Di tutti gli infiniti influssi che costellano l’opera di Borges, di tutte le ramificazioni che ha preso la sua opera, soltanto una sembra sfuggire al suo estro definitorio: la poesia. Che cos’è la poesia per Borges, questo mite minotauro che sembra aver disteso versi soltanto per omaggiare gli idoli della propria cripta?
Alcuni elementi biografici cominciano ad affiorare nelle più impersonali fra le attività umane, le conferenze. In una di queste, dedicata alla poesia (raccolta in Sette sere, Adelphi), Borges racconta che ogni giorno, prendendo il tram per dirigersi a lavoro, leggeva la Divina Commedia. Era un’edizione inglese col testo a fronte, ma a furia di rileggerla, e con l’aiuto di un dizionario di italiano, imparò a sbarazzarsi della traduzione.
Per penetrare questa visione leggendaria, di un giovane argentino che legge Dante in tram a Buenos Aires, è indispensabile ricorrere a tutti gli artifici della narrativa: un vagone affollato di gente, un percorso accidentato (non meno accidentato della mente che riecheggia le terzine dantesche) e un solitario sprofondato nel verso in un sedile vicino al finestrino. Quando c’è la poesia, è tutto il resto che fa da sfondo, e la realtà, come dice uno scrittore austriaco, non ha più bisogno di appunti.
Ad ogni modo, Borges ripeteva lo stesso sbrigativo processo di apprendimento con tutte le lingue che gli stavano a cuore. Con il tedesco, per esempio (“una bellissima lingua – forse più bella della letteratura che ha prodotto”) accadde qualcosa di molto simile: durante il suo periodo svizzero, a Ginevra, acquistò Intermezzo lirico di Heine e
“un dizionario inglese-tedesco. Dopo qualche tempo, mi accorsi che potevo fare a meno del dizionario e continuai a leggere versi sulle sue allodole, sulle sue lune, sui suoi pini, sul suo amore e così via”.
Da notare il fiero coraggio di Borges: come in un duello linguistico, per avere la meglio sulla lingua si avventa sulle sue migliori espressioni – Heine e Schopenhauer per il tedesco, Shakespeare per l’inglese e Dante per l’italiano. Forse perché intuisce che questa esuberanza delle origini sarà contraccambiata con un più amorevole e intimo rapporto con la lingua, fondato non sulla carta bianca del discepolo ma su una promessa di parità precoce. (Quanto ai dizionari usati come mallevadori di un buon trattamento della lingua: i figli di Primo Levi si stupivano nel vedere il padre sprofondato in poltrona nella lettura di un dizionario; Borges annoverava tra le sue letture preferite quella del dizionario d’inglese; Cristina Campo, sacerdotessa dello stile, in una lettera alla Pizarnik, afferma di aver riletto, fra le altre cose, anche un dizionario. Sospetto che l’eccessiva attenzione allo stile – parola quanto mai vaga e rifugio estremo dei moderni – abbia nociuto alla lingua che produce questo stile).
Tutte queste informazioni si trovano in un libro che svela finalmente le coordinate poetiche di Borges: Il mestiere della poesia (Luiss, 2024). Il volume raccoglie le “Norton Lectures”, un ciclo di sei conferenze (la voce cantilenante di Borges si può ascoltare qui) promosso da Harvard e rivolto a personalità culturali irripetibili: nel 1939, per dire, l’università chiamò Igor Stravinskij, che scelse come tema la poetica della musica – titolo quanto mai fascinoso, che sembra anticipare il fulminante inizio della quinta lezione di Borges: “tutta l’arte aspira alla condizione della musica”. Più tardi, Harvard chiamerà anche Italo Calvino e Umberto Eco, i cui interventi sfoceranno in due libri che a loro modo hanno fatto epoca: Lezioni americane e Sei passeggiate nei boschi narrativi. Quando Borges iniziò la prima lezione, il 24 ottobre 1967, aveva un senso in meno degli altri – la vista – e ventimila libri letti in più. La memoria lo soccorreva in modo prodigioso, come una leggera sfocatura sul profilo del tempo: un professore americano di origine rumena racconta che, in margine a un incontro universitario, Borges gli declamò a memoria una poesia rumena di otto strofe imparata a Ginevra nel 1916. Durante le lezioni, Borges pareva evocare a convegno gli spiriti immortali della letteratura:
“mentre parlava, guardava verso l’alto con un’espressione timida e gentile sul volto, come se toccasse materialmente le parole dei testi”.
Del resto, Hofmannsthal ha scritto che in letteratura tutti gli immortali sono nostri contemporanei.
Il titolo originale del libro, This craft of verse, possiede una sfumatura artigianale che nella traduzione italiana – Il mestiere della poesia – si perde in una connotazione quasi impiegatizia. Prendiamo un poeta non particolarmente amato da Borges: Baudelaire (quello stesso Baudelaire che “prendeva i suoi demoni e i suoi pipistrelli e le sue prostitute e le sue mulatte, tutto, fin troppo seriamente…”, come disse nell’intervista ad Arbasino). Borges confronta la traduzione tedesca dei Fiori del male prodotta da Stefan George con l’originale e conclude che il poeta tedesco era un artigiano della parola più abile del francese. Del resto, molti mestieri stanno scomparendo e se ce n’è uno che scamperà all’estinzione, questo è la poesia. Borges stesso lo ha detto in un’altra occasione: la poesia non ha orari, può presentarsi in ogni momento. Scrivere è, in certi casi, una questione di fedeltà all’istante.
Quello che sorprende, in queste lezioni, è lo stupore e l’intransigente solitudine che Borges riesce a mantenere verso la letteratura e la scrittura:
“ogni volta che affronto una pagina bianca, sento di dover riscoprire la letteratura da solo”.
Ma anche la motivata fedeltà a certe idiosincrasie:
“nei testi di estetica, ho avuto la sgradevole impressione di leggere le opere di astronomi che non avessero mai osservato le stelle”.
E poi quella leggendaria repulsione verso il romanzo: atteggiamento immutato nei doppi panni del lettore e dello scrittore. Borges non ebbe mai il capriccio di scrivere romanzi, e ammise con fierezza di non aver mai letto fino in fondo Tolstoj e Dostoevskij.
“Mi è stato domandato perché io non mi sia mai cimentato con un romanzo. La pigrizia, naturalmente, è la prima risposta. Non ho mai letto un romanzo senza provare una certa stanchezza. I romanzi comprendono parti riempitive; queste, per quanto ne so, sono parti essenziali del romanzo. Invece, ho spesso riletto molti racconti brevi. Trovo che in un racconto breve di Henry James o di Kipling ci sia – e in modo più godibile – tutta la complessità che si può trarre da un romanzo”.
Quanto alla passione per la poesia, Borges deve questa scoperta al padre, che una sera gli lesse Ode to a Nightingale. La biblioteca del padre, che raccoglieva, fra le altre cose, tutti i classici della letteratura inglese, fu la vera scossa nella vita di Borges. In una occasione disse:
“se mi si chiedesse di parlare della cosa più importante della mia vita, io parlerei della biblioteca di mio padre. A volte ho l’impressione di non essermi mai allontanato da quella biblioteca”.
Strana e generosa sorte, quella di poter vantare fra i maestri anche il proprio padre, segno certo che il retaggio è una questione di origini. Del resto, anche l’altro maestro di Borges, Macedonio Fernàndez (di cui sono stati di recente pubblicati i pensieri), era prima di tutto un amico paterno, a cui Borges si avvicinò con timidezza e riverenza.
“Quando penso a mio padre, quando penso al grande scrittore ebreo-spagnolo Rafael Cansinos-Asséns, quando penso a Macedonio Fernández, mi piacerebbe sentire le loro voci. E, qualche volta, provo a imitarle, per poter pensare come loro avrebbero pensato. Li sento sempre intorno a me”.
I maestri: un raduno di voci nelle dune del pensiero, che si sollevano come tempeste di sabbia nel deserto della mente.
Dalla sera in cui Borges ascoltò i versi di Keats dalla bocca del padre, tastando “parole che non capisco, ma che, tuttavia, sento”, qualcosa è cambiato per sempre nella storia della letteratura. Un giovane argentino incomincia ad avere di sé “una percezione letteraria” e il mondo prende a trasfigurarsi sotto la lente delle sue letture. Per dire della sua precocità, basta ricordare che un giorno un poeta fece visita al padre di Borges e, impressionato dalle conoscenze del giovane Jorge, se ne uscì con una battuta: “smettete di leggere, il giovane Borges ha già letto tutto!” (Con Borges, Manguel). Quello stesso appassionato lettore degli inizi seppe passare dalle letture giovanili, mai rinnegate e anzi rinnovate nel tempo, ai giudizi sul futuro della poesia e del romanzo, nella convinzione che la letteratura è infinita e il destino è in mano ai cantori:
“se la narrazione di un racconto e la declamazione di una poesia si unissero di nuovo, potrebbe succedere qualcosa di molto importante. L’epica tornerà fra noi e il poeta sarà di nuovo un artefice”.
Andrea Muratore