«Tu deponi i tuoi bei versi come una gallina le uova, senza averne coscienza».

Gustave Flaubert all’amante Louise Colet

Questa frase, schietta e univoca, può ben introdurre il saggio del critico Alfio Squillaci Chiudiamo le scuole di scrittura creativa!, edito nel 2020 da Edizioni Gog: un pamphlet ragionato e preciso, equilibrato, che con un criterio sistematico e distaccato ci spiega che senso possono avere oggi i proliferanti – meglio, infestanti – corsi di “scrittura creativa” in cui finiamo per imbatterci ovunque giriamo il naso. L’argomento, che è bene sviscerare, viene affrontato partendo da un riferimento agli “scrittori prolifici”, quelli che, avendo avuto un riscontro di pubblico, vengono obbligati dall’editore a deporre uova quasi senza fermarsi, al totale servizio del mercato: “Riguardo agli scrittori prolifici, c’è da dire che avranno scritto tanti romanzi ma in fondo hanno scritto sempre lo stesso o che la loro opera non sia altro che una grande variazione sul tema. Tanto valeva fermarsi a uno solo. Loro avrebbero risparmiato fatica, noi tempo”. Ecco, su questo non si sarebbe potuto essere più chiari. E poco dopo arriva un’altra agnizione per il lettore:

“Che il romanzo sia stato fin dal 1716, data di uscita di Robinson Crusoe, storia di una vita, racconto di una crisi, rintracciamento della curva di un sentimento, incastro di avventure proliferanti; che abbia preteso distrarre, istruire, ammaestrare, far vivere un eroe, suscitare un universo, è sempre quella trappola di un cumulo di parole tesa a uncinare i lettori nel maggior numero possibile con i suoi ingredienti semplici: raccontare una storia (senza storia non c’è romanzo), mettendo in scena degli eventi e degli esistenti, seguire il loro svolgimento cronologico ma soprattutto logico, condurre il costrutto narrativo allo scioglimento (ogni narrazione ha una fine e un fine) seguendo di solito i quattro tempi che per pura coincidenza sono quelli, secondo i sessuologi Masters & Johnson, dell’atto creativo per eccellenza, il coito: a) preliminari; b) sviluppo operativo; c) acme; d) scioglimento”.

Insomma, il romanzo può essere visto come una grande scopata. Questa presa di coscienza, così perentoria e incontestabile, così perspicua, ci ha indotti a interpellare l’autore, che per oltre un ventennio ha esercitato una critica indipendente e acuta, libera da condizionamenti, nel suo sito La frusta letteraria, che oggi prosegue nella seguita pagina sul social facebook.

Fra le prime cose di cui si prende atto nel suo libro vediamo quella che sta alla base di tutto: “Se c’è un bisogno, c’è un mercato. Se c’è una domanda, c’è un’offerta”. Venendo alla questione specifica, la diffusione delle scuole di scrittura rientra, come afferma, nel generale processo di americanizzazione del mondo: da Babbo Natale all’Albero, dalla festa di Halloween al Black Friday nei centri commerciali, e così via. L’omologazione e il conformismo sembrano configurare una specie di bisogno generale inconscio: in un quadro così, dove regna la smania di essere pubblicati, l’opera degli “insegnanti” – spesso improvvisati – e degli editor più o meno professionali diventa invasiva, quasi esiziale nel manipolare i testi degli scrittori o aspiranti tali e nel condizionarne le scelte. Dunque: vietato usare termini difficili, come quelli extra-vocabolario-medio, per intenderci; lei cita un passo da una lettera di Gustave Flaubert che non potrebbe essere più rivelatore su ciò che accade oggi: «Poniamo che un giornale pubblichi cinque romanzi, siccome questi cinque libri sono corretti dalla stessa mano o da un comitato che ha lo stesso cervello, ne risultano cinque libri uguali».

Non ho mai lavorato in una casa editrice ma suppongo che ci siano almeno due tipi di editing: quello che interviene sugli errori materiali (o anche fattuali come spiegherò) e quello che interviene sullo stile, sull’anima, di un testo. Il primo non solo è legittimo ma direi anche necessario. La scrittura è attività laboriosa, complessa, faticosa e l’errore materiale, la coquille come la chiamano i francesi, è sempre in agguato. Sto leggendo in questi giorni il mio dodicesimo romanzo finalista Strega Nina sull’argine di Veronica Galletta e mi imbatto in questa frase. «Un lungo elenco querulo, redatto con l’auto di un avvocato amante delle incidentali e con una buona dose di ironia». È chiaro che quell’auto è un errore di battitura, una coquille, dovrebbe essere aiuto, «con l’aiuto di un avvocato, ecc», ma è sfuggito all’editor se mai l’abbia letto. Ci sono poi errori che riguardano anche la conoscenza delle lingue antiche per esempio. Mi è capitato di leggere in un testo nientemeno che di Alberto Arbasino, un «Olim sacerdos, semper sacerdos» a luogo del corretto «Semel sacerdos semper sacerdos» e nel mio stesso testo, ahimè, m’è scappato un «tropo» a luogo di un «topos» che non ho potuto correggere (spero di poterlo fare in una prossima ristampa). Poi ci sono errori di logica o di cronologia nell’incastro di un plot. A Flaubert, autore che cito spesso perché è lo scrittore che più ha riflettuto sulla propria arte di narratore in una serie di lettere stupefacenti raccolte nel suo immenso Epistolario (Correspondance, 5 voll. anni vari nell’edizione Pléiade), capitò un infortunio di cui non si accorse (lui scrupoloso com’era, tanto da avere attacchi di ebetudine davanti a un suo testo che non “girava”) e cioè che una sua protagonista, Rosanette dell’Educazione sentimentale cade incinta nel ’48 e partorisce nel… ’51. C’è poi un altro ordine di errori che più che fattuali come quello di Rosanette, chiamerei redazionali sui quali non so se sia giusto intervenire. Un errore di questo genere capitò allo stesso Flaubert, un gigante della narrativa mondiale. Ed è in Madame Bovary. Come a tutti noto la Bovary è raccontato dal punto di vista del narratore onnisciente (che sta fuori della narrazione, extradiegetico direbbe Genette). Ma se lo si riprende in mano si vedrà che il romanzo inizia con un «Eravamo nello studio…» ossia con il narratore che sta dentro la narrazione (intradiegetico, ancora Genette). Accadde che Flaubert inizialmente aveva immaginato una storia della sua esperienza scolastica su un tipo buffo che entrava in classe, e da qui il fatto naturale di immaginarsi dentro la sua storia che stava raccontando. Certo, questo narratore intradiegetico lentamente sparisce e non lo si incontra più, sostituito dal narratore spinoziano deus absconditus che è in tutta la narrazione ma non si vede. Questo di Flaubert è un errore che con tutta probabilità una scuola di scrittura creativa avrebbe corretto con il lapis blu. Nei fatti non se n’è accorto nessuno… tranne Pier Paolo Pasolini, che rileva il fatto in Descrizioni di descrizioni. Infine c’è il secondo tipo di editing: la correzione violenta, l’editing vigoroso che interviene sulla struttura e sullo stile del testo come quello di Gordon Lish sul lavoro di Raymond Carver. Ecco, questo tipo di editing lo trovo aberrante e snaturante. Qui interviene ancora il nostro Flaubert che aggiungeva alle parole riportate nel mio testo: «Un’individualità non si sostituisce ad un’altra. Un libro è un organismo complesso. Orbene, ogni amputazione, ogni cambiamento operato da un altro, lo snatura. Il libro potrebbe essere meno malvagio, non importa, non sarà più esso».

E arriviamo al cosiddetto howtoism, o manualismo selvaggio, che realizza la missione del pragmatismo americano nell’insegnare e diffondere tecniche per poter esercitare qualsiasi attività, compresa quella “creativa”. Una specie di facile proselitismo, esercitato con le false prospettive di una teorizzazione viziata. Il fatto che i corsi di scrittura insegnino tecniche da applicare non solo nella messa in pagina, ma anche nella creazione, non può aver altro esito che l’incanalamento, l’indicazione normativa, la precettistica formale – più o meno mascherata – che traccia le vie da seguire. Da qui l’ossessione per il plot, per la performance, fino a giungere allo storytelling onnipervasivo (un’aberrazione che può tradursi in “raccontare balle”). Così si toglie sostegno alla personalità individuale, che invece dovrebbe potersi esprimere per intuizioni e rivelazioni, secondo una coscienza intonsa, non condizionata. Come giustamente lei osserva, quando con la scrittura si crea, il narratore e il narrato sono tutt’uno, non possono essere smontati, e pensare di “estrarre” quella narrazione da quel narratore per inquadrarla in un formalismo che diventa riproducibile, attraverso l’insegnamento, è improduttivo e dannoso.

Qui sta il cuore del problema. Tutto nasce dal fatto che si ritenga costitutivo della narrazione la storia. Ora, è chiaro a tutti, dai formalisti russi ai narratologi inglesi (il delizioso E.M. Forster, Percy Lubbock, Henry James ecc) agli strutturalisti francesi (R. Barthes, G.Genette o J. Greimas) che la storia è consustanziale alla narrazione. Questo è pacifico. Gerard Genette (in Figure III) lo dice in due parole: se c’è un verbo d’azione, cito a mente, «Georges andò a Parigi» o la classica frase di Paul Valéry, «La Marchesa uscì alle cinque», ebbene abbiamo già un mini romanzo, una narrazione. Ma, come dico nel mio testo, la storia è l’elemento servile per appoggiare un significato, la storia è il momento in cui un significato tocca terra. La storia non esaurisce la narrazione. Altrimenti sarebbe una cronaca nuda e cruda. Il genere romanzo, a differenza della tragedia classica alla Racine per intenderci, richiede, una medietà comunicativa, è vero, dunque una storia gradevole e comprensibile. Ma attenzione: la narrazione non può e non deve chiudersi nella bella storia da raccontare, da architettare. Qui sopraggiunge ancora Flaubert che nel suo Memorie di un pazzo scrive: «La mia vita non sono i fatti, la mia vita è un pensiero». Ora, è successo che a partire dalla seconda metà dell’Ottocento la narrativa s’è divaricata. Da un lato quella con le storie ben architettate e uncinanti (il feuilleton, progenitore delle serie), e sarà quella narrativa che il critico francese Sainte-Beuve chiama littérature industrielle. A questo tipo di narrativa che possiamo chiamare con la formula “Storia forte autore debole” si oppone l’altra, chiamiamola narrativa d’autore, quella che avrà proprio Flaubert come capostipite. Questa narrativa che possiamo definire con la formula “Storia debole autore forte” avrà il focus del suo irraggiamento non più nella storia ma nell’epifania, in uno sguardo gettato sul mondo, nell’esperienza unica e irripetibile di un autore che segna con la propria intelligenza creativa un semplice plot per svelarci un mondo, il suo mondo, e dal quale angolo visuale impareremo anche noi a conoscere il mondo in sé, attraverso i loro occhi. Sono autori che generano un aggettivo: Shakesperiano, Musiliano, Flaubertiano, Pirandelliano, Sveviano, ecc. Ora, se per la narrativa seriale le scuole di creative writing sono più che necessarie, qui non ci sono scuole che tengano. Non si può insegnare a Flaubert essere Flaubert a Joyce Joyce a Musil Musil. Qui interviene l’apoftegma di Zola per il quale la scrittura è «una sezione del reale attraversata da un temperamento». Da un carattere, una personalità. È lo stile, quello stile che non si può insegnare, perché è l’espressione di quella personalità, unica e irripetibile.

Certi pessimi risultati della “industrializzazione” si possono vedere anche in questi giorni, lei li ha osservati nel recensire, su Gli Stati Generali, due dei romanzi finalisti del premio Strega 2022, quello di Alessandra Carati e quello di Marco Amerighi. Come riassume nel suo spazio social: “I due autori, dicono le cronache, sono ghost-writer e addentro all’editoria. Si sospetta che metterebbero così a frutto le tecnicalità e la precettistica delle devastanti scuole di scrittura creativa. Il risultato è anodino, anonimo, sconfortante. Secche frasi nominali, prevedibili sbocchi di periodi narrativi in dissolvenza, sfumature effettate, surplus di levità che sconfina nel flou, immagini e metafore abusate, ancora noia. Alcuni carotaggi.

«Il mondo reale, estraneo e ostile, perdeva contorni definiti fino a diventare evanescente.»

«Gli impiegati rimanevano a guardarci da dietro i vetri, come pesci di un acquario.»

«Il cuore mi batteva forte, mi sono nascosta sotto il letto. Sdraiata sulla schiena, nella penombra, stavo aggrappata al mio respiro come a un cavallo senza redini.»

«Ha chiuso gli occhi e sono rimasta a guardarlo in un tempo solo mio, mentre il sole basso illuminava la città e ammorbidiva tutti gli spigoli»”.

Insomma, sembra che i danni dell’howtoism e delle velleità “scritturacreativistiche” si stiano diffondendo sempre più, soprattutto nel brodo di coltura dei social, andando a infettare i Premi letterari più importanti, che già non godevano di buona salute, a dire il vero.

Non conosco personalmente i due autori. Ho ricavato le informazioni circa la loro attività nel mondo dell’editoria da una recensione cumulativa, molto bella, di tutte le opere in concorso allo Strega di Gianluigi Simonetti (critico sopraffino, ben più titolato e informato di me) il quale nel “Sole24Ore” del 20 giugno u.s. dice che «Amerighi come Carati ha un passato di ghost-writer» ecc. Ma per altro verso l’esordiente Jana Karšaiová  con Divorzio di velluto, non malvagio e con le sue attrattive, si sente in debito nella nota finale di ringraziare il suo tutor alla scuola di scrittura creativa da lei seguita. Cerco di essere equilibrato e il più possibile discosto da polemiche tribali. A me interessa quella scrittura che mi riveli in quanto lettore una modalità del visibile, anche se non nuova, attraente ed emozionante. Voglio la scrittura, ne voglio troppa (come quella della Ranieri), e soprattutto buona. E sono convinto che tale scrittura nasca da una sorgiva e irripetibile esperienza individuale di un incontro col mondo, cui una scuola di scrittura creativa forse, chissà, potrebbe rivelare incidentalmente, magari con un insegnante particolarmente dotato, un Flaubert redivivo, che potrebbe funzionare come il diario di bordo di un navigante per Verga o lo spedizioniere genovese per Gadda… come un’illuminazione per vedere meglio in se stesso.

Come scrive a pagina 59, citando Émile Zola: «la cosa peggiore è quello stile pulito, che scivola via in modo facile e molle, quel diluvio di luoghi comuni, di immagini consuete che fa esprimere al grosso pubblico il giudizio allettante “È scritto bene!” E no! È scritto male, dal momento che non ha una vita propria, un sapore originale, anche a spese della correttezza e della proprietà della lingua». Questo fa venire in mente una delle frasi più comuni che troviamo nel sub-lettore entusiasta: “Si legge d’un fiato!”, come se questo conferisse il pregio supremo, quello che gratifica e santifica allo stesso tempo, apponendo il visto di approvazione. Invece è il classico indice del risultato mediocre, riproducibile, standardizzato, che non può servire ad altro se non a muovere la cassa dei denari e le macchine della stampa, degli editor, della distribuzione, fino a intasare le librerie. La negazione di quella che si chiama letteratura, che è anche improvvisazione, esperimento, stile personale che ha una logica propria. Davvero avvilente.

Non ho nulla da aggiungere a queste parole. Balzac scriveva male (secondo Flaubert), Dostoevskij è prolisso e ridondante e per giunta si avvale spesso di plot popolareschi come il giallo o di storie d’appendice come nei feuilleton francesi. Scrivere bene vuol dire nient’altro che questo: raggiungere una temperatura personale, uno stile, che è una maniera assoluta di vedere le cose e dare a noi lettori degli scorci attraverso i quali conoscere e ri-conoscere il mondo interiore che ci assedia e quello esterno che ci circonda. E per far ciò la scuola della vita basta e avanza. E infine c’è la scuola di sempre: leggere i Maestri. Lo dico ancora con Flaubert: «Si sta attaccati al culo dei maestri come nel passato. A ripetere sempre le stesse anticaglie umanistiche ed estetiche».

Gruppo MAGOG