Ancora, per fortuna, attrae e atterrisce, lascia attoniti, intontiti per eccesso – come si guarda il mare dalla cima di una scogliera, l’onda si frantuma, bianca, e pensi di poterlo annodare al dito indice, quel bianco, pare un nastro di nebbia, protetto, senza scambio di sangue. “Cime tempestose è un’altura solitaria, che si eleva da un’esperienza di vita che mi confonde… è un racconto visionario che mantiene ancora la sua capacità di sconvolgere il lettore comune”, scriveva Harold Bloom, installando Emily Brontë tra i geni letterari di ogni tempo, nello stesso ‘girone’ – mi riferisco al libro, audace e felice, Il genio – di Virginia Woolf e Jane Austen. Come si sa, quel libro, pubblicato nel 1847 da Thomas C. Newby, a Londra, con il velo dello pseudonimo, Ellis Bell, sconcertò i lettori vittoriani: “Wuthering Heights è una storia spiacevole”, scrisse l’“Athenaeum”, “non esiste un personaggio che non sia totalmente odioso… o disprezzabile” lo bacchetta l’“Atlas”. Su tutto aleggia una bruma demoniaca, convergono un poco tutti, pur riconoscendo che l’orrore attrae, che quel “libro strano, che confonde ogni critica regolare” è “impossibile iniziarlo senza finirlo” (così il recensore del “Douglas Jerrold’s”), dacché, in effetti, è una specie di sortilegio che tiene sotto scacco e sotto incanto, intontisce, appunto, e strazia. Il romanzo, diamante oscuro della letteratura inglese, dissanguò, letteralmente, l’autrice, Emily, che spirò di lì a poco, nel dicembre del 1848, dopo il fratello amato e sregolato, Branwell (che morì in settembre). “Profonde, appassionate, le sue felicità sono state la poesia, gli animali, le brughiere, la sua famiglia: in loro trovava libertà e pienezza. La morte non le è nemica: che ci sia o meno un «mondo splendido» dove liberarsi della propria prigione, le darà almeno l’atteso riposo ma deve somigliare alla “sua” terra per valere la pena di scoprirlo. Per compiacere Charlotte ha esposto il cuore agli artigli della Londra letteraria ma Ellis Bell resta una creatura solitaria”, scrive Paola Tonussi – da cui ho reperito molte notizie – nella raffinata biografia dedicata a Emily Brontë, edita da Salerno nel 2019. Libro miliare e inesorabile, “un diavolo di libro, un incredibile mostro”, lo diceva Dante Gabriel Rossetti, Cime tempestose è stato tradotto innumerevoli volte – la prima edizione, per i Treves, è del 1926, lo hanno ‘maneggiato’, tra i tanti, Elio Chinol e Bruno Oddera, Bruna Dell’Agnese e Margherita Giacobino, Beatrice Masini e Marta Barone – così che la versione Einaudi per mano di Monica Pareschi (già eccellente traduttrice della sorella di Emily, Charlotte, e di Bernard Malamud, di Doris Lessing, di Shirley Jackson, James G. Ballard, Paul Auster) è un piccolo evento editoriale. Nel mio privilegio di lettore, oltre a interrogare chi ne sa più di me, mi sono messo a fare un esercizio. Alcuni passi di Cime tempestose (questo, ad esempio: “Il suo insediamento a Wuthering Heights portò un’indicibile angoscia. Mi convinsi che Dio avesse abbandonato la pecora smarrita alle sue abiette peregrinazioni, e che una bestia feroce se ne stesse acquattata tra la casa e l’ovile, pronta a balzare e a seminare distruzione”) mi hanno ricordato il Cormac McCarthy più arcaico e biblico, in bilico sugli assoluti. L’osservazione mi ha fatto sorridere. Forse Emily Brontë – cioè il suo mefistofelico specchio, Heathcliff – è il remoto modello, l’idolo, del Giudice Holden che sparge terrore e innocente spietatezza lungo quel mattatoio superbo intitolato Meridiano di sangue. (d.b.)
Parto con una domanda generica. Qual è l’‘attualità’ formale e letteraria del capolavoro di Emily Brontë? Voglio dire, che senso (inteso come: significato) ha oggi leggere “Cime tempestose”? Piuttosto, che impressione (da lettrice che anatomizza le parole) ti ha dato?
Comincio dalla seconda parte della domanda, dell’impressione o meglio delle impressioni che in diverse fasi ho avuto di Cime tempestose. Avevo letto il libro da ragazza, credo intorno ai quindici anni, quasi di nascosto. Imperversavano i tardi anni Settanta, gli anni di piombo, i collettivi studenteschi. Io ero una ginnasiale timida che desiderava in primo luogo uniformarsi, essere accolta nel grande abbraccio rassicurante dei pari, come la maggior parte degli adolescenti. Gli adolescenti impegnati, ai tempi, leggevano altro, o fingevano di leggerlo. La narrativa dell’Ottocento non era esattamente cool; a parte i testi-bibbia dei filosofi del comunismo, dalle sacche di noi studenti usciva molta roba sudamericana, o francese, rigorosamente novecentesca. Le idee, ecco, credo cercassimo questo in ciò che leggevamo: e dunque molta saggistica, e poi autori come Sartre, Malraux. Tra gli italiani Fenoglio (che curiosamente di Cime tempestose scrisse un adattamento teatrale) e Pasolini. Forse c’entrava l’equivoco che leggere dovesse insegnarci qualcosa, nel nostro caso a essere liberi, a raddrizzare le storture del mondo. Qualcuno, volenteroso, lesse Dickens, forse in omaggio a Marx. Io avevo già letto Balzac e Stendhal, ero stata ipnotizzata da Mathilde de la Mole che folle di dolore gira con la testa di Julien Sorel decapitato in un cesto – la follia, dunque, l’elemento gotico all’interno di un romanzo così politico e realista come Il rosso e il nero – ma i romanzi delle sorelle Brontë in Italia erano ancora considerati libri per signorine, letture da ragazze da marito. Immagino che più del libro, così strano e bizzarro rispetto alla letteratura coeva, in Italia si conoscesse il film di Wyler del ’39, che prevedibilmente accentua l’aspetto romantico a scapito degli elementi più perturbanti. Tieni conto che la prima traduzione italiana è del ’26. Lo lessi e, credo, lo misi da parte spiazzata. Quel mondo chiuso, pietroso, claustrofobico non dovette rivelarsi funzionale al mio progetto di autoeducazione e di crescita, di apertura al nuovo. Poi venne l’università, gli anni Ottanta, i primi seminari di Women Studies importati dagli USA. Improvvisamente una grossa fetta di letteratura (femminile ma non solo) venne sdoganata, si incominciò a leggere con occhi diversi, con uno sguardo più sottile. Il godimento, la lingua e, direi, l’intelligenza della scrittura, tornarono a essere al centro dell’esperienza. Si scoprì che si poteva parlare degli uomini e del mondo, della loro ipocrisia, crudeltà, grettezza, pusillanimità, e del loro coraggio, della loro nobiltà, descrivendo le dinamiche in atto in un salotto della provincia inglese, dove l’attività più perseguita era combinare matrimoni, mentre altrove avanzavano le truppe napoleoniche. Nemmeno allora mi soffermai più di tanto su quel libro, preferendogli le sottigliezze austeniane, lo sperimentalismo della Woolf, le amatissime Dickinson e Plath. Rilessi Cime tempestose nei primi anni Novanta. A quel punto ero un po’ meglio equipaggiata: nel frattempo, credo, avevo imparato a leggere. Avevo anche letto molta poesia anglosassone, e, per un periodo, parecchi testi mistici, da Angela da Foligno, a Marguerite Porete, alla Nube della non conoscenza. Mi parve, appunto, un romanzo mistico, la storia di un’anima che si sdoppia e parla a sé stessa, un’anima in guerra con sé stessa, un’anima dannata (imperscrutabilmente e doppiamente dannata, secondo l’etica protestante) che nell’impossibilità di riunirsi si lascia morire, o meglio si dà la morte; e però un’anima pagana, che nella morte non si ricongiunge a Dio ma alla terra, alla roccia, al vento. Ed è come se quella grande guerra interiore non potesse combattersi che in quei pochi ettari di brughiera, nell’isolamento dal mondo, in assenza di mondo. Il mondo, in Cime tempestose, è un altrove innominato: è il luogo dove le cose cambiano. Cime tempestose, l’amore e l’odio che vi si svolgono, sono il luogo dell’immanenza: la roccia, la natura che è tutt’uno col personaggio e il suo nome: Heath-cliff. Tutto questo per dire che leggiamo ogni opera del passato con occhi inevitabilmente nutriti del nostro presente, e non può che essere così. I classici sono i libri che superano la prova del presente perché dal presente traggono nuovi significati.
Sul piano formale, è noto come il libro abbia spiazzato a lungo i critici contemporanei: è come se il romanzo vittoriano ai suoi albori contenesse già i germi della sua distruzione. Saltano i capisaldi della narrativa del tempo, con una cinquantina abbondante di anni d’anticipo rispetto alle avanguardie novecentesche. La narrazione è multipla, a scatole cinesi; non c’è progressione né educazione dei personaggi, tipica del romanzo borghese – se si eccettua la coppia Catherine figlia-Hareton nessuno cambia idea, prospettiva, strategia, posizione sociale ecc. Coppia questa che fa pensare sì a una conciliazione finale, ma che allo stesso tempo decreta l’immobilità e l’endogamia a cui è condannata anch’essa, visto che i due sono cugini. Anziché un andamento progressivo, come per esempio in Jane Eyre, che avevo tradotto prima, dove le vicissitudini portano a un punto di vista diverso del personaggio, lo mutano profondamente sul piano materiale e spirituale, insomma lo educano, qui non si va da nessuna parte. I personaggi, isolati da qualunque contesto sociale, sono costretti a un andirivieni perpetuo tra i poli opposti e speculari delle due dimore, Wuthering Heights e Thrushcross Grange, come in una sorta di supplizio infernale. Tutto ciò che avviene in termini di cambiamento sociale (la ricchezza acquisita di Heathcliff, la fuga al sud di Isabella Linton) rimane vago, avvolto nella nebbia, come se non fosse pertinente al nucleo della storia: un nucleo selvatico, primitivo, uno scenario ideale per lo scatenarsi di passioni divoranti, nel segno dello Sturm und Drang. Allo stesso tempo, se guardiamo alla struttura del libro, si dovrà aspettare parecchio tempo prima di assistere a uno sgretolamento altrettanto radicale e nichilista del romanzo borghese.
Come hai lavorato nella lingua della Brontë e che peculiarità ha questa lingua? Ad esempio: hai tenuto conto delle molte traduzioni precedenti e dei reperti critici intorno al romanzo? Tradurre significa anche rivivere la vita di una scrittrice così particolare come la Brontë o è preferibile compiere un freddo esercizio di chirurgia retorica?
In un romanzo fatto eminentemente di voci, spesso discordanti tra loro, ho cercato in primo luogo di restituirne una differenziata a ciascun personaggio-narratore. Quindi una voce il più possibile “abbaiante” a Heathcliff (per cui nell’originale si sprecano le metafore canine e lupesche); una a Nellie, al cui superficiale buonsenso è affidata la parte più cospicua della narrazione; e a Lockwood, lo straniero e primo narratore, una voce in cui risuoni tutto lo scetticismo dello straniero beneducato che si ritrova in un mondo alieno, dove la crudezza delle passioni non conosce filtri. C’è poi la questione della resa del dialetto dello Yorkshire in cui si esprime la servitù e in particolare il servo Joseph, figura grottesca e quasi caricaturale nella sua malevolenza puritana. Nell’impossibilità di ricorrere a termini dialettali o comunque troppo geograficamente connotati, ho lavorato in parte sul lessico e in parte sulla sintassi, nell’intenzione di ricostruire un identikit espressivo adeguato al personaggio: una lingua stralunata e grottesca, da predicatore ubriaco. Per il resto, la lingua di Emily, come già ampiamente argomentato da Virginia Woolf, è una lingua fortemente poetica – e poeticamente controllata – alla quale è necessario aderire il più possibile senza cedere ad alcuna semplificazione. Impossibile, almeno per me, tenere conto di tutto il materiale critico, anche solo nelle lingue che leggo, e delle numerosissime – a questo punto lo sono – traduzioni. Di solito in questi casi ne tengo quattro o cinque, più o meno recenti, sulla scrivania, che consulto per chiarirmi certe ambiguità testuali, o anche per orientare certe mie scelte stilistiche, non necessariamente in contrapposizione con quelle di chi si è confrontato prima col testo. Va da sé che il lavoro di chi ci ha preceduto è sempre prezioso, sia come materiale di confronto sia come spunto per tentare altre strade. E no, non sono un’appassionata di biografie di scrittori. Se il relativo isolamento in cui è vissuta Emily, l’essere stata la figlia di un pastore protestante, cresciuta orfana di madre in una casa dove molti morivano da bambini, aver avuto un fratello alcolizzato e poi dedito all’oppio possono aver avuto un peso nelle circostanze esterne del suo romanzo e nella genesi di alcuni tra i suoi personaggi, credo che le ragioni di un’opera così visionaria e allo stesso tempo così sapientemente costruita vadano ricercate all’interno dell’opera stessa.
Ritaglia una frase, un capoverso che a tuo avviso è indicativo della tensione narrativa e linguistica che trasuda da “Cime tempestose” (un brano, intendo, che ti soddisfa in particolar modo)?
Uno scambio, nella seconda metà del libro, tra Catherine figlia e Linton Heathcliff, suo cugino e poi marito, che illustra bene, all’interno di un solo capoverso, quella rigida simmetria (riscontrabile persino nei nomi dei personaggi) che costituisce l’ossatura del romanzo, come una sorta di gabbia, quella dialettica binaria che qui è ben esemplificata dall’idea di movimento in Cathy e quella di stasi in Linton. “A un certo punto però abbiamo rischiato di litigare. Lui diceva che il modo migliore di passare una calda giornata di luglio era starsene sdraiati da mane a sera su un pendio d’erica in mezzo alla brughiera, con intorno il ronzio irreale delle api tra i fiori, e il canto delle allodole lassù, e il sole forte che splende senza sosta in un cielo azzurro e limpido: era questa la sua idea perfetta di felicità celeste. La mia invece era cullarmi tra la verzura frusciante di un albero, con il vento che soffia da ovest, e nuvole candide che scorrono rapide in alto, e non solo allodole ma anche tordi, e merli, e fanelli, e cuculi, e la loro musica che si riversa da ogni parte, e la brughiera in lontananza, interrotta da forre cupe e fresche; e, più vicino, tutto un ondeggiare di erba alta che il vento gonfia in enormi flutti, e boschi, e un risonare d’acque, e il mondo intero desto e pazzo di gioia. Lui voleva tutto disteso in un’estasi di pace; io che tutto scintillasse, e danzasse in una grande, magnifica festa. Io ho detto che il suo cielo sarebbe stato vivo a metà, e lui che il mio sarebbe stato ubriaco; io ho detto che nel suo mi sarei addormentata, e lui che nel mio, non avrebbe respirato e ha cominciato a irritarsi molto…”. (p. 281 dell’edizione Einaudi)
Come traduci? Cioè: che strategie, che spergiuri, che manovre adotti per ‘assalire’ il testo, per evitare che l’esercizio diventi automatico, ripetitivo, anonimo?
Ho bisogno di un leggio – ne ho uno bello solido, di legno, regalo di un amico traduttore, e uno pieghevole, di metallo, da infilare in valigia –, di un computer portatile che da qualche anno è un Mac, di un libro cartaceo, sempre più difficile da ottenere in quest’epoca editorialmente frettolosa, di una matita, di una penna, di alcuni fogli di carta su cui scarabocchiare ipotesi di traduzione o scarabocchiare e basta. I gesti apotropaici sono semplicissimi, prosaici. Preparo il file impostando il carattere – ne uso tre o quattro a seconda dell’umore – scrivo sul frontespizio il nome dell’autore e il mio in corpo 14, il titolo in corpo 16. Mi faccio un’agenda di massima che prevede un numero di cartelle ragionevole a settimana; l’agenda cambierà molte volte diventando sempre più compressa e ansiogena per adattarsi ai piccoli e grandi imprevisti della vita. Non leggo mai prima il libro che devo tradurre; ovviamente, come nel caso dei classici, può capitare che l’abbia letto in un altro momento, ma la lettura per me non è mai funzionale alla traduzione. Mi piace lasciarmi attraversare dalle parole, dal ritmo della scrittura, con meno preconcetti possibile. È un po’ il contrario di quello che dici tu: non sono io ad assalire il testo, è il testo ad assalire me. Conosco traduttori che prima di mettersi a tradurre leggono attentamente l’originale, anche più volte, in un certo senso appropriandosene. Nel mio caso la lettura è la traduzione: quindi una lettura lenta, verticale, minuziosa, piena di interruzioni e strappi. A volte c’è un’accelerazione, un momento di felicità in cui le parole scorrono più veloci sotto le dita, in cui il ritmo dell’originale è miracolosamente in sintonia con il nostro respiro. Sono momenti di felicità quasi fisica, ma sono rari. La prima stesura è perlopiù faticosa, a volte tediosa, piena di dubbi e di lacune. Non credo si sfugga a questa fase: all’inizio, è davvero uno sporco lavoro. Un libro è qualcosa di concreto, pesante, corposo e corporeo, fatto di carta, di pagine, di caratteri. È un peso che va trasportato da un’altra parte. C’è un aspetto molto fisico nel tradurre. La scrittura non è un’attività naturale, il corpo ne risente. Le spalle, gli occhi. La postura. Tutto questo per dire che gli automatismi, la noia, la ripetitività sono una parte abbastanza cospicua di questo lavoro. Mi piace molto la fase in cui rivedo e aggiusto il lavoro “sporco”, di miniera: diciamo che dalla seconda stesura in poi tutto si fa più sottile, più raffinato. Lì se sei fortunato senti la musica, il ritmo, il testo è diventato anche tuo, è un’altra cosa rispetto all’originale ma una cosa in cui l’originale risuona forte e bene, una sua vita ulteriore. Del tradurre mi piace in primo luogo l’ordine che dà alla mia vita. Mi piace come scandisce le mie giornate, che senza questa attività sarebbero molto più informi, caotiche, dispersive. Mi piace la quieta disciplina che impone. Lavorare sulle parole mi permette di vivere in una dimensione soprattutto interiore, che è quella dove sto meglio. Né sopra né sotto le righe – non sono una traduttrice umile, solo una donna un po’ sociopatica – ma in mezzo.
Dimmi: il libro che ha formato la sua giovinezza, che ti ha ‘cambiato la vita’; quello che vorresti tradurre.
I libri che si leggono per primi sono davvero i più importanti, credo. I miei primi libri adulti, quelli che ho pescato un po’ a caso nella biblioteca dei miei genitori, sono stati quelli di Pavese. Non mi hanno cambiato la vita ma sono abbastanza certa che hanno modificato la mia lingua di traduttrice. Immagino ci sia un nucleo linguistico-affettivo che viene da lì, una specie di lingua madre letteraria. Altri libri che ho letto prestissimo e di cui conservo un’impressione forte: I Buddenbrock, Il rosso e il nero, Madame Bovary, Diario di una giovinetta di un’Anonima viennese, in realtà una psicoanalista della cerchia di Freud e membro della Società Psicoanalitica di Vienna, anche questo trovato nella biblioteca dei miei. Me lo ricordo come un libro perturbante e bellissimo. Se potessi scegliere, vorrei che un editore mi affidasse un grande libro di racconti: possibilmente i Dubliners di Joyce.
Dimmi: il libro che sei stata più felice di tradurre (magari in forme inattese); quello che ti ha messa più in difficoltà.
Sono sempre felice di tradurre i libri di Alice McDermott, un’autrice che credo meriterebbero più attenzione critica e un pubblico un po’ più folto in Italia. E Cime tempestose, naturalmente. Ma forse il libro che mi ha messa più alle strette e che allo stesso tempo mi ha dato più soddisfazione tradurre è stato Le vite di Dubin di Bernard Malamud, che ho tradotto per i Meridiani.
Cosa stai leggendo?
Lo sai che i traduttori – dovrei dire i traduttori professionisti, ossia quelli che di lavoro fanno solo o soprattutto il traduttore, come me – faticano a leggere per il puro piacere di farlo? E poi finisce che mentre leggiamo vivisezioniamo il testo, perché è quello che siamo abituati a fare quando lavoriamo. Se poi si tratta di un testo tradotto, pensiamo a come doveva essere l’originale. L’estate scorsa in dieci giorni di vacanza vera e solitaria, su un’isola greca con pochi turisti, in giugno, ho letto tre romanzi italiani in dieci giorni, uno decisamente corposo. Sono una lettrice piuttosto lenta. A casa, se lavoro, ormai riesco a leggere solo cose brevi, quindi poesie e racconti. Sto rileggendo quelli di Clarice Lispector usciti da poco per Feltrinelli, quasi tutti ritradotti. Per fortuna non so il portoghese, e questo fa di me una lettrice più ingenua e gaudente. Ovviamente continuo a comprare molti libri, che leggerò quando cambierò lavoro. O quando tradurrò solo un paio di libri all’anno.
*In copertina: Ralph Fiennes e Juliette Binoche in una traduzione cinematografica di “Cime tempestose”, del 1992