza retroterra, innocua.

In Italia, è stato Franco Buffoni ad aver dato dignità al Kipling poeta (R. Kipling, Ballate delle baracche e altre poesie, Mondadori, 1989), altrimenti – ovviamente, verrebbe da dire – annientato dalla fama del romanziere. Buffoni metteva in rilievo “la vastità della gamma di variazioni metriche e ritmiche (oltre che lessicali) in cui [Kipling] riesce a destreggiarsi con grande facilità”. Una straordinaria versione delle Poesie di Kipling è stata stampata, trent’anni fa, da Nuages, in edizione d’arte, illustrata da Hugo Pratt, il cantore di Corto Maltese, disegnatore esoterista. Le chiavi di lettura per capire il Kipling poeta, comunque, le ha sintetizzate, nel 1941, Thomas S. Eliot, elaborando, per la Faber, A Choice of Kipling’s Verse. Secondo Eliot, Kipling è il più grande tra i “grandi scrittori in versi” – cioè, tra i romanzieri che si sono dedicati alla poesia – restando “così diverso dagli altri poeti”. Di Kipling, Eliot mette in luce il “grandissimo dono per l’uso del linguaggio, la stupefacente curiosità nonché intelligente e sensibilissima capacità d’osservazione… il saper trasmettere messaggi da un altro mondo”. Cosa significa? Che Kipling ha offerto al poeta del Novecento vastità di sguardo – l’esotismo, se vi va, ma ridotto alla sua componente brutale, perfino carnale – e profondità d’intenti. Sulle sue poesie, ripeto, grava il magico, la giaculatoria dell’incantatore di serpenti, la retorica orfica, Mowgli che parla con il pitone e con i lupi, che conosce i verbi della pantera e i codici segreti degli elefanti.

Chi legge Kipling senza paratie critiche si accorge immediatamente della sua funambolica complessità: ogni verso ispira, ogni verbo è seminagione di fantasie. Su tutto grava l’ineluttabile, un mistero plumbeo. Senza Kipling poeti come W.H. Auden e Robert Graves, Ted Hughes e Simon Armitage, sarebbero meno complessi. Che abbia avuto sintonia con Orazio – tradotto nel 1921 –, il poeta-totem, per dire, di Auden e di Iosif Brodskij, non è accidente secondario.

In questo breve esercizio, abbiamo tradotto tre poemetti da The Five Nations (1903), che è forse il più bello tra i libri in versi di Kipling, quello che contiene il temibile The White Man’s Burden. Di solito, il Kipling poeta è riassunto in If, specie di poesia-breviario, pubblicata in Rewards and Fairies (1910): qui giacciono testi con altra marcia. Kipling perse l’unico figlio, John, sul campo, durante la Prima guerra. Alla Grande Guerra lo scrittore della giungla dedica un libro di “Epitaffi” terrei, The Years Between, stampato da Methuen & Co. nel 1919. Fu un successo clamoroso. Il druido, in questo caso, indossa la stola dal fermo e dolente incisore di frasi plenarie, pietose, fatali. La misura cambia: Kipling scopre la caustica solidità degli antichi, i suoi versi paiono estratti dall’Antologia Palatina.

“Mio figlio fu ammazzato mentre rideva per qualche scherzo. Vorrei sapere quale,
Potrebbe servirmi ora, che di scherzi in giro ce ne sono pochi”.

Questo distico si intitola Un figlio. Un altro, La recluta, è di tenera ieraticità:

“Il primo giorno, alla mia prima ora
Nella trincea avanzata, caddi.
(Come a teatro i bambini nei palchi
Si alzano per vedere meglio)”.

Formula sintetizza, specie di esorcismo andato a vuoto, la laida ragione di ogni guerra:

“E se qualcuno chiedesse perché siamo morti,
Dite, per le menzogne dei padri, i loro torti”.

Si uccise continuamente, Kipling, degli imperi sapeva la natura illusoria e la parola che erge. Aveva giungle nel cuore, il ragazzo.

***

Dedica

Prima che esploda tempesta a mezzanotte
e la rabbia divarichi i mari
sai di cosa informano le rovinose onde
conosci il patto che distrugge
il vento senza lacci
che scaccia tutto dalla mente
tranne l’Angoscia, che, come gridano i profeti,
li conquistò, privi di riparo, da un cielo senza cardini.

Prima che i fiumi si congiungano alla terra
nella pirateria del diluvio,
conosci le acque che vanno e quelle che restano
dove è rara la pozza.
Eppure, chi le annoterà
mentre i campi fluttuano,
la carcassa, dilavata, ritorna nella forra
e la tromba si sforza di celebrare i suoi poveri araldi?

Tu sai chi scruta la sfera di cristallo
(per afferrare il nostro Destino),
l’Ombra che, plasmando per prima
ogni cosa, ci prepara una stanza vuota.
Allora, voltati e passa
come alito di vetro
ma intento sulla visione distorta
nessun uomo considera le ragioni della sua venuta.

Prima che gli anni ritornino
intatti ma con occhi stranieri
e gli antichi dèi sportivamente,
come l’assassino Sansone, muoiano,
molti ascolteranno
la gravida sfera:
inchinati sulla nascita e sul sudore, ma – discorso del diniego –
siediti muto oppure – tratto da parte – crolla, debole e vasto.

Eppure, sulla prefigurata necessità
si bilancia l’eterno equilibrio;
che uomini alati possano generare le Parche
che al Fato presto crescano le ali.
Tutto ciò che possediamo
è la nostra piccolezza:
nel degno compito imperiale giacciono
le nostre vite, frammenti del gigantesco giorno.

*

Buddha a Kamakura

“C’è un idolo giapponese a Kamakura”

Voi che percorrete la Stretta Via
dal fuoco di Tofet al Giorno del Giudizio
siate generosi verso i “pagani” che pregano
il Buddha a Kamakura!

Lui è la Via, la Legge, l’Altrove
che tiene Maya tra i meandri del cuore
di Ananda il Signore, il Bodhisattva
il Buddha di Kamakura.

Egli non brucia e non vede
non ti sente mentre ringrazi le tue deità:
non compiere peccato verso
i suoi figli a Kamakura;

liberaci dalla farsa occidentale
che muta l’incenso in profumo
e signoreggia sui miseri peccati della piccola gente
che tiene il culto a Kamakura – 

grige farfalle dai gioiosi riflessi
s’insinuano tra le palpebre del Maestro
al di là di ogni Mistero
del tutto l’amante, a Kamakura.

Qualcuno, scevro da Orgoglio,
senza disdegnare il credo e il suo padrone
sente l’anima di tutto l’Oriente
battere a Kamakura.

Ogni storia udita da Ananda
natività in forma di pesce o bestia o uccello
le mille vite in cui snida il Maestro:
il vento caldo le offre a Kamakura.

Le elitre delle ciglia, cagliate dal sonno,
percepiscono il fiore sotto il suo cranio d’oro:
lo Shwedagon infiamma l’Est
dalla Birmania a Kamakura;

il vento è carico del tuono
dei tamburi tibetani
che gorgogliano Oṃ Maṇi Padme Hūṃ
distanti un mondo da Kamakura.

Eppure, i Bramani governano su Benares
le rovine di Bodh Gaya perforano il colle
e gli zeloti che masticano carne minacciano
il Buddha a Kamakura.

Circo turistico, mera leggenda
brunita massa d’oro e bronzo:
in così poco conto tenete
il sacrario di Kamakura?

Ma quando scocca la preghiera
del mattino, rifletti, prima di passare
alla lotta e al mercato: il Dio umano
è mai stato così prossimo come a Kamakura?

*

Intercessione

(1897)

Dio dei nostri padri, noto da sempre,
Padrone della nostra battaglia
sotto la cui terribile Mano dominiamo
sopra palme e pini – Signore
Dio degli Eserciti, parteggia per noi
non dimenticarci – non farti dimenticare!

Tumulto e fragore si spengono
i capitani e i re svaniscono
resta, fisso, il Tuo arcano sacrificio
un cuore umile e contrito.
Dio degli Eserciti, parteggia per noi
non dimenticarci – non farti dimenticare!

Reclamate da lontano, le flotte fluttuano
sopra dune e valli il fuoco s’incassa
la nostra grandezza, saggiata appena ieri
equivale a Ninive e a Tiro!
Giudice delle Nazioni, salvaci,
non dimenticarci – non farti dimenticare!

Se, ebbri di potere, preferiamo perderci
tra lingue selvagge che non Ti onorano,
tra facezie in uso ai Gentili
o tra le basse genti orfane di Leggi –
Dio degli Eserciti, parteggia per noi
non dimenticarci – non farti dimenticare!

Per il cuore miscredente che ripone la sua fede
nel fetido fucile e nella ferrea scheggia
valorosa polvere che polvere innalza
per la sentinella che non Ti implora
per la frenesia della chiacchiera e le parole folli –
Misericordia sul Tuo Popolo, Signore!

Amen

Rudyard Kipling

Gruppo MAGOG