19 Agosto 2021

“L’egoismo, l’egotismo, l’Io con la maiuscola...”. Elogio di Maurice Barrès

Nel 1988 esce in Francia il primo volume, Sous les yeux des barbares [Sotto gli occhi dei barbari], di una trilogia, Le Culte du moi [Il culto di sé], epocale per l’influenza che ebbe su molti autori nati a cavallo della fine del XIX e l’inizio del XX secolo, di cui segnarono la letteratura della prima metà, abbondante e decisamente migliore (i decenni segnati dai vari Drieu La Rochelle, Montherlant, Rebatet, Malraux, ecc.); l’opera capolavoro del giovane Maurice Barrès, sorta di equivalente francofono di D’Annunzio, vessillo degli interventisti della Grande Guerra (cui non prese parte che come corrispondente, anche dal fronte tra Italia e Austria); scrittore in Italia come tanti altri quasi del tutto dimenticato (il breve saggio El Greco, o il segreto di Toledo e poco altro è stato infatti tradotto); opera che appare come una specie di oggetto d’antiquariato, cui bisogna togliere la polvere per darvi almeno una rapida occhiata, perché qualcosa ancora vi emette uno scintillante riflesso che illumina il Novecento…

Questo, a partire dalle introduzioni alla prima e alla seconda edizione, e rileggendo l’incipit del romanzo, se mai questo è ancora un romanzo, se mai questi sono ancora dei romanzi (seguono, nel volgere di un solo triennio, Un homme libre e Le jardin de Bérenice); e non si possono considerare soltanto come tali, visto che inaugurano semmai una nuova forma letteraria perfettamente in bilico tra la narrazione autobiografica e la meditazione autoanalitica la cui modernità, con un certo tocco dandistico. Verranno, a seguire, come una naturale conseguenza, Stato civile e i “saggi” – e non solo – di Drieu La Rochelle, Le Songe e i “saggi” – e non solo – di Montherlant, la più “neoclassica” e grandiosa narrazione de I due stendardi di Rebatet, e – a chiudere – le originalissime e altrettanto monumentali Antimémoires di Malraux, passando per le opere di Aragon, Camus, Monfreid, Morand, e altri ancora, fino alla cosiddetta “autofiction” che si è imposta nel corso degli ultimi decenni, con esito incostante.

Un precursore, perché proprio nel 1888 nasce un Pessoa, mentre se Il piacere di D’Annunzio, che si rifà ai modelli francesi Baudelaire, Gautier, Huysmans, è a livello d’autoanalisi non paragonabile a questa trilogia, La coscienza di Zeno di Svevo è dei primi anni Venti, e le prime opere di Freud stesso – Progetto per una psicologia scientifica e L’interpretazione dei sogni – sono successive (1895-1899) alla pubblicazione di quei tre romanzi scritti di fronte a uno specchio nel quale Barrès, tramite il suo io, scruta una nazione.

Un individuo che con La Grande Pitié des églises de France e Les Diverses Familles spirituelles de la France diventerà un autentico laboratorio intellettuale non privo d’eccessi di retorica. Ma ci si soffermi su Le Culte du moi, alle prime manciate di pagine di Sous les yeux des barbares, alle esplorazioni in profondità di un ego tanto esacerbato quanto sovrabbondante di lucidità. Si tiri un istante il fiato dopo questo breve preambolo e poi ci s’immerga. Si scoprirà uno dei grandi modelli del secolo lungo che fu quello passato.

Alfonso Zadro

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Sotto gli occhi dei barbari (2a edizione), introduzione alla trilogia

Sì, mi è parso, leggendo i miei critici più benevoli, che questi tre volumi, pubblicati ad ampi intervalli (tra il 1888 e il ‘91) non erano riusciti a esprimere tutto il loro senso. Si sono accaniti a lodare o a contestare dei dettagli; ma ciò che importa sono soltanto la sequela, l’insieme logico, il sistema. Ecco dunque un esame dell’opera in risposta alle critiche più frequenti che sono state mosse. Tuttavia, per timore di offendere qualcuno di colori che mi fanno la gentilezza di seguirmi, procederò esponendo e non discutendo.

Che cosa si può chiedere a questi tre libri?

Non cercatevi della psicologia, o per lo meno non sarà quella di Taine o di Bourget. Costoro procedono secondo il metodo dei botanici che ci fanno vedere come la foglia è nutrita dalla pianta, dalle sue radici, dal suolo in cui si sviluppa, dall’aria che la circonda. Questi autentici psicologi pretendono di risalire la serie delle cause di ogni brivido umano; inoltre, dai casi particolari e dagli aneddoti che ci narrano, traggono delle leggi generali. Totalmente all’opposto, queste opere sono state scritte da uno che trova l’Imitazione di Cristo o la Vita nuova di Dante infinitamente soddisfacenti, e la cui preoccupazione d’analista si limita a offrire una descrizione minuziosa, emozionante e contagiosa degli stati d’animo che si è proposto.

Il difetto principale di questa modalità è che lascia inintelligibili per chi non li condivide i sentimenti che descrive. Spiegare che quel tale carattere eccezionale di un personaggio fu preparato dalle abitudini dei nostri antenati e dalle eccitazioni dell’ambiente in cui reagisce, è il futile teorema-ponte della psicologia, ed è con esso che i lettori meno preparati arrivano a penetrare nei domini assai particolari in cui li invita il loro autore. Se in effetti un buon psicologo costruisse questo teorema-ponte con qualche commento, cosa comprenderemmo di quel libro, l’Imitazione, per esempio, di cui non condividiamo né gli ardori né le fatiche? E ancora per i lettori nati cattolici la cella di un pio monaco non è il luogo più segreto del mondo; il meno mistico di noi crede di avere un barlume di comprensione dei sentimenti che essa comporta; ma la vita e i sentimenti di un puro letterato, orgoglioso, raffinato e disarmato, gettato a vent’anni nella rude concorrenza parigina, un onest’uomo come potrebbe averne una qualche comprensione? E per dirla tutta, come potrebbero un inglese, un norvegese o un russo ritrovarsi in questo libro, nel quale ho tentato la monografia dei cinque o sei anni d’apprendistato di un giovane intellettuale francese?

Si vedrà che non mi nascondo le difficoltà del metodo che ho adottato. Questa mancanza di chiarezza che mi è stata rimproverata per alcuni anni non è per nulla imbarazzo di stile o insufficienza di idee. Si tratta d’assenza di spiegazioni psicologiche. Ma quando scrivevo, mosso dalla mia emozione, non riuscivo a fare altro che a determinare e descrivere le condizioni dei fenomeni che avvenivano in me. Come li avrei potuti spiegare?

D’altra parte, se sono necessari dei commenti, non possono forse esser forniti dagli articoli di giornale o dalla conversazione? Mi è certo permesso di annotare che oggi non si è più bloccati da ciò che si dichiarava incomprensibile quando questi volumi uscirono. Alla fine, a questo libro – ecco la sostanza del mio pensiero – non mescolavo nessuna parte didattica, perché nel mio spirito lo raccomando soltanto a coloro i quali hanno il gusto della sincerità e niente più, e i quali si appassionano per le crisi dell’anima, fossero anche singolari.

Del resto, queste ideologie sono espresse con un’emozione comunicativa; chi condivide il vecchio gusto francese per le dissertazioni psichiche vi troverà un interesse drammatico. Ho fatto dell’ideologia appassionata. Si è visto il romanzo storico, il romanzo di costumi parigini; perché una generazione disgustata da tante cose, forse da tutto, a parte giocare con certe idee, non dovrebbe tentare il romanzo della metafisica?

Ecco delle memorie spirituali, anche delle eiaculazioni, come quei libri di discussioni scolastiche che interrompono delle ardenti preghiere.

Queste monografie presentano un triplice interesse:

1° — Propongono a molti le formule precise di sentimenti che questi provano a loro volta, ma di cui da soli prendono soltanto una coscienza imperfetta.

2° — Sono un chiarimento su un tipo di giovane uomo che è già frequente, ma che ho il presentimento stia per diventare ancor più numeroso tra coloro i quali sono oggi al liceo. Questi libri, se non verranno troppo diluiti e forzati dagli imitatori, saranno consultati in seguito come documenti;

3° — Ma ecco un terzo punto che è oggetto della mia così speciale sollecitudine: queste monografie sono un insegnamento. Quale che sia il pericolo di ammettere degli scopi troppo alti, lascerei il lettore smarrirsi in modo infinito se non l’ammettessi. Mai mi sono sottratto all’ambizione che ha espresso un poeta straniero: “Tutta la grande poesia è un insegnamento e voglio che mi si consideri come un maestro o niente.”

E con questo invoco la discussione sulla teoria che riempie questi volumi, sul culto di sé. In seguito, dovrò dare delle spiegazioni quanto al mio Scetticismo, come viene definito.

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Sotto gli occhi dei barbari (1a edizione), introduzione alla trilogia

α. Giustificazione del culto di sé

Essendomi posto come obiettivo quello di mettere in forma di romanzo la concezione che possono farsi dell’universo le persone della nostra epoca decise a pensare da sole e non a ripetere delle formule apprese nel loro studio di lettura, ho pensato di dover partire da uno studio dell’Io. Le mie ragioni le ho esposte in una conferenza del dicembre 1890 al Théâtre d’Application, e sebbene quella dissertazione non sia stata pubblicata, mi pare superfluo riprenderla qui nel dettaglio. Constato che la nostra morale, la nostra religione, il nostro sentimento delle nazionalità sono cose crollate, alle quali non possiamo prendere a prestito delle regole di vita e, nell’attesa che i nostri maestri ci ricostruiscano delle certezze, ci conviene attenerci all’unica realtà, l’Io. È la conclusione del primo capitolo (d’altra parte piuttosto insufficiente,) di Sotto gli occhi dei barbari.

Si potrà dire che quest’affermazione non ha nulla di fecondo, visto che la si trova ovunque. Se è necessario rispondere a questo, rispondo che un’idea prende tutta la sua importanza e tutto il suo significato dall’ordine in cui la mettiamo nel dispositivo della nostra logica. E il culto dell’Io ha ricevuto un carattere preponderante nell’esposizione delle mie idee proprio mentre cercavo di dargli un valore drammatico nella mia opera.

L’egoismo, l’egotismo, l’Io con la maiuscola si sono d’altronde fatti strada. Mentre un gran numero di giovani spiriti, nel loro smarrimento morale, accoglievano con entusiasmo questa scialuppa, si levarono delle recriminazioni, le sempiterne declamazioni contro l’egoismo. Quel clamore fa sorridere: è increscioso che si sia ancora obbligati a tornare su delle nozioni che dovrebbero essere acquisite una volta per tutte dagli spiriti un minimo dissodati. “I moralisti,” diceva con somma chiaroveggenza Saint-Simon nel 1897, “si mettono in contraddizione quando vietano all’uomo l’egoismo e approvano il patriottismo, perché il patriottismo non è diverso dall’egoismo nazionale, e questo egoismo fa commettere di nazione in nazione le stesse ingiustizie dell’egoismo personale tra gli individui.” In realtà con Saint-Simon – è una cosa che tutti i pensatori hanno ben visto – la conservazione delle corporazioni deriva dall’egoismo. Il meglio che si può pretendere è di combinare gli interessi degli uomini in modo tale che l’interesse particolare e l’interesse generale vadano in una comune direzione. E come la prima generazione dell’umanità è quella in cui ci fu il maggiore egoismo personale, poiché gli individui non combinavano i loro interessi, così dei giovani sinceri, non trovando, al loro ingresso nella vita, un maestro, “assioma, religione o principe degli uomini”, che gli s’imponga, devono per prima cosa servire i bisogni del loro Io. Il primo punto è esistere. Quando si sentiranno abbastanza forti e in possesso della loro anima, guarderanno allora l’umanità e cercheranno una via comune nella quale armonizzarsi. È la preoccupazione che mi muoveva nei giorni d’amore ne Il giardino di Bérénice.

Ma con un esame attento anche solo dei titoli di queste tre piccole suites, andiamo a sondare con certezza e senza tentennamenti la loro essenza e la loro disposizione. […]

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Sotto gli occhi dei barbari (2a edizione), introduzione al romanzo

Ecco una breve monografia realista. La realtà varia con ciascuno di noi, poiché è l’insieme delle nostre abitudini di vedere, sentire e ragionare. Descrivo un essere giovane e sensibile la cui visione dell’universo si trasforma con frequenza, e che conserva una memoria molto nitida di sei o sette realtà differenti. Pur curandomi della relazione tra le idee e della piacevolezza del vocabolario, mi sono soprattutto impegnato a ricopiare con esattezza i quadri dell’universo che ritrovavo sovrapposti in una coscienza. In questo consiste la storia degli anni di apprendistato di un io, anima o spirito che sia. […]

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Sous les yeux des barbares, incipit del romanzo

Nacque nell’Est della Francia e in un ambiente in cui non c’era nulla di meridionale. Compiuti i dieci anni venne messo in collegio, dove, in una grande miseria fisica (sonno ridotto, freddo e umidità delle ricreazioni, alimentazione grossolana), dovette vivere tra bambini della sua età, ambiente intermedio infelice, perché a dieci anni sono proprio i futuri insolenti a dominare con le loro spacconerie e il loro vigore, ma colui che sarà più tardi un galantuomo o uno spirito raffinato a dieci anni è ancora una figura indistinta.

Fu iniziato ai rudimenti della disciplina da un soggetto apoplettico, il signor F…, il professore più forte che si potesse vedere, perché con una sola mano quel pedagogo strappava l’orecchio di un allievo, che per giunta per questo diventava ridicolo. Fino all’epoca della sua classe di retorica (1), non gli fu insegnato nient’altro che della materia arida, sbiadita e formalista che masticava macchinalmente senza trovarvi alcun sapore.

In quelle cattive condizioni materiali e morali, mancando di globuli sanguigni e sentendosi diverso dai suoi professori e compagni, divenne timido. E la sua agitazione fatta d’orgoglio e malessere non piacque.

Siccome la piega del suo spirito portava il nostro soggetto a generalizzare, cominciò da allora a non pensare alcunché di buono riguardo gli uomini.

Presto, per risollevarsi da quelle umiliazioni quotidiane, fece delle letture che gli diedero delle certezze affrettate e colme d’acredine sulle cose.

Re Rhamses II è accusato dai conservatori del Louvre di avere usurpato una sfinge ai suoi predecessori. Il giovane uomo di cui parlo inscrisse allo stesso modo il suo nome su alcune truppe di sfingi che legittimamente appartenevano a dei letterati francesi. S’inorgogliva di strani dolori che non aveva inventato.

Si sarebbe tentati di credere che si diede, come tutti i giovani spiriti curiosi, alle poesie di Heine, al Thomas Graindorge di Taine, a La tentazione di Sant’Antonio e a I fiori del male; queste furono effettivamente le sue letture, e altre ancora, delle peggiori e delle migliori, ma in particolare nelle “biblioteche di quartiere” del liceo si appassionava alle audaci dottrine che sono meglio esposte anziché refutate dalla stirpe classica che va dall’affascinante Jouffroy a Caro. È là che si trova il grande segreto dell’educazione di un giovane uomo; s’interessa agli autori che si pretendeva di non fargli conoscere se non per sminuirli ai suoi occhi. A diciott’anni si era ingozzato con i più audaci paradossi del pensiero umano, e con essi sviluppò, forse male, la propria armatura, ma ne fece una sostanza sentimentale. E il tutto sfociò alle seguenti visioni, delle quali si è conservato il disegno di sogno aumentato forse dalla messa a distanza.

(1) La “prima” nel moderno sistema scolastico francese. Esso non coincide in alcun modo con quello italiano.

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Partenza inquieta

Incontra il signor sistema a dorso del somaro pessimismo.

Il giovane uomo e la giovanissima donna il cui felice ornamento e la cui avvenenza cospargono di balsami l’aurora fiorita, s’incamminano mano nella mano e il sole li guida.

“Amico, stia attento, non sta per annoiarsi?”

Sulle sue labbra, la sua squisita anima sorrideva al giovane, e i narcisi si flettevano sotto il suo respiro leggero.

“Non speriamo più”, disse il ragazzo, stanco, “che il mio pallore sia la carezza livida dell’alba; sono turbato da questa mia partenza. Il mio cuore ha esaurito in passato, in altri petti, la sua energia, il supremo profumo che mi fa volgere febbrilmente verso mete sconosciute evaporerà nella bruma dei sentieri incerti in cui mi addentro.

Eppure, con le sue dita bianche la fanciulla afferrò sul verde stelo di un nenufaro una libellula dallo smalto vibrante, e gettando verso il sole l’insetto che luccica e che si spezza di capriccio in capriccio, e ingenuamente sorrideva. – Ma lui contempla il proprio pensiero, che ha i brividi nella sua anima dolente. – Lei riprese con onestà: “Perché vuole isolarsi dall’universo? Non vuol conoscere la dolcezza delle nuvole, dei fiori sotto la rugiada e qualche volta delle mie canzoni?”

“Ah, vicino ai maestri che concentrarono la saggezza delle ultime sere, come non posso imparare la certezza! E come il mio sogno mattutino possiede ciò che sospira!”

“Che importa”, riprese più tenera, chinandosi su di lui, “la sua saggezza non è forse dentro di lei? E se le sono affezionata come mi sembra che lei lo sia, non vuol persistere?”

Lui sciolse le mani conserte della fanciulla e, calpestando con i piedi i fiori felici, errava tra la frivolezza delle libellule.

Ma lei lo seguiva da lontano, delicata e con anche meravigliose.

Sull’erba, lungo un torrente disseminato di palme, di palmipedi e di bambini svelti e vivi, vicino alla sua casa solitaria rinfrescata dalla brezza che penetra attraverso imposte, il padrone, appoggiato a un vinco morto, contempla la fuga dell’acqua sotto la tristezza dei salici. Il suo pesante vestito, la sua faccia pallida dalle larghe palpebre, la sua attitudine professorale e riservata, non troverebbero in nessun luogo la loro giusta atmosfera.

Il giovane si fermò, e il suo cuore batteva all’avvicinarsi della verità. […]

Maurice Barrès

*traduzione di Alfonso Zadro

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