Solo agli anonimi pittori di montagna, che hanno affrescato le chiese di pietra, lassù, inaccessibili, è dato dipingere il pane come fosse pane. La cosa così com’è: dire pane al pane. Le speculazioni sulla ‘melità’ delle mele di Cézanne, in questo caso, non contano: quelle mele – mai così mele, maliarde maledette mele – sono le mele di Cézanne. Il pane dipinto lassù, a soglia di falco, tra pascoli verdi come il tuono, è grezzo, forse, ha scarsa disciplina, ma è propriamente pane. Tramutano le rocce in pane, quei pittori – da quel pane intravedono la mano malferma, le labbra di vecchio, la fame del pastore, una pastorizia di desideri dissolti. Quel pane – perfino – si sbriciola.
A pochi è data quella semplicità – una semplicità senza firma.
I libri di Maurice Chappaz – che furono il mio pane – mi fanno venire in mente gli scabri pittori di monte, quelli a cui era chiesto un angelo del volgo, con l’astuzia del mungitore che sa scacciare l’organizzazione dei lupi, a spirale. Dipingevano Madonne che portano la giara, ostinati Giuseppe che hanno appena tosato una pecora, le succulente gote del Bimbo-Agnello. Indossare l’anonimato come un palio.
Compravo i libri di Maurice Chappaz in riva al lago, a Verbania; li stampava una casa editrice di strenuo splendore, Tararà. Vallese-Tibet (con l’introduzione di Mario Rigoni Stern), L’alta via (introdotto da Philippe Jaccottet), Vangelo secondo Giuda (tradotto da Flavio Santi; che ho perduto donandolo a Domenico Quirico). Il lago: patera bruna su cui è riflesso il volto di chi ci mangerà il cuore; oracolo di luce serpentaria, prima della risalita tra i boschi. “Ho assistito alla fine dei volti, dei volti emersi e sigillati dai torrenti di montagna”, scrive Chappaz, poeta con la stola del profeta. Nato a Losanna nel 1916, cresciuto nel Vallese, viaggiatore incantato, secondo Chappaz l’uomo, perdendo i propri luoghi, perde i tratti del volto. Volti privi di lignaggio, senza consonanti, che non consuonano – orbati volti che ai molti sembrano bellissimi.
Nel 1976 Maurice Chappaz, il poeta vagante, troviere di vie alpestri, druido svizzero, pubblica un pamphlet lirico e violento, Les Maquereaux des cimes blanches. Denuncia la viltà del turismo selvaggio, gli albergatori sugli sci che hanno sostituito i pastori d’alta quota, lo skyline dei turisti in scafandro firmato in vece del dominio di Arturo e di Antares, l’estasi in estinzione della lince, quella floreale crudeltà messa in riga, ora, da un fenomeno fotogenico. L’assoluto in un bicchiere con ghiaccio e triviale leccornia ‘locale’. Gli giurarono rovina: accusarono Chappaz di essere un reo borghese – figlio di avvocati, nipote di un segretario di Stato –, un ricco reprobo, incurante dei vantaggi della modernità. Non lo scalfì la codardia degli sfidanti – d’altronde, aveva già perso: lastricata di soldi è la fine, infima, dei monti: all’angelo dei boschi preferirono lo chef nel rifugio ammodernato – a cui rispose: “Accetto la fine del mondo, non i misfatti con cui la volete accelerare”.
Capì che anche l’apocalisse è parte della merce in vendita.
Dopo la morte della compagna, Corinna Bille, scrisse un libro di sorpresa tenerezza, Le Livre de C. Insieme a molti altri, è stampato dalle edizioni Fata Morgana.
“Un’isola a questo mondo, come il dorso di una balena. Si dice che i marinai in viaggio credano in una terra; crepitanti, la abbordano per picchettare la fame. Accendono un piccolo fuoco, e l’isola, risvegliata, si infossa nell’oceano. Proprio così, il momento della morte, la terra che ci abbandona, ci tuffiamo in un’acqua che non ha limiti né dimore…”.
Alcuni suoi libri – Testamento dell’Alto Rodano, La pipa che prega & fuma – sono stampati da Armando Dadò.
Morto nel 2009, a Maurice Chappaz è data la semplicità dei puri – il barbarico idioma delle soglie, dove il pane è il pane e si scambia la reliquia per il sale, ne senti lo struggimento, a rigor di denti, e s’incastrano i versi come le tegole di pietra che trasformano le chiese di lassù in creature pleistoceniche, draghi con il corpo irto di scaglie – planimetria aggressiva della pace.
Portavo Chappaz nei boschi della Val Grande: qualcuno mi insegnava a trarre una cerbottana dal sambuco e a intavolare una capanna sugli alberi; a imitare il verso del cuculo e della civetta. D’estate, i ruscelli sono le stringhe di mezzogiorno, le briglie dimenticate da un dio d’occasione, a volte ostile.
Dalla Val Grande ai Nebrodi: Lucio Piccolo, il poeta, in una rara intervista, afferma la necessità del contado, la sublime presenza dei contadini, ombre a tutela. Tra gli ulivi, Casimiro vedeva le fate, Lucio armava poemi pieni di specchi, di trabocchetti, di falene e futili erme: inerte meraviglia. Custodire, sprecare: è lo stesso, purché si riconosca il tripartito nodo del tempo: terra, acqua, cielo.
Ogni etichetta – antimoderno, reazionario, cavaliere lirico – non preme su Chappaz: miniatore di impervie rupi.
Jean-Louis Kuffer ricorda il poeta che diceva, “Io mordo l’aldilà”. Insieme a lui, è stato in Lapponia, tra i Sami. Credeva negli isolamenti condivisi: Vallese, Tibet, Estremo Oriente Russo; valligiani, sami, ciukci. I popoli marginali, le radici smangiate. Val Grande, Nebrodi. “A ogni persona che incontravamo sui tram, in Svezia, chiedeva se credesse in Dio. Rari quelli che hanno risposto di sì”. E la sua risposta?
“Credo nella transustanziazione. Nell’attesa, esiste l’opera, ciò che di noi è il resto. D’altronde, ci sono le anime”.
Qui si traduce un florilegio di poesie. Poesia che va spezzata, dall’aspro idioma.
Maurice Chappaz abitava un’abbazia.
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Una stella
Nella bottiglia, l’estremo messaggio:
Beati quelli che soffrono!
Con un po’ di sangue si cancellano le grandi ingiustizie
per le piccole basta un po’ di vino.
Le navate dei pini evolvono sottoterra.
L’aldilà è una mietitura blu.
Vedo le città degli uomini.
Tutti si amano.
Dal male
l’Eterno forgia l’innocenza.
Per me, la visione dell’avvenire è una galassia di visi, ricapitolati nel
Cristo che conosciamo in milioni di fratelli, ciascuno in particolare:
questo istante di adorazione è la stella, l’eternità.
*
Preghiera per rinnovare il mondo
I vivi assomigliano alle api, in un giorno di bufera, sballottate, spinte verso l’alveare: grani di polline giallo sulle loro zampe
diventerà divino nutrimento.
Il nostro destino, felice o maledetto, è il nettare di esseri invisibili che si dilettano di ciascuno dei nostri istanti.
Sono i nostri cari defunti? O i banditi dèi della boscaglia?
Sono i nostri amati santi, i futuri amici sconosciuti.
In essi si compie l’eterno ritorno.
Le nostre azioni, avvisaglie d’avvenire, attingono al passato.
A volte sono i morti, le api, che riattraversano la vita carichi dell’amore di cui cantano gli uccelli, fiori che ci abbagliano.
Mi sembra di essere tra loro.
Un altro che traccia il cielo.
*
De Profundis
Oh, che folli quando urliamo come galli
per tutta l’amara notte
siamo distrutti
per ciò che ci è offerto.
Nessuno ci ascolta
tranne i morti.
Ho accettato
di incontrare
la parte oscura di me.
Chi può essere tanto umiliato?
Un grano di follia è la prova
la via per avvicinarsi a Lui
il viatico per l’incomprensibile.
I saggi del mio paese
sono santi senza lignaggio.
Chi sono i santi?
Piangiamo contro
Te
Eterno
il nostro insulto valga come lode.
Chi può
desiderarti
come il povero?
Sai che non posso vivere senza amore.
Mi sono quasi ammazzato da bambino.
La tristezza è ironica.
Di ogni cosa
ti ringrazio.
*
Assolto
Tra versi e corvi,
in un drappo di latte,
il mio solo spazio,
tra acqua e ombra:
un tu che crede
che viene portando un sì.
*
Angelo
All’ossario
il desiderio è un barrito.
L’angelo assiso sui crani attende.
Se hai un pensiero d’amore
filerà un giorno
interiore.
*
Kyrie
La ricerca dell’Eterno comincia
dando guaiti, nel vomito e tra le lacrime.
Tre volte: pietà di me
Signore
Cristo
Signore.
La bestia e l’anima: un solo salmista.
Fuochi blu dai ceri
le api perdono il pungiglione
la parola abbandona i morti.
Una prece marcisce su di me:
Signore, che le tue labbra annientino la bocca.
*
Rime del poeta apprendista
Piangi, pura pioggia.
Mio marito era un trovatore.
La mia donna era una principessa.
Piangi, pura pioggia:
oggi il nostro amore finisce –
l’ho vista partire con una dama ebrea
fracassata dai suoi peccati
o dai miei.
Va per i campi, malata giumenta.
Piangi, pura pioggia, per la terza volta.
Conosci il giogo
del Cantico
dei Cantici?
Reggi bene l’armonium
di un villaggio cosacco
dove sputano, mi ingiuriamo, marciano sui miei piedi.
Mangia con loro pane e formaggio:
giusto digiuno per conoscere le montagne azzurre.
Maurice Chappaz