26 Luglio 2022

“Non voglio continuare a vivere così”. Christian Kracht, uno scrittore di culto

C’è uno scrittore svizzero di lingua tedesca che in Germania è un autore di culto e che da noi è sempre passato pressoché inosservato, sebbene negli ultimi tre decenni tre dei suoi sei romanzi siano stati tradotti in italiano, senza clamore e da tre editori diversi: è Christian Kracht.

Nel 2002 Rizzoli pubblicava 1979, il suo secondo romanzo, ormai fuori edizione e introvabile; nel 2012 Neri Pozza pubblicava Imperium, il suo quarto romanzo, di certo la sua opera più discussa in Germania e in Svizzera, da taluni accusata (a torto) di essere filofascista; infine l’anno scorso La Nave di Teseo ha pubblicato I morti, il suo penultimo romanzo. Nel 2021 Kracht ha dato alle stampe Eurotrash, il suo sesto e ultimo romanzo, che purtroppo non possiamo ancora leggere, come non possiamo leggere il suo esordio, Faserland (1995), il suo terzo romanzo, Ich serde hier sein im Sonnenschei und im Schatten (2008), e i suoi vari scritti di viaggio. È quindi possibile, per noi che non conosciamo il tedesco, valutare la sua opera solo in modo parziale, a partire da 1979, Imperium e I morti, tre romanzi apparentemente semplici e brevi e tuttavia dalla struttura molto elaborata che bastano a farci dire che Kracht è uno dei più originali e interessanti autori europei degli ultimi anni e che vorremmo poter leggere tutto ciò che ha scritto.

Cominciamo – muovendoci a ritroso – da I morti, uscito nel 2016 in Svizzera e tradotto l’anno scorso in italiano. Ambientato quasi interamente negli anni Trenta fra la Germania e la Svizzera e il Giappone (e la Russia, e poi l’America), in un mondo in bilico sulla seconda guerra mondiale, il romanzo ha come protagonisti Emil Nagëli, un regista svizzero, e Masahiko Amakasu, un ufficiale giapponese realmente esistito. Ci sono molti personaggi secondari e comparse, fra cui Charles Chaplin, che si rivelerà un ubriacone e un assassino, Alfred Hugenberg, che dirà una delle frasi chiave del libro (“Il cinema è la guerra combattuta con altri mezzi”), la fidanzata di Emil, Ida, che simboleggerà la morte del sogno americano (e quindi di un certo modo di sognare il cinema), Wilhelm Solf, che aiuterà segretamente il giovane Masahiko Amakasu, e poi Lotte Eisner e Fritz Lang e Siegfried Kracauer e altri personaggi realmente esistiti e non, in una simbiosi fra realtà e finzione – fra la Storia terrifica e universale del Novecento e la vicenda personale di ogni essere umano – che rende il romanzo un’opera misteriosa e complessa, un affascinante connubio di arte (di cinema, di letteratura) e Storia, negli anni della fine del cinema muto e dell’inizio della guerra, delle ideologie perdute e del disincanto che a tale perdita è legato.

I morti è un romanzo malinconico, che narra di uomini sconfitti. A un certo punto il narratore del libro, la terza persona onnisciente, che è anch’essa una voce, un personaggio “esterno” che non va confuso con Christian Kracht, dice:

“I morti sono creature infinitamente sole, non c’è nessun legame tra loro, nascono soli e muoiono e rinascono ugualmente soli”.

I morti è anche il titolo del film di Emil Nagëli, che nel corso del romanzo – dopo l’abbandono di Ida – vagabonderà nel mondo, come i protagonisti degli altri due libri di Kracht che abbiamo potuto leggere, 1979 e Imperium.

Ne I morti Adolf Hitler non viene nominato, e forse la presenza di Chaplin, che caricaturizzò Hitler ne Il grande dittatore, non è un caso, quasi che Kracht voglia mettersi dalla parte dell’arte e non della Storia, fra i vagabondi e i perduti e gli sconfitti e non fra gli uomini di potere e di guerra e di orrore come Hitler. Anche in Imperium, il romanzo che precede I morti, pubblicato nel 2012 e tradotto in italiano nel 2013, Hitler non viene nominato. Il narratore onnisciente – che, ripetiamo, non va confuso con Kracht (e questo è stato l’errore di Der Spiegel, che lo ha tacciato di filofascismo) – scrive:

“Verrà perciò raccontata, a titolo esemplificativo, la vicenda di un singolo tedesco, un romantico, che come molti altri di questa specie fu un artista mancato, e se essa dovesse richiamare alla mente qualche analogia con un successivo romantico e vegetariano tedesco, che forse avrebbe fatto meglio a restare accanto al suo cavalletto, ebbene, ciò è del tutto intenzionale e non a caso, non vogliatemene, in nuce anche coerente. Costui al momento è ancora un ragazzetto brufoloso, bislacco, che si guadagna un sacco di scapaccioni paterni. Ma aspettate: crescerà, crescerà”.

Il costui è Adolf Hitler, di cui però Imperium non tratta, narrando infatti la storia di August Engelhardt, nei primi anni del secolo, anch’essa in parte reale e in parte romanzata (Engelhardt è esistito veramente), un uomo che crede in una nuova possibile umanità che basi le proprie fondamenta, la propria sopravvivenza purificata dai mali del mondo contemporaneo, sulle noci di cocco.

La vicenda è tanto semplice quanto originale; Engelhardt compra un’isola di nome Kabakon, nei mari del Sud, nella Nuova Pomerania, da Emma Forsayth, altrimenti detta Queen Emma, pure lei realmente esistita, e tenta di mettere su il proprio mondo ideale fra gli indigeni, basato per l’appunto sulle noci di cocco. Engelhardt è un idealista, un illuso, un pacifista, un vegetariano, un figlio ribelle e solitario dell’impero tedesco, un cittadino del mondo che il mondo abbandona e che tale mondo vuole sovvertire, cambiare, migliorare e ricreare, autore di un libro intitolato Eimen sorgenfrei Zukunft, Un futuro spensierato, lettore di Nietzsche, di Dickens, di Thoreau…

Ma Engelhardt è soprattutto un santo e un “idiota”, un “egoista di matrice schopenhaueriana”, come lo definisce un americano in visita sull’isola, Halsey; è un uomo dai “tratti ascettici di un Gesù Cristo”, dice invece il narratore onnisciente; Engelhardt è un avventuriero tramutatosi da ultimo anch’egli in un selvaggio, come gli indigeni, più degli indigeni, un pazzo che gira nudo e delirante per la sua isola incantata. E tuttavia la sua follia, posto che sia tale, ha non soltanto un “metodo”, delle teorie, ma anche un “fine”, un idealismo realizzabile, benché la razza umana non sia del tutto pronta ad accettare la sua rivoluzione, come spiega lo stesso Engelhardt – usando la metafora “della formica e del cioccolato”, ed è una delle pagine filosoficamente più interessanti del romanzo – a Heinrich Aueckens, un altro visitatore dell’isola, un vegetariano come lui, suo lettore e ammiratore. La storia ha molti colpi di scena, per quanto Imperium sia innanzitutto un romanzo di idee, un libro sulla rovina umana e filosofica dell’Europa; c’è da pensare al Kurtz di Conrad, naturalmente, ma anche al Fitzcarraldo di Werner Herzog e a molti avventurieri europei del primo Novecento.

Imperium può essere definito un romanzo d’avventura, scritto con uno stile sorvegliatissimo, attento a ogni parola e dettaglio e ritmo e paesaggio. Nella terza parte del libro, proseguendo il divario sottile che separa la “realtà storica” e la “finzione narrativa”, compaiono persino dei personaggi di Hugo Pratt, Pandora e Slütter, da Una ballata del mare salato; Slütter dovrebbe uccidere Engelhardt, gli dice il governatore Hahl, perché quando l’ordine viene turbato “dall’anarchia e dalla pazzia” bisogna agire subito e dunque eliminare “l’apostolo delle noci di cocco”, il pazzo, bruciarne il cadavere e spargerne le ceneri in mare. Slütter, come Pandora, non deluderà il lettore prattiano di Imperium; è un altro personaggio romantico di Kracht, molto riuscito. D’altra parte un libro di viaggio di Kracht, Der gelbe Bleistift, ha in copertina il generale Chang di Corte Sconta detta Arcana, con tanto di divisa e sigaretta fumante…

Non è stato facile procurarsi l’ultimo romanzo che abbiamo letto di Christian Kracht, il suo primo libro edito in Italia, 1979, opera che all’inizio ci ha stupito e in parte deluso per la scelta della prima persona e per l’ambientazione: un’immonda festa “occidentale”, in una lussuosa villa di Teheran, fra risate e alcool e droga e chiacchiere superficiali e musica techno, come in un qualsiasi romanzetto di festaioli di cui abbonda una certa (insopportabile) narrativa nordamericana. Ma poi sopravvengono la morte e il disincanto e la rivoluzione e l’orrore, le tenebre umane e disumane del secondo Novecento, dall’Iran di Khomeini ai campi di prigionieri politici in Cina. Il narratore, un personaggio senza nome, scrive:

“E pensai: cos’è la giovinezza? Come è fatta? Che aspetto ha? Ha l’aspetto di qualcosa che si ama? Termina prima che la riconosciamo? È luminosa mentre tutto il resto è buio? Sono vecchio? Dov’è finito tutto quanto? Perché le cose procedono così in fretta? Dove sono finiti gli anni? Perché adesso sono vecchio mentre intorno a me tutto è giovane? Dove sono finiti i miei muscoli? Posso tornare indietro facendo sport? E se lo faccio, mi renderò ridicolo? Che cos’è la vita? Come potrò migliorarla? E se migliora, come lo capirò? Non voglio continuare a vivere così, in questo modo. Qualcosa deve cambiare”.

E qualcosa, o meglio tutto, cambierà; dopo la morte del suo amante il narratore andrà in Cina, nel Tibet occidentale, sulla via del sacro monte Kailas, per ritrovare se stesso. “Dovrà girare in senso orario intorno al monte” gli ha detto Mavrocordato, un misterioso uomo conosciuto in Iran, un rumeno il cui nonno ha fondato uno Stato utopistico sulla costa del mar Nero. “È una sorta di gigantesco mandala della natura, una preghiera come celebrazione del mondo…”. Il protagonista di 1979 volta quindi le spalle alla civiltà, in viaggio, in fuga, in completa solitudine, fino alla disperazione, fino all’incanto di un’utopia in rovina, come August Engelhardt in Imperium, come in fondo Emil Nagëli ne I morti. Non a caso Christian Kracht è un grande viaggiatore, un avventuriero, come molti dei suoi personaggi; ci piacerebbe leggere la sua cronaca dell’ascesa al Kilimangiaro, Tetan, del 2007, come ogni altro suo libro edito in tedesco e non tradotto.  

Di cosa narrano gli altri tre romanzi di Christian Kracht? Non vogliamo saperlo prima di poterli leggere, e un giorno ci auguriamo di riuscire a farlo. Questa breve nota di lettura vuole dunque essere un appello ai traduttori italiani dal tedesco. La lingua, lo stile, la complessa struttura romanzesca, quel profondo senso di malinconia e di armonia che pervade molte sue pagine, l’originalità narrativa della sua opera, fanno di Christian Kracht uno dei più innovativi scrittori europei, di cui – dopo 1979, Imperium e I morti – bisognerebbe tradurre tutti i romanzi.

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