07 Maggio 2020

Erri De Luca, il rivoluzionario della penna impegnato a scrivere sempre le stesse cose. Dissezioniamo lo scrittore più sopravvalutato d’Italia

«Ah, sì: nel frattempo, a Parigi, gli studenti organizzarono un carnevale e lo chiamarono rivoluzione» (Adam Michnik, tra i fondatori di Solidarność e direttore della Gazeta Wyborcza).

Che da noi lo scrittore Erri De Luca sia un mostro sacro è fuori discussione. Vecchio campione della sinistra movimentista, rigorosamente ortodosso e intransigente nei giudizi, simbolo di una generazione che si è quasi dissolta, gode dell’attribuzione da parte dei media di una pesante caratura letteraria (sorvolando sulla celebrità acquisita per l’istigazione a delinquere nei noti sabotaggi ai cantieri del TAV, al grido “je suis erri”). Per farsene un’idea basta compulsare un paio di recensioni apparse su Tuttolibri, il supplemento culturale de La Stampa.

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“«Non sente la montagna chi non sente / questa farfalla…». Potrebbe essere gozzaniana l’epigrafe di Il peso della farfalla di Erri De Luca. Se solo si distingue: mentre il Bel Guido supino nel trifoglio fugge la Storia, lo scrittore napoletano nell’agone della natura fa i conti con un tempo passato, ma sempre in agguato, contemporaneo. Forse solo uscendo dal proprio mondo se ne può afferrare il bandolo, eventualmente il cuore di tenebra. Il peso della farfalla è (anche) una stagione tragica che depone la maschera attraverso la favola, un esame di coscienza velocissimo come un colpo di fucile, e schietto, non ansioso, anzi, di assoluzione («Non era pentito, non poteva risarcire il torto… I debiti si pagano alla fine»). (…) Di malga in bosco, di vento in fulmine, montalianamente imparando che non può nascere l’aquila dal topo, arrotando l’estremo duello. Nobile. Perché se «con gli uomini il peggio era possibile di nuovo», al cospetto della farfalla che dantescamente «vola a la giustizia sanza schermi» dare e ricevere la morte può essere unicamente un atto cavalleresco”.
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Qui basta cogliere i termini dell’adulazione: montalianamente; dantescamente; il cuore di tenebra; con le immagini diamantine e la gioventù tra i rivoluzionari a fare da marchio di nobiltà. Ancora: “Erri De Luca è un orologiaio delle parole. Nella sua officina, le circumnaviga, le sfiora, le accarezza, le scompone e le ricompone, febbrilmente scoprendone l’armonia, il senso, le combinazioni che offrono. Mantenere, per esempio, ovvero tenere per mano. È il respiro di Il giorno prima della felicità, l’indimenticata storia di formazione napoletana apparsa nel 2009; è la fedeltà che via via si modella in I pesci non chiudono gli occhi, la fortunata fabula fresca di stampa. (…) Se i «rivoluzionari» nostrani avessero, come i pesci di De Luca, tenuto gli occhi aperti, non calandovi sopra i passamontagna, evitando così di stravolgere, di sfregiare, di umiliare l’invocazione di Isaac Singer: «Io credo nella misericordia, non nel rigore della legge»…”.

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Quasi sempre elegiache le recensioni ai suoi libri, di cui queste sono solo un campione. Ma, come in altri casi, I pesci non chiudono gli occhi (Feltrinelli, 2013), ambientato nel tempo perduto dell’infanzia, non fa che riproporre per la millesima volta la scoperta di se stessi in prima persona: la fanciullezza, l’incontro con il primo amore, il corpo che cambia, eccetera. Nulla di originale, ma proprio nulla: lo stesso stile ripetitivo, mono-misurato, apodittico e sentenzioso, come se il compito restasse quello di riproporre con piccole variazioni lo stesso personaggio, ovvero Erri De Luca che afferma se stesso. Il sé che pretende di mettersi al centro per “essere” letteratura, applicando gli stessi attrezzi retorici che portano a un medesimo punto: la formazione del ragazzino con doti straordinarie, che non gioca a pallone e preferisce la lettura solitaria, e che per questo viene malmenato dai coetanei ottusi e invidiosi. Un topos talmente diffuso, quello dell’apologia dello sfigato, che De Luca è costretto a nobilitarlo con i suoi affondi stilistici («il latte cagliato nel cervello», la «dissenteria degli occhi») per portare il lettore ai significati autentici dell’amore e della giustizia.

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Significativo, per intendere meglio il personaggio, quanto ha scritto Marco Ciriello su il Messaggero recensendo l’ultimo libro: «Si gioca la carta del tenero, Erri De Luca, scrivendo la sua lettera a un bambino mai nato, con Il giro dell’oca (Feltrinelli), ma a differenza di Oriana Fallaci la forma epistolare diventa intervista. E via con il ripasso delle puntate precedenti: Erri e i rifugi antiaerei a Napoli, Erri e la madre, Erri e il padre, Erri militante di Lotta Continua, Erri muratore, Erri operaio della Fiat a Torino, Erri che traduce dall’ebraico, Erri autista di camion lungo le strade della ex Jugoslavia, Erri scrittore, Erri scalatore, fino ad Erri a pezzi e senza un figlio. Chi si è perso i libri precedenti può leggere questo, chi li conosce può saltare il compendio».

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Dunque, persiste l’ego assoluto di Erri De Luca. Il quale, oltre a muoversi montalianamente e dantescamente, a ogni nuova uscita evoca parallelismi letterari nobili (Molnár, De Amicis, Gozzano, Singer ecc.) uniti a manifestazioni di giubilo sulla stampa che conta. E anche la rivoluzione sembra una cifra ossessiva, se non della letteratura deluchiana, del suo personaggio tutto. Da sempre Erri De Luca sostiene con orgoglio di aver fatto parte dell’«ultima generazione rivoluzionaria del ’900»: «Da giovane ho aderito a lungo a una gioventù rivoltosa e comunista che ripeteva il motto: il proletario non ha nazione. Gli operai, gli sfruttati, secondo quella convinzione, erano compatrioti di altri come loro oltre i confini, ben più che dei loro concittadini di ceto borghese. Perciò patria è un termine fuori dal mio dizionario e forse lo sto scrivendo qui per la prima volta». (A piena voce, Nottetempo, 2008)

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Una «generazione rivoluzionaria», quella di De Luca, «sconfitta politicamente e militarmente». Infatti, «Come lo intendo io, terrorismo è quello di piazza Fontana, di piazza della Loggia a Brescia, quello che aveva collusioni con poteri dentro lo Stato e che è stato assolto». Niente anni di piombo, di cui rifiuta anche solo la definizione: non è mai stato terrorismo, ma militanza. Anzi, di più: «La violenza è stata lo strumento politico di un secolo di rivoluzioni. Dal punto di vista del ’900, è stata una forza promotrice del miglioramento di miriadi di masse umane». Non lo sfiora l’idea che abbia anche causato la morte di milioni di persone: le magnifiche sorti e progressive della rivoluzione lo giustificano ampiamente, secondo il fatidico doppiomoralismo ortodosso.
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«Un uomo è quello che ha commesso. Se dimentica è un bicchiere messo alla rovescia, un vuoto chiuso» (Il peso della Farfalla, Feltrinelli 2009).

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Riepilogando, Erri De Luca si è fatto da sé, ha esercitato diversi mestieri (operaio, camionista, muratore ecc.) e ha avuto un importante impegno politico nell’organizzazione di Lotta Continua, in particolare nel “servizio d’ordine” (leggi: bastonature) durante le manifestazioni di piazza. E nel 1989 è divenuto lo scrittore della coscienza civile, colui che medita e ricerca, nell’alveo della tradizione artistico-intellettuale della sinistra più autentica e radicale, quella che oggi sembra avviarsi all’estinzione.

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Chiunque voglia fare considerazioni su Erri De Luca scrittore non può prescindere da alcune cifre: dal 1989 a oggi ha pubblicato 68 titoli solo nella narrativa, escludendo la produzione accessoria di poesia e teatro. Un’impresa che appare notevolissima, considerando il tasso di produzione media degli scrittori italiani e internazionali; un’evidenza tale che già nel 2009 il critico letterario del Corriere della Sera Giorgio De Rienzo lo definì “lo scrittore del decennio” (come più tardi, dagli schermi televisivi, Fabio Fazio avrebbe definito Francesco Piccolo «il più prestigioso intellettuale italiano»). La sua opera, vista nel complesso, sembra voler sviscerare porzioni di mondo attraverso una laconicità espressiva spinta, volta a ridurre e asciugare il dire: “orologiaio delle parole”, come si è letto sopra. I suoi racconti si presentano come parabole, offrono profezie, guardano nel fondo dell’avventura rivoluzionaria dell’uomo attraverso lezioni antiche (come le sempre ostentate traduzioni bibliche dall’ebraico). Ma il loro limite intrinseco – e determinante – è che lo fanno attraverso l’ego di un autore che pervade tutto e, quel che è peggio, rimane uguale a sé stesso nei decenni, da un secolo all’altro, senza un fiato di evoluzione, senza un aprirsi d’orizzonte, sempre a dare le stesse martellate alla stessa incudine, limitandosi a colorare di suggestione le scintille che ne escono.

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Sotto il profilo quantitativo, il numero di pagine delle opere di Erri De Luca è sempre bassissimo: può variare da un minimo di 25 (Senza sapere invece, Nottetempo 2008) a un massimo che supera raramente le 120. Il suo romanzo d’esordio Non ora, non qui (Feltrinelli 1989) inaugurò con 100 pagine quella che sarebbe diventata la “misura aurea” deluchiana. Il peso della farfalla (Feltrinelli 2009) ne ha solo 70; E disse (Feltrinelli 2011) ne conta 89; La doppia vita dei numeri (Feltrinelli 2012) ne ha 69. Tutti libri molto smilzi, volumetti con poche pagine che talvolta si riducono a opuscoli. Offerti come condensati di narrativa, distillati di letteratura, sublimati di esistenza che, a detta degli estimatori, vuol essere anche poesia. Ma che si rivela, alla resa dei conti, un furbo format per produrre profitti secondo uno schema semplice quanto efficace.

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«È la più certa prova d’amore quella di un uomo che cambia parere per essere d’accordo con la donna»
(In nome della madre, Feltrinelli 2006).

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Innanzitutto, ad alimentare il fenomeno deluchiano è l’inevitabile dissoluzione dell’egemonia culturale della sinistra, che per cercare di sopravvivere si è imposta lo sforzo di coltivare e mantenere in vita quelle immagini e suggestioni che richiamano i temi e lo spirito dell’antico impegno politico militante, della cultura dell’eguaglianza sociale, delle istanze dal basso, dell’ideologia popolare che – nelle intenzioni – dovrebbero continuare a permeare l’immaginario collettivo. Immaginario che invece se ne va per i fatti suoi, perché chi compra i libri di Erri De Luca lo fa per motivi completamente diversi, che nulla hanno a che fare con la riscossa del proletariato o con la giustizia sociale o con la rivoluzione.

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In secondo luogo, a imporre il modello della cifra breve deluchiana sembra essere la stessa casa editrice, che lanciò l’autore trent’anni fa. Poiché la struttura organizzativo-aziendale del gruppo Feltrinelli è da tempo diventata uguale alle altre realtà capitalistiche, che sfruttano sia le opportunità di mercato sia – in maniera feroce – la propria forza-lavoro, la parte editoriale del business mantiene la necessità di “imbiancare il sepolcro”, per dare l’impressione di non aver rinnegato l’ideologia marxista che ha costituito la matrice di nascita della casa editrice. E anche per contrastare la diluizione culturale della sinistra mainstream, ormai ridottasi all’onda radical-chic di matrice baricchiano-piccoliana.

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Ma, soprattutto, il modello Erri De Luca – fatto di volumetti sottili la cui veste grafica offre un appeal largamente superiore alla sostanza del contenuto – risulta particolarmente redditizio, perché il prezzo di copertina di ogni volume, non potendo scendere sotto una certa soglia (sempre per motivi di appeal legato al prodotto), supera molto abbondantemente i costi di stampa e distribuzione. Di fatto, il profitto “per pagina pubblicata” di ogni volumetto deluchiano è più che doppio rispetto ai libri di altri scrittori e scrittrici. Quest’ultimo aspetto, quasi unico in Italia, offre anche un’altra importante sinergia: dieci opere di 80 pagine ciascuna, tutte improntate a un medesimo sentire e riconducibili a un progetto narrativo unitario ma frammentato in più uscite annuali, equivalgono a due opere di 400 pagine, ma offrono un ritorno economico e d’immagine cinque volte superiore, dovuto al fatto che si viene recensiti e segnalati e pubblicizzati dai media – con insistenza e convinzione quasi ideologiche – dieci volte anziché due. Con una presenza costante sul mercato e sui media, in pratica un’occupazione permanente.

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«A riempire una stanza basta una caffettiera sul fuoco» (Tre cavalli, Feltrinelli 1999).

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Ne Il torto del soldato (Feltrinelli 2012), volumetto di 88 pagine, l’autore parla di un vecchio criminale di guerra che vive con la figlia, la quale non vuol conoscere i suoi capi d’accusa, stretta fra la repulsione e il dovere di accudire il padre. In La doppia vita dei numeri (stesso anno, stesso editore) le pagine calano a 69. Un fratello e una sorella giocano a tombola a Napoli la notte di Capodanno, ma apparecchiano per quattro, vivendo le altre presenze. Con Ti sembra il caso? Schermaglia fra un narratore e un biologo (Feltrinelli 2013) le pagine salgono a 101, ma sono scritte a quattro mani; dunque, all’autore ne andrebbero imputate una cinquantina. In Storia di Irene (stesso anno, stesso editore), in 109 pagine si narra di una bimba salvata in mare dai delfini, che cresce orfana in un’isola greca. Raramente uno scenario è stato più evocativo, visto che abbraccia tutte le varie metafore della cultura di sinistra. Il mare viene paragonato al grembo materno, la ragazzina ha la pelle «fitta di peluzzi gialli, uno strato di fiori di ginestra. L’odore è salmastro, di barca da pesca».

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Anche qui, le metafore poetiche cercate a tutti i costi perdono efficacia e portano a una resa estetico-narrativa che deraglia nell’improbabile. «Certi giorni sull’isola ho i sussulti di felicità di un cane che non la trattiene e un po’ se la sgocciola addosso». E Irene, che mangia pesce crudo e allontana le api con sterco di capra, rimane misteriosamente incinta: «nessuno conosce chi è stato a mettersi sopra Irene». Nemmeno noi immaginiamo chi possa essersi messo sopra una ragazzina che mangia pesce crudo e si strofina con lo sterco; in ogni caso, le metafore del mare greco, dell’isola con le capre, della ragazzina ingravidata dallo spirito, dell’autore che diventa bottiglia con la ragazzina che «è la vita che cerca posto nel mio sottovetro» sembrano tutti indici di un declino che avanza. Ormai i contenuti scarseggiano, e andando avanti l’attitudine dell’autore a poetare con il racconto sta mostrando la corda.

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«Si ottiene dal mare quello che ci offre, non quello che vogliamo. Le nostre reti, coffe, nasse, sono una domanda. La risposta non dipende da noi, dai pescatori» (Tu, mio, Feltrinelli 1998).

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In questo mare si prende questo pesce, è il detto. Verrebbe da pensare che ad alimentare l’ego e la produzione letteraria di Erri De Luca sia il bisogno del lettore “non ricercante”, abituato a trovare conferme nelle cose che si ripetono, che danno rassicurazione e che attestano la bontà del proprio “aver letto” senza troppo sforzo. Non a caso, molte recensioni dei lettori cominciano con un trionfante: «Letto d’un fiato», che sembra la chiave di tutto.

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Per concludere, possiamo citare il critico Massimo Onofri, che parlò di un «neodannunzianesimo proletario» sotteso alla prosa dell’autore: «una scrittura rarefatta, concentrata, di una sapienzialità e una ieraticità che dissimula appena la sua radice piccolo borghese. È un fenomeno interessante a livello di sociologia della letteratura, perché i libri di De Luca, che coniugano il sublime con il comunismo o il post-comunismo, forniscono facilmente ai fans la patente di anima bella e politicamente corretta. Il metro dell’ideologia, se vale per smascherare i cattivi scrittori, non aiuta a trovare i veri».

Paolo Ferrucci

Gruppo MAGOG