Favoloso Calvino, ovvero: contro l’iper-canonizzazione di uno scrittore
Politica culturale
Salvatore Ritrovato
“All’uscita della biblioteca potevo attraversare la strada e procedere sul lato opposto fino al negozio di alimentari, ma significava passare davanti all’emporio e agli uomini seduti fuori. I maschi del paese si mantenevano giovani spettegolando, e le femmine invecchiavano aspettando in silenzio che figli e mariti tornassero a casa, mentre una grigia stanchezza malvagia s’impossessava di loro”.
(Shirley Jackson, Abbiamo sempre vissuto nel castello, traduzione di Monica Pareschi, Adelphi 2009, pag. 11)
Nel confessare il nostro debole per Shirley Jackson, autrice americana del Novecento – generalmente definita “horror” per semplificarne il portato disturbante –, non possiamo non ringraziare Monica Pareschi, che molto ha contribuito a farcela amare. E oggi è di lei che vogliamo parlare, cominciando col dire che, con un’ottantina di libri tradotti e due raccolte di racconti pubblicate, Monica Pareschi non può essere definita semplicemente una traduttrice che scrive, e nemmeno una scrittrice che traduce, perché entrambe le formule sarebbero riduttive. La scrittura letteraria, nel suo caso come in pochissimi altri, vale sia da protagonista sia da vicaria, perché fa da legante in una condizione esistenziale che sa essere definita e sfumata insieme, senza attribuzioni, in cui proprietà e appropriazione si fondono. Volendo partire dal lato “vicario”, possiamo citare fra le sue traduzioni Doris Lessing, James G. Ballard, Edith Wharton, Muriel Spark, Christopher Isherwood, Paul Auster, Claire Keegan, Bernard Malamud, tutta Willa Cather. E, per tornare a Shirley Jackson, ci piace citare un passo “pareschiano” da L’incubo di Hill House:
“L’occhio umano non può isolare l’infelice combinazione di linee e spazi che evoca il male sulla facciata di una casa, e tuttavia per qualche ragione un accostamento folle, un angolo sghembo, un convergere accidentale di tetto e cielo, facevano di Hill House un luogo di disperazione, tanto più spaventoso perché la facciata sembrava sveglia, con le finestre vuote e vigili a un tempo e un tocco di esultanza nel sopracciglio di un cornicione. (…) Quella casa, che sembrava quasi aver preso forma da sola, assemblandosi in quel suo possente schema indipendentemente dai muratori, incastrandosi nella struttura di linee e angoli, drizzava la testa imponente contro il cielo senza concessioni all’umanità”.
Per la nuova traduzione di Wuthering Heights di Emily Brontë, edita da Einaudi, Monica Pareschi ha vinto nel 2020 il Premio Internazionale Von Rezzori e il Premio Letteraria, e nel 2023 il Premio Fondazione Capalbio per l’einaudiano Piccole cose da nulla di Claire Keegan. Considerato che la traduzione più celebre di Cime tempestose rimaneva quella dell’editor di Mondadori Enrico Piceni, risalente a quasi cento anni fa, è intuibile il beneficio che ne ha tratto il romanzo, vissuto per decenni nel nostro immaginario come la storia di un amore impossibile in chiave romantica, grazie anche alla complicità delle versioni cinematografiche che ne hanno offerta una lettura popolare. In realtà Wuthering Heights è una storia dura, tagliata con l’accetta sotto l’aspetto narrativo e stilistico, piena di non detti, con spunti di violenza che all’epoca – uscì postumo nel 1847 con lo pseudonimo maschile Ellis Bell – non erano concepibili in un romanzo, tanto meno se scritto da una donna. “Si tratta sì di un libro sulla passione amorosa, ma che non augureresti al tuo peggior nemico: l’amore è visto come una cosa infernale, sebbene sia quel sentimento assoluto che tutti vagheggiamo”, sono le parole di Pareschi. Certamente è un romanzo che ha scardinato tutti i canoni del tempo, anticipando di fatto gli stilemi del romanzo novecentesco.
L’ultima sua traduzione di un grande classico è Tess dei d’Urberbille di Thomas Hardy, nella collana BUR, il romanzo del conflitto irrisolvibile fra i personaggi e il destino, dello scontro permanente che deriva dalle “dinamiche e relazioni di potere legate al genere, alla classe, al determinismo costitutivo dei rapporti sociali”, come rileva Pareschi nella nota introduttiva. Proprio la sua passione per la letteratura del periodo tardo-vittoriano l’ha legata a Thomas Hardy, anche per gli scampoli di lirismo ancora romantico che l’autore riesce ad alternare a certe descrizioni quasi espressioniste della natura campestre, a volte crude, che già sembrano voler virare verso il modernismo.
Come sappiamo, tradurre è interpretare, e talvolta riscrivere; ed è innegabile che l’attività di traduttrice influenzi quella di scrittrice, quanto meno attraverso una metabolizzazione di autori e autrici su cui si è lavorato, naturalmente con la successiva e necessaria liberazione della voce propria. E la scrittrice Monica Pareschi si era già manifestata nel libro di racconti È di vetro quest’aria (Italic Pequod, 2014), un insieme di atmosfere rarefatte, di personaggi in attesa, resi con un linguaggio sorvegliatissimo e incisivo, parco ma raffinato, scolpito nell’indefinitezza dei luoghi e dei tempi, nello straniamento da ciò che sta intorno e sembra scorrere con un’indifferenza quasi crudele. Anche l’amore, tema variamente declinato, non porta a scioglimenti canonici, resta un filo conduttore che non sembra offrire risoluzione.
Un modo analogo di affrontare il reale lo troviamo oggi in Inverness, la nuova raccolta arrivata in libreria per la collana Interzona di Polidoro Editore. Otto racconti in cui Monica Pareschi torna a mostrare la sua vera sostanza di scrittrice: l’attenzione – o meglio, la vocazione – per la lingua e lo stile, resi concreti come pietra, che fanno da ossatura alla narrazione invece di essere il contrario. Storie che arrivano e accadono, così come la scrittura avviene e si dipana senza che le storie possano forzarla. Racconti che possono nascere da un piccolo nucleo, come ammesso dall’autrice, che sia un’immagine che insiste, che resta e crea dissonanza o disturbo, o “una situazione infettiva, un prurito”. Una cosa piccola che si apre mantenendo una sua forza. Due racconti nati in questo modo ed evoluti lentamente, ad esempio, sono Primo amore, sorto dall’incontro con una coniglia in un contesto di campagna nella sua identità profonda, e I gabbiani, dove le immagini germinali si sono dilatate e hanno preso corpo in un processo lento, capace di sviluppare situazioni e atmosfere ambientali che avvolgono il lettore.
Quando Pareschi dice di “scoprire quello che sto facendo mentre lo faccio” ci fa pensare a una specie di mindfulness della scrittura, dove ognuno di questi racconti può rendersi incompiutamente conchiuso. Per usare le sue parole, “i personaggi si proteggono, temono ad aprirsi alla realtà, vista come portatrice di insidia. Perfino il bacio sconfina in cannibalismo amoroso, in perdita d’identità, e così l’ambivalenza nell’aver bisogno dello sguardo dell’altro che ci definisce, ma allo stesso tempo la paura di essere cannibalizzati da quello sguardo”. E anche lo sguardo dell’autrice sull’uomo può diventare crudele, come accade in Fiori:
“Da vicino, e in quella luce crudissima, il collo di lui le parve molle e accapponato, i lobi delle orecchie stranamente allungati, la pelle chiazzata e arrossata qua e là, irta di peli grigi sfuggiti al rasoio. Cercò l’odore ruvido di fumo e cuoio che chiamava maschile, e quel fondo dolcemente stomachevole di pelle attaccato alla stoffa dei vestiti che da anni l’accoglieva nell’intimità di lui. Lo trovò, e ne fu nauseata”.
Questo sguardo “un po’ distortivo, decostruttivo, chirurgico”, come osserva lei stessa, qui ci ricorda il Gulliver di Jonathan Swift quando, rimpicciolito come un pupazzetto, vede la mammella della balia talmente ingrandita da rivelare “macchie, pustole e lentiggini che nulla si poteva vedere di più nauseabondo”. E anche lo sguardo sulla natura è tutto particolare, ben lontano dagli sdilinquimenti bucolici dei cosiddetti scrittori-con-tisana di oggi, quelli che sentono “il richiamo della foresta” e, ombelicalmente, si connettono con sé stessi. Per darne un’idea, confrontiamo due diverse visuali stilistiche e sostanziali di Monica Pareschi. Nella prima dà voce a un passo descrittivo di Tess dei d’Urberville:
“Tra i tiepidi fermenti e la pienezza trasudante dell’ubertosa valle del Froom, in quella stagione in cui sotto i fruscii della fecondazione sembra quasi di udire il flusso degli umori, era impossibile che persino l’amore più immaginario non si facesse appassionato. Gli animi già pronti che l’abitavano erano impregnati di ciò che li circondava. (…) L’aria del posto, così fresca in primavera e all’inizio dell’estate, era ora immobile e snervante. I suoi aromi intensi gravavano su di loro, e a mezzogiorno il paesaggio sembrava cadere in deliquio. Bruniture etiopiche avevano scurito i pascoli più alti, ma a valle, dove l’acqua mormorava nei fossi, l’erba era ancora d’un verde brillante. (…) Passate le piogge, le colline erano aride. Quando il lattaio tornava di gran carriera dal mercato, le ruote del calesse smuovevano la polvere della strada principale, lasciandosi dietro una coppia di nastri candidi, come se avessero dato fuoco a una sottile striscia di polvere”.
Nella seconda, prende lei il timone autoriale e offre il suo sguardo modernista nel racconto Primo amore:
“In campagna è così, pensa la bambina. La gente sputa, tutto puzza, gli animali si mangiano tra loro, in casa entrano i topi, nessuno prova schifo per niente, dove ti giri ci sono cacca e mosche, frutta marcita a terra, fogliame fradicio, vermi che strisciano, l’odore forte che esce dalle stalle, cavalli che defecano spostando la coda di lato, con l’anello di carne rosa che si dilata, le grosse palle nere di merda che escono da dietro e cadono una dopo l’altra spiaccicandosi a terra. E ancora mosche e mosconi sulle palle nere spiaccicate, una piccola bestia pelosa buttata sul ciglio della strada, la pelliccia inutile e svuotata, la testa girata a un’angolatura impossibile, le fauci spalancate con la chiostra urlante dei denti, la pancia squarciata brulicante di larve. In campagna si nasce, si marcisce e si crepa, così ha detto una volta sua madre”.
Questo ribellarsi e fare a pezzi, dunque straniarsi dalla canonica componibilità del reale, non ha nulla a che vedere con certe produzioni oggi in voga, come le cosiddette “scritture femminili” che da più parti si cerca di teorizzare, perché qui non si è alla ricerca né di un’identità né di un’affermazione o riconoscimento socio-culturale, tanto meno di una visibilità più o meno omologata. Qui non ci sono istanze da portare avanti, come fanno molte scritture che s’incanalano nel mainstream identitario, che insistono nell’autodefinirsi per aggregarsi e farsi riconoscere in una prospettiva ideale, con questioni come “posizionamento”, “ruoli di genere”, “scrittura e legittimazione” e così via.
Monica Pareschi è altro, non si perde in intenzioni o ideologismi, semplicemente genera letteratura nella sua sintesi archetipicamente post-moderna, perché le è consustanziale, ne è parte. Così ci prende per la collottola e ci mette al cospetto della realtà per come è, per come ci plasma e ci scortica senza curarsi delle nostre istanze e illusioni. La sua prosa, anche quando simula distacco emotivo, ci prende in pieno e ci porta al grado zero, per purificare il campo da tutte le scorie e farci risalire verso la letteratura, mostrandoci come il reale, quello che ci governa a prescindere da noi, spesso non ci ama. Spesso la realtà si vendica, disobbedendo a quei propositi che volevano ingabbiarla, perché si vive nella contraddizione, non nella – rassicurante – identità. La realtà esiste solo come azione reciproca delle parti che la compongono, e il desiderio, che promuove una tendenza all’estremo, viene inesorabilmente ridimensionato. Passioni e istanze fra loro inconciliabili si risolvono in violenze mimetiche, nascoste sotto gli strati della quotidianità.
Monica Pareschi appare anche molto sensibile ai paesaggi nordici, alla luce, alla freddezza dell’Oceano. In Inverness, l’ultimo racconto che dà il titolo alla raccolta, due amiche giovanissime si lanciano in un viaggio in autostop dirette proprio verso quel gelido nord della Scozia, di cui cerchiamo di immaginare lo scenario.
“Andremo fino a Inverness, dico. P. mi guarda con aria interrogativa. E perché? Mi piace il nome, rispondo. Quello che non dico è che è un nome pieno di sole e di luce ghiacciata, azzurra. Un nome che contiene l’inverno”.
E subito viene in mente un film del 2020 con Jude Law e Blake Lively, The Rhythm Section, scritto e diretto da Reed Morano. A Londra una ragazza in piena perdizione incontra un giornalista che la interroga perché sta indagando su un incidente aereo in cui è perita l’intera famiglia di lei. Per la sua indagine, il giornalista dice di ricavare le informazioni da un agente dell’MI6 caduto in disgrazia, e la ragazza, decisa a risalire a questa fonte, fruga fra le cose del giornalista finché individua le coordinate del luogo dove quell’uomo misterioso si nasconde: Inverness. Così prende un torpedone e arriva in mezzo a quei monti scuri e freddi, in cui la quasi assenza di colori sembra opprimere corpo e mente, dove il piombo dei laghi, la durezza e le proporzioni del paesaggio evocano un disegno morfologico in cui l’essere umano non è che una particella che deve sopravvivere. E lì subisce un’iniziazione che la trasformerà radicalmente.
Questo è forse il racconto più personale e più duro della raccolta, il più rivelatore.
“Inverness, quel nome che ho scelto perché ha un suono puro e gelato, come un turbinio di neve sottile nel vento, quel nome che è una visione azzurra e smagliante, di acqua e montagne. Il cielo adesso si è coperto, è di un grigio ottuso, uniforme”.
Ma ora, per concludere, vogliamo tornare all’inizio e dire che Monica Pareschi ci ha fatti anche innamorare di un gatto: Jonas, che segue come un compagno di vita Mary Catherine, la protagonista di Abbiamo sempre vissuto nel castello di Shirley Jackson.
“Fuori la giornata era piena di luce cangiante, e Jonas seguendomi danzava fra le ombre. Quando mi mettevo a correre correva anche lui, e quando mi fermavo di colpo si fermava a guardarmi, poi si allontanava con passo spedito in un’altra direzione, come se non mi conoscesse, e infine si sedeva in attesa che mi mettessi di nuovo a correre. Eravamo diretti al campo d’erba alta, che oggi sembrava un oceano, anche se io l’oceano non l’avevo mai visto; l’erba si muoveva al vento mentre le ombre delle nuvole la percorrevano in un andirivieni continuo, e si muovevano anche gli alberi in lontananza. Jonas sparì nell’erba, così alta che camminando mi sfiorava le mani, e avanzò a piccoli balzi sghembi; per un momento l’erba si piegava tutta da una parte sotto il vento, poi si vedeva avanzare una scia rapidissima, ed era Jonas che correva. (…)
Non era davvero necessario fare tanta attenzione, perché nessuno veniva mai a cercarmi lì, ma quando me ne stavo distesa dentro con Jonas volevo essere sicura che non mi avrebbero mai trovata. Mi ero fatta un letto di rami e foglie, e Constance mi aveva dato una coperta. Tutt’intorno e sopra di me gli alberi erano così fitti che il mio nascondiglio era sempre asciutto, e la domenica mattina mi mettevo lì con Jonas ad ascoltare le sue storie. Tutte le storie di gatti cominciano con questa dichiarazione: «Mia madre, che è stata la prima gatta, mi ha raccontato…», e io avvicinavo la testa e ascoltavo”.
Paolo Ferrucci