“Non sono mai stato felice altro che negli inganni”. La poesia di Luca Canali
Poesia
Giorgio Anelli
Secondo Iosif Brodskij – formulò questo pensiero nel discorso di accettazione del Nobel per la letteratura – i capi di Stato, insomma, i padroni delle nostre vite, andrebbero scelti dopo un dibattito intorno a Stendhal, Dickens, Dostoevskij. Non bisogna interpellare costoro su questioni politiche – dicono tutti le stesse inutili cose – ma interrogarli intorno agli scrittori e ai libri che hanno cambiato la loro vita. A dire del poeta,
“Già per il fatto che il pane quotidiano della letteratura è l’umana diversità e perversità, la letteratura si rivela un antidoto sicuro contro tutti i tentativi – già noti o ancora da inventare – di dare una soluzione totalitaria, di massa, ai problemi dell’esistenza umana”.
Che molti elettori non conoscano Stendhal, Dickens, Dostoevskij, ma neppure Manzoni, Leopardi e Montale, non è indice di un decadimento della civiltà ma il sintomo di un tempo inchinato all’istante, genuflesso al presente e a un asfittico, sfitto individualismo, proprio di una società, per lo più, di schiavi. Soltanto la letteratura in particolare e l’arte in generale, infatti, liberano dalla prigionia dell’oggi, dalla protervia petulante del più abbiente, del più forte, del più scaltro. Ecco: una civiltà che ha destituito la sprezzatura in favore della scaltrezza, che preferisce le basse manovre delle iene alla sapienza, è degna di fogna.
Iosif Brodskij, tuttavia, ne fa una questione morale e infine laterale (i politici, alla bisogna, sapranno esprimere un giudizio anche sull’opera di Salman Rushdie). Brodskij crede nel primato della letteratura e, in fondo, al suo compito educativo. Orrore, errore. A me basta la decenza formale – la poesia non educa ad altro che all’eversione dal verbo –, purché sia l’asse su cui si regge la formula politica.
La dico così: “poetica della politica”. No, non si tratta di cipria colta sul ceffo del politico: i poeti in campagna elettorale fanno la figura dei pagliacci. Piuttosto, vuol dire recuperare una prassi antica, arcana, alle origini della strategia politica. I grandi sovrani erano, spesso, consapevoli letterati: alternavano il compito della guerra alle necessità della penna. Il potere, dagli albori, è impaniato nel poetare. Così – irriflessi residui di conoscenza liceale – Giulio Cesare, eccelso stratega, scrive il libro che fonda l’impianto grammaticale romano, la struttura del pensiero latino: il De bello Gallico ha l’austera eleganza di un acquedotto, di un ponte, di una strada; pura architettura della conquista. L’imperatore Marco Aurelio ha scritto uno dei testi più affascinanti del tardo stoicismo; Augusto dettò le Res gestae con la nobile perentorietà che distingue la raccolta dei detti di Aśoka, sommo sovrano indiano. L’imperatore giapponese Junna canta l’autunno e la magnificenza del paesaggio – “Da sempre il nostro sire volge il cuore ad ameni paesaggi” – mentre Lorenzo il Magnifico magnifica la giovinezza e le ragioni della gioia, istintuale.
I poeti che frequentavano le corti – da Orazio a Poliziano, da Otomo no Yakamochi a Wang Wei –, necessari a fondare l’immaginario di una civiltà, non erano figure d’ornamento, bestie impagliate o grigi copisti, ma autentici sapienti. La presenza di un poeta a corte, cioè, a tratti assumeva i contorni del fool: era un punto di discordia, un segno di contraddizione e di maldicenza, non alieno a ribellioni più o meno plateali. Il dominio della parola incute timore. Eppure, il Mikado indossava la stessa dedizione nell’allargare i propri possedimenti come nell’organizzare immani antologie in versi, imperituro monumento al proprio governo. Il più noto di questi vertiginosi abbecedari lirici, il Kokin Waka shū insegna che
“La poesia, senza ricorrere alla forza, muove il cielo e la terra, commuove perfino gli invisibili spiriti e divinità, armonizza anche il rapporto tra l’uomo e la donna, pacifica pure l’anima del guerriero feroce”.
Ecco il compito sottilmente politico della prassi poetica, che resta, nel suo intimo, magica – visto che scarta la comprensione in favore dell’ispirazione, scosta l’utilitarismo della grammatica in virtù della liturgia musicale, adempie l’oracolo non certo il vocabolario. I grandi imperatori bandivano gare di poesia per scegliere tra i propri consiglieri chi sapeva commuovere e stupire, geniale scrutatore dei cuori. D’altronde, fino all’altro ieri i funzionari cinesi per essere assunti e assurgere agli scranni più alti della dignità politica, dovevano passare estenuanti esami di retorica e di poetica, dimostrando la perfetta conoscenza dei “Cinque Classici” raccolti da Confucio. La disciplina storica – simboleggiata dagli “Annali delle primavere e degli autunni” – era congiunta a quella divinatoria; la sapienza poetica – il “Libro delle Odi” idolatrato da Ezra Pound, che ne ha dato traduzione in The Classic Anthology Defined by Confucius – era ritenuta la quintessenza dell’abilità politica (il sistema di reclutamento politico in Cina è spiegato nel romanzo di Inoue Yasushi Tun-Huang, ancora inedito in Italia, si può leggere in inglese). D’altronde, la Rivoluzione russa attecchisce ed esplode grazie alla forza dei poeti prima che degli ideologi – che poi, passato dallo stato liquido a quello stabile un governo brighi per sbarazzarsi dei poeti è viltà nota.
Intendo dire. Torniamo a scremare le ‘forze politica’ tramite la prassi poetica. Il futuro politico, il parlamentare e il ministro che, ci piaccia o meno, governerà i nostri averi, la nostra identità, abbia l’obbligo di conoscere i classici della poesia italiana, s’impegni nello studio della metrica, impari quando scegliere il novenario piuttosto che l’endecasillabo e quando è utile il verso libero o la prosa poetica, si eserciti nel sonetto, nella canzone, nel sirventese o nell’ode; abbia dimestichezza con l’ottava e il madrigale. Impari a scrivere una poesia sulla primavera, una sulla guerra incipiente, un’altra sull’amata, coniugando l’emozione nell’efficacia estetica, stabilizzando l’estasi.
Il punto, ovviamente, non è letterario ma pratico. Non c’interessa che un politico sappia scrivere buone poesie – la poesia, da sempre, è altrove – ma che ben governi. Beh, saper governare le parole, condurre in forma appropriata i propri pensieri, domare il caos in formule esatte, è il principio del governo. La poesia – dicono i romantici – esprime l’essenza dell’uomo: il compito di un politico, essenzialmente, è conoscere l’uomo, prevedere i suoi desideri, orientare le sue attese. Dedicarsi alla poesia – cioè: calare l’estro nella regalità del verbo – è già un gesto di potere: chiarisce i propri atti, percuote di dubbi le proprie fatue certezze, impone l’arguzia del conciliare e la perizia nel non demordere.
Ah, certo, diranno i gonzi, quelli che la sanno lunga, che sanno tutto, c’è ben altro a cui pensare, altro che la poesia… Benemerita idiozia scolastica che ha ridotto la sapienza marziale del poetare in svago iniquo, domenicale, da dopolavoro per puri di cuore. Non esiste attività più seria, per la propria ascesi, che la poesia – il resto, è baccano, infamia, illecito in chiacchiere, lo sfregio del blabla, l’oggi.